Ancora Fukuyama sulla fine della storia
A quasi trent’anni di distanza dalla pubblicazione del suo famoso articolo “La fine della storia” (1989), poi seguito dall’ancor più celebre libro “La fine della storia e l’ultimo uomo” (1992), il politologo nippo-americano Francis Fukuyama non demorde affatto e continua a sostenere – pur con leggere modifiche – la sua tesi di fondo. Si rammenterà, a tale proposito, che prendendo spunto dalla caduta del muro di Berlino, avvenuta nel 1989, Fukuyama pronosticava che dopo l’implosione dell’Unione Sovietica non esistevano più alternative plausibili alla democrazia liberale. Ciò significava che a suo avviso questo tipo di ordinamento era destinato a propagarsi, senza incontrare ostacoli significativi, all’intero pianeta. A partire da simili premesse era plausibile pensare che la stessa democrazia liberale potesse, e dovesse, essere “esportata” nei contesti storico-geografici in cui non era ancora insediata. Al 2004 risale infatti un altro suo saggio, intitolato significativamente “Esportare la democrazia”. Inutile rammentare il grande impatto che tali opere ebbero sul mondo politico ancor più che su quello accademico, consentendo da un lato all’autore di sviluppare una brillante carriera in prestigiose università degli Stati Uniti e, dall’altro, di figurare quale consulente di enti governativi americani. Ora Fukuyama torna sull’argomento con un altro articolo, in cui afferma di essere stato frainteso da molti. In un primo momento sembra quasi rinunciare al concetto di “fine della storia”, che lo ha per l’appunto reso celebre, equiparandolo ad altri certamente più innocui quali “sviluppo” e “modernizzazione”. Il 1948 e dintorni
Un inedito ed eccezionale documento, figlio del suo tempo, rappresenta la precisa fotografia del clima di odio, di rancore, di silenziosa, strisciante guerra civile in atto nel Paese nell'immediato secondo dopoguerra, di come in molti si covava la certezza di una rivoluzione comunista ormai prossima, provocando paura, tensione e, come leggeremo tra qualche riga, delazioni di ogni sorta su presunti fatti e misfatti dei “terroristi rossi”, questi “velenosi serpenti” che avvelenavano le notti insonni dei notabili democristiani, dei quali gran parte provenienti dalle file del crollato regime fascista e “gattopardescamente” adattatasi alla nuova realtà. Non pochi, infatti, si erano infiltrati nello stesso PCI, provocando non poche tensioni nella base dello stesso partito, uomini e donne che avevano subito ogni sorta di angheria nel corso del ventennio, molti dei quali erano stati costretti ad emigrare in Francia se non oltre Oceano, altri avevano pagato con il licenziamento, la miseria, il carcere e il confino politico. In tanti sottoposti a continui, estenuanti controlli polizieschi, sottoposti al carcere preventivo ogniqualvolta veniva in visita qualche alto funzionario del regime. Contro i “Guru” del web
Quello appena trascorso è stato un mese di agosto parecchio movimentato per i miliardari della Silicon Valley: ci sono state le dichiarazioni di Mark Zuckerberg riguardo le pressioni subite dal suo staff risalenti al 2021, ad opera della Casa Bianca, per censurare alcuni contenuti sul Covid e sul figlio del Presidente Biden - un vero e proprio contrappasso, se si pensa a quando il proprietario di Facebook decise di bloccare il profilo di Trump, allora su Twitter, durante la campagna elettorale del 2016, con il plauso di tutti gli utenti. Il 24 del mese è stato arrestato in Francia il fondatore di Telegram, Pavel Durov, con accuse alquanto generiche di frode (ma forse la sua unica vera colpa è quella di essere russo di nascita). Infine, l’intervista di Elon Musk proprio al tycoon, che ha sollevato un vespaio di polemiche, soprattutto in Europa. La conversazione, durata circa 2 ore e iniziata con 40 minuti di ritardo per un presunto cyberattacco, tra il numero uno di X (ex Twitter) e Trump, ha mostrato quale sia il vero volto della comunicazione sul web. Perché l’intervista di Musk ha dato così tanto fastidio? In colonia il 25 luglio 1943
Nel luglio del 1943 ero nella colonia estiva Saltino-Vallombrosa, nell’ Appennino Toscano; le colonie erano previste dal regime fascista per i figli degli operai, mio padre lavorava alle officine Galileo a Firenze. Della precedente al mare, a cinque anni, avevo un pessimo ricordo, ma erano allora le uniche possibilità di vacanza. Superata la nostalgia acuta dei primi giorni per il distacco dalla famiglia, questa volta la maggiore età, undici anni, mi fu di considerevole aiuto. Il ritmo dei giorni che passavano lenti era scandito dalla cerimonia mattutina dell’alzabandiera: i ragazzi e gli adulti si allineavano nel piazzale antistante l’edificio della colonia e quando compariva la direttrice la bandiera veniva issata, rullavano i tamburi e risuonavano i saluti al Duce e al Re. Coreografie e marce di tipo militaresco completavano la cerimonia. Ero addetto all’alzabandiera insieme ad un altro compagno: la manovra ci permetteva di ritardare la partecipazione alle noiose esercitazioni successive. La domenica dell’ultima settimana i ragazzi erano già schierati in ordine nel piazzale, i tamburi erano pronti, le corde della bandiera tese alla base del pennone. Persisteva la fresca umidità del bosco, la giornata si annunciava limpida e il sole era ancora nascosto dal monte sopra la colonia. La spada di Filos: un trentino tra napoletani e francesi
Francesco Antonio Filos nacque il 2 marzo 1772 a Mezzolombardo, un piccolo centro della Contea del Tirolo, da Giuseppe Antonio Filos e Caterina Sevegnani originari di Praso nelle Valli Giudicarie nei pressi del fiume Filos affluente del Chiese. Nel '500 un ramo della famiglia si stabilì a Mezzolombardo dove ottenne il nobile lignaggio da Ferdinando II d'Asburgo. Studiò prima in Baviera presso il collegio dei Canonici di Pollingen e poi a Innsbruck dove si laureò in giurisprudenza. Nel 1793 fondò un club di ispirazione giacobina che gli attirò i sospetti della polizia asburgica e la condanna per attività clandestina. Liberato dal carcere si trasferì a Brescia, all'epoca governata dalla Serenissima Repubblica di Venezia, dove conobbe Gioacchino Murat impegnato nella campagna d'Italia. Nel 1796 partecipò ad una missione diplomatica a Lavis di Trento dove una compagnia di partigiani tirolesi aveva organizzato un attentato alle truppe francesi di Napoleone che, per rappresaglia, aveva ordinato il saccheggio del paese allorché Francesco Filos riuscì a far desistere il generale francese dai suoi intenti criminali. Leggi tutto: La spada di Filos: un trentino tra napoletani e francesi Altri articoli... |
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