Stato e mercato: un rapporto controverso
Per farla breve, chi scrive sostiene che è tendenza costante del nostro pensiero quella di attribuire un’indipendenza assoluta a entità che, invece, sono soltanto prodotti dell’azione umana quando interagisce con il mondo circostante. Siamo, per così dire, indotti quasi naturalmente a ritenere che esistano enti che sfuggono al nostro controllo, e debbano pertanto essere lasciati liberi di svilupparsi senza alcuna interferenza da parte degli esseri umani. A mio avviso non vi possono essere entità che, pur originate dalle nostre azioni e capacità concettuali, risultino impermeabili all’intervento umano. Eppure la storia del pensiero – non solo filosofico – ne è piena. Esse vengono “divinizzate”, com’è accaduto con la Storia, con una particolare classe sociale, con l’uomo stesso concepito in termini astratti. Noto allora che oggi alcune correnti liberali, particolarmente in ambito economico, corrono il rischio di divinizzare il mercato. Non solo. Ritengo pure che proprio il liberalismo abbia trovato l’antidoto per evitare le divinizzazioni di cui sopra. Tale antidoto è l’individualismo, vale a dire una concezione del mondo che antepone la libertà dell’individuo a qualsiasi altro valore. Rammentando Fure,t si può notare che del liberalismo c’è una versione economica d’ispirazione scozzese (Smith e Bentham), e una d’ispirazione francese (Constant e Tocqueville). Tuttavia non intendo contrapporle o addirittura affermare che è migliore la seconda. Anche perché, per formazione culturale, faccio più riferimento al pensiero britannico che a quello francese. È del tutto ovvio che Adam Smith non abbia mai inteso divinizzare il mercato. Corrono questo rischio, invece, alcune scuole economiche contemporanee, per esempio quella di Chicago. Ippolito Nievo, patriota garibaldino e scrittore
Patriota garibaldino e scrittore, la morte tragica e misteriosa nell’età giovanile lo ha fatto ascendere all’olimpo degli eroi. La vita e le imprese dal castello di Fratta ai bastioni di Calatafimi, più volte riportate e commentate, meritano sempre un doveroso ricordo. Ippolito nacque il 30 novembre 1831 a Padova, da famiglia nobile friulana, i Colloredo Mels, titolari del feudo di Monte Albano (Friuli) dove sorge il castello di Fratta. Furono questi i luoghi frequentati nell'infanzia e poi descritti nel suo romanzo principale. A 15 anni scrisse i Poetici componimenti fatti l'anno 1846-1847, semplici poesie scolastiche in stile classicista; a diciassette anni, affascinato dal programma mazziniano, fu coinvolto nella fallita insurrezione di Mantova, ma riuscì a sfuggire alla terribile repressione austriaca. Proseguì gli studi al Liceo Virgilio, di Mantova dove conobbe Matilde Ferrari, suo primo amore. Si laureò in legge all’università di Padova. Nel 1855, a 24 anni, deluso dalla situazione politica italiana, si ritirò a Colloredo, nel castello di Fratta, dove iniziò Le confessioni di un italiano, che terminò nel 1958. L’opera fu pubblicata postuma nel 1867 da Le Monnier, inizialmente con il titolo Le confessioni di un ottuagenario perché non apparisse troppo “garibaldino” dal momento che questa era una posizione politica non gradita da tutti. Per lungo tempo il lavoro rimase conosciuto con questo titolo. Leggi tutto: Ippolito Nievo, patriota garibaldino e scrittore Il centenario della nascita di don Lorenzo Milani
Fu un prete scomodo; ma fu, soprattutto, un Maestro di vita, un pungolo costante, un punto di riferimento per la pedagogia e la didattica di una Scuola di inizio anni ’70 del secolo scorso. In quei tempi non così lontani, infatti, sulle porte delle scuole –metaforicamente- ancora era scritto il motto squadrista «Me ne frego». Con don Lorenzo, invece, si cambiò e sulle porte della scuola comparve «I care». Un interesse che spinse molti a “fare ed essere Scuola”, secondo i criteri di una Istituzione statale, pubblica ed antifascista. A Napoli, tra i primi a parlare in forma diffusa di don Lorenzo Milani e del suo impegno politico-culturale-sociale fu Nino Pino, il preside della Scuola Media “G. Lombardi” alla Sanità. Ancora ricordo la sua prima lezione ad un corso di abilitazione all’insegnamento di materie letterarie (al quale partecipavo); presentatosi con un borsone da viaggio pieno di libri, il preside Pino disse brevemente di sé, poi, tirando fuori, uno a uno, i libri dalla sacca, parlò a noi giovani laureati in lettere in attesa di insegnamento, di ognuno di quei volumi, chiedendo se mai li avessimo letti e cosa ne pensassimo: Vittoria Ronchey Figlioli miei, marxisti immaginari, Ivan Illich Descolarizzare la società, Albino Bernardini Un anno a Pietralata, Umberto Eco Apocalittici e integrati. Quando, poi, dal fondo del borsone estrasse gli ultimi due volumi, aggiunse: «Questi sono gli unici libri risparmiati al rogo del ’68: sono Il libro rosso dei pensieri di Mao Tse Tung e Lettera a una professoressa di don Lorenzo Milani». Leggi tutto: Il centenario della nascita di don Lorenzo Milani Il “Mondo perduto” di Richard Rorty
Non bisogna scordare che per i pragmatisti il linguaggio nasce, ad un certo punto dell’evoluzione biologico-culturale dell’umanità, come mezzo per risolvere problemi. In Davidson, invece, esso spesso appare come un “dato” primitivo e indefinibile, una sorta di schema concettuale di carattere estremamente generale che si fonde con la realtà (essendo quindi indistinguibile da essa). Occorre allora rammentare che dal punto di vista pragmatista il problema del significato (e quello della verità, nella misura in cui può essere chiaramente distinto dal primo) è un problema dotato di senso soltanto in relazione al mondo umano. In natura non v’è significato (né verità). Davidson è realista nella misura in cui ammette l’esistenza di un mondo naturale che non dipende affatto da noi per la sua esistenza, mentre il suo anti-realismo si riduce, a ben guardare, alla constatazione della futilità dei vari tentativi filosofici di costruire teorie del significato (e della verità). Si affaccia a questo punto alla ribalta il problema della possibilità di “schemi concettuali alternativi”. Vittorio Emanuele III, una pecora tra i leoni
Nato a Napoli nel 1869, inizialmente si dimostrò attivo all'interno della politica italiana. Nonostante la triplice alleanza con l’Austria e la Germania preferì riavvicinare il regno d’Italia alla Francia e all'Impero russo. Così, quando nel 1914 le varie potenze europee si dichiararono guerra, fu dapprima un sostenitore della neutralità per poi divenire un moderato interventista. Al termine del primo conflitto mondiale ottenne una vittoria sofferta che gli valse il nomignolo di re-soldato che mal si addiceva alla sua altezza di appena 1 metro e 53. «Effettivamente, come frutto, Vittorio Emanuele non era da vetrina» -racconta Indro Montanelli nella sua Storia d'Italia. «Era cresciuto, ma solo di testa e di tronco. Di arti era rimasto sottosviluppato, e sulle gambe rachitiche si reggeva a stento». Nella difficile situazione del primo dopoguerra, dimostrando sfiducia nelle capacità di governo della classe dirigente liberale, non prese mai decisioni in difesa attiva delle istituzioni, un atteggiamento che si rese evidente il 28 ottobre del 1922, quando, in occasione della marcia su Roma delle camicie nere fasciste, rifiutò di proclamare lo stato d'assedio e affidò l'incarico di formare il nuovo governo a Benito Mussolini. Altri articoli... |
Pubblicazioni mensiliStatistiche
(La registrazione degli utenti è riservata solo ai redattori) Visitatori on lineAbbiamo 130 visitatori e nessun utente online |