Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Solofra e gli eventi del 1799

Condividi

Gli eventi del 1799 toccarono direttamente l’area solofrano-montorese dove le speranze giacobine si erano diffuse nel basso ceto artigiano, che attendeva qualsiasi evento che avrebbe potuto cambiare le cose e tra i “bracciali”, oppressi dalle prepotenze dei padroni. Diversa fu la posizione degli appartenenti al ceto colto, consci della necessità di cambiamenti, anche radicali, ma che dovevano colpire la feudalità, non diminuire l’autorità del re, né stravolgere lo stato delle cose. Si era poi incerti sul “come rinnovare” per i forti interessi economici messi in gioco, per cui appena la situazione fu presa in mano da elementi del ceto inferiore e appena si profilarono forti rischi, questo ceto divenne antirivoluzionario. Pur tuttavia molti suoi elementi si schierarono senza preclusioni dalla parte della rivoluzione.

Nella prima insurrezione del 1794 ci fu l’arresto del professore e giurista Giuseppe Maffei e furono coinvolte diverse persone, artigiani e mercanti, che avevano residenza ed attività a Napoli, mentre i giacobini solofrani  furono in collegamento con quelli di Montoro attraverso la famiglia del martire Vincenzo Galiani  imparentato con i Landolfi di Solofra.

Quando, dopo il 1794, le cose precipitarono, tra i delusi del voltafaccia fatto dal re, oltre al Maffei, ci furono Felice Giannattasio e Leonardo Santoro che furono guardati con sospetto perché si opponevano al blocco di innocue attività di progresso culturale e scientifico. Solofra, per via dell’attività mercantile che diventava pericolosa in un simile frangente, fu tra quelle terre verso cui si volsero le attenzioni della corona. Fu infatti inviato un corpo di fucilieri che si insediò nel castello, e furono posti sotto stretta vigilanza coloro che avevano più diretti contatti con Napoli, soprattutto i mercanti e i viaticali che formavano l’anello di unione tra la capitale e questa zona dell’interno.

In questa situazione giunse, nel settembre del 1798, l’obbligo di arruolarsi nell’esercito del re, a cui Solofra partecipò con 50 “miliziotti” non senza episodi di renitenza. Forte fu la delusione quando si seppe, nel dicembre di quell’anno, che il re era fuggito in Sicilia, lasciando aperta la porta ai francesi, a cui se ne aggiunse un’altra ancora più grave, che fu una pugnalata al cuore della Solofra mercantile, quando si seppe che sulle navi del re era stato imbarcato anche tutto il denaro dei Banchi per cui ai mercanti solofrani, che sui Banchi poggiavano la loro attività, erano rimaste “fedi di credito” che non potevano essere cambiate.

Con questo spirito fu accolta l’entrata dell’esercito francese nel napoletano, gennaio 1799, che portò alla liberazione dai castelli della zona  - Solofra, Montoro, Sanseverino -  dei prigionieri politici tra cui Ferdinando Landolfi incarcerato per sospetti legami con i Galiani di Montoro. E con questo spirito furono accolti i repubblicani delle “municipalità” da coloro, una parte consistente, che erano spinti dalla prospettiva degli auspicati cambiamenti, mentre non mancarono quelli  che erano animati da una moderata speranza.


La truppa repubblicana, guidata da Eleuterio Ruggiero, giunse a Solofra da Turci, vi sostò alcuni giorni prendendo possesso del palazzo Orsini e impiantando, il 26 gennaio, l’albero della libertà nella piazza centrale, con il concorso di gruppi giacobini o di simpatizzanti, guidati dal medico Antonio Garzilli e alla presenza di una folla in parte partecipe ed in parte attenta osservatrice. Seguirono momenti di esaltazione che coinvolsero “i frati agostiniani che accolsero nelle loro sale il Ruggiero e i suoi comandanti”, abbandonandosi a gesta inconsulte e a “brindisi non decenti” fatti durante un banchetto dopo la presa di possesso della municipalità solofrana. A S. Agata, che fin dall’anno prima era diventata Universitas autonoma col distacco da Serino, si formò spontaneamente una municipalità: non ci fu come a Solofra la defenestrazione di un’amministrazione che rappresentava il vecchio, ma una sorta di continuità (lo stesso sindaco precedente fu uno della municipalità) il che mise in evidenza l’esistenza in questo casale di una precedente cellula rivoluzionaria.


Intanto la rivoluzione cominciò a mostrare il suo volto: al posto dei cambiamenti sperati ci furono disordini, violenze e sopraffazioni. I francesi si mostrarono veri conquistatori con le distruzioni arrecate al palazzo dell’Orsini. Presto emersero tutte le contraddizioni di un modo di pensare diverso, quando si videro i frati di S. Agostino accogliere con feste e banchetti l’esercito dei “liberatori” ed uno di essi gridare nelle strade che “voleva ammogliarsi e voleva non una moglie ma due”. Era un pensare lontano ed estraneo che non poteva far breccia in situazioni che conoscevano la solidità dalla tradizione, un pensare che non aveva forza e che sapeva tanto di un’altra sottomissione. Lo spirito conservatore della società solofrana trovò modo in questo frangente di consolidarsi.

Si avvertì inoltre che l’esercito non era organizzato, come quello che da Solofra scese a Montoro per “democratizzare” quei paesi, che non erano finiti i gravami insopportabili che anzi aumentarono, che c’erano ancora atti di violenza, predazioni nelle chiese, nelle case e nei campi fatte dalle truppe francesi, da briganti, ma anche da “varie persone di ogni età e condizione”. Poi giunse la notizia, da Pompei e da Ercolano, che i francesi avevano cominciato ad asportare tutti i reperti archeologici e furono portate le rimostranze a Leonardo Santoro che aveva studiato i preziosi pezzi della medicina romana venuti alla luce da poco. Per questi motivi, quando a pochi giorni dalla costituzione della repubblica cominciarono ad arrivare notizie di insofferenze e poi dell’insurrezione di Forino del 3 febbraio, il fermento fu forte. A Solofra la situazione era saldamente in mano ai municipalisti, anche perché la feudataria, una Caracciolo di Avellino, aveva permesso l’arruolamento di reclute per l’esercito repubblicano. A S. Agata invece gruppi antirivoluzionari abbatterono l’albero della libertà, a cui risposero vari centri del montorese dove si diceva che era giunta, da Montella, financo una lettera del re.

Per sedare questa situazione di forte fermento e contrapposizione fu inviato, il 16 febbraio, da Napoli Ettore Carafa con un gruppo di 800 soldati, che aggravò le cose per via degli alloggiamenti e perché alimentò un clima di persecuzioni e di guerra civile specie nelle campagne. In questo periodo in diversi paesi varie volte furono abbattuti gli alberi della libertà e poi ripiantati, a S. Agata questo avvenne ancora una volta, mentre in località “chiusa di Montoro”, nel marzo, si ebbe uno scontro con le truppe del Duca d’Andria, che fu a favore delle forze della controrivoluzione.

Intanto giunse la notizia che il cardinale Ruffo con l’esercito borbonico saliva dalla Calabria per cacciare i francesi, allora i rivoluzionari si prepararono all’offensiva, di questi fecero parte i  repubblicani santagatini che disarmarono il paese requisendo “80 fucili, armi bianche” e si diressero verso Avellino, altri, tra cui diversi solofrani, andarono a Salerno, dove c’era un vascello inglese, a sostenere l’attacco dei francesi.

La partenza degli elementi rivoluzionari più agguerriti dette forza alla controrivoluzione in tutti i paesi della zona  - iniziò il 20 aprile -  dove furono abbattuti gli alberi della libertà, furono suonate le campane a gloria e caddero diverse municipalità. Quelle di S. Agata e di Solofra furono abbattute negli ultimi giorni di aprile. Le truppe controrivoluzionarie, guidate dal colonnello Costantino de Filippis, si accamparono (dal 25 aprile) tra Serino e Montoro con varie postazioni e col grosso a Piazza di Pandola di Montoro. A S. Agata c’era la truppa comandata da Mariano d’Arienzo, a Solofra, su Turci, c’era il comandante Pasquale Ronca, a Montoro il colonnello Pasquale Grimaldi, tutte persone del posto.

Questa era la situazione quando giunse la notizia dell’avvicinamento di una colonna repubblicana (“una forte truppa di Francesi e Patrioti”), guidata dal generale Matera, proveniente da Nocera. Da Montoro fu richiesta, tanto a Solofra che a S. Agata, gente armata, per cui “furono suonate le campane all’armi, si armò la popolazione, sacerdoti secolari e regolari, galantuomini e plebei”. Nella zona si ebbe uno primo scontro a Montoro, poi ci fu la battaglia di S. Angelo di S. Severino (detta anche di Forino), il primo maggio, quando furono respinti “Francesi e Patrioti”, mentre le truppe del De Filippis, sconfitte a Monteforte, furono costrette a ritirarsi tra i monti di Serino e di Giffoni. A Montoro rimase una truppa del re che fu mantenuta dalle popolazioni: a Solofra il 20 maggio furono raccolte delle somme tra gli “Amministratori” e i “galantuomini benestanti”.

Mentre ciò avveniva nelle campagne, la truppa controrivoluzionaria solofrano-santagatina partecipava agli scontri alle porte di Napoli. Diversi solofrani furono incarcerati ai Granili, mentre a Castel Capuano e poi a Castel dell’Ovo fu carcerato il figlio del Maffei, Giacinto, studente appena diciassettenne trasferito poi a Gaeta e “nella Real Fabrica nuova del Ponte della Maddalena” fu ristretto Michele di Agnello.

Le municipalità rivoluzionarie del solofrano-montorese erano dunque cadute prima dell’arrivo del Ruffo, e ciò perché i ceti artigiano-contadini erano impauriti dai saccheggi e dalle devastazioni delle truppe francesi e dei vari repubblicani di turno. La partecipazione massiva alla controrivoluzione si inquadra benissimo nelle caratteristiche dei ceti solofrani che avrebbero accolto la rivoluzione se questa si fosse mantenuta su binari moderati, ma ciò non poteva avvenire per un moto che aveva preso le caratteristiche francesi. Come in ogni guerra civile la situazione fu estremamente confusa, ci furono ritorsioni, rivalse, esplosero odi e contrasti locali, furono impartite condanne senza la possibilità di difendersi, considerevoli furono i danni ai beni delle persone compromesse, che subirono saccheggi e incendi e le famiglie persecuzioni. Spesso ci si faceva giustizia da sé come successe ai Caraviello che subirono l’incendio della loro casa nel novembre del ’99 da alcuni viaticali di Nusco.

Furono condannati all’esilio a Marsiglia Serafino Garzilli e Nunzio Giannattasio, mentre Giuseppe Trombone, il fratello di Gaetano, oltre ad essere incarcerato ebbe i beni sequestrati, così pure gli Arduino, Gaetano e Michele, condannati per “reità di stato” col sequestro dei beni, tra i condannati ci furono pure Bartolomeo e Giuseppe Vigilante. Solofra subì la repressione messa in atto nelle province ad opera dei cosiddetti “visitatori”, che furono il centro di vendette private o furono essi stessi soggetti di repressione e potettero farlo perché aiutati da persone del posto. I collaboratori del visitatore Ludovici, a Solofra esiliarono Carlo Grasso e Antonio Garzilli,

Il bilancio della rivoluzione fu negativo per Solofra (“il più ricco paese della provincia”), che vide distrutte le sue risorse economiche. I finanziatori subirono forti perdite non solo per la distruzione delle loro fedi di credito nei Banchi napoletani quanto per la effettiva perdita di intere partite di arrendamenti  (“oltre cinquecentomila ducati”) che furono letteralmente cancellate. Un danno considerevole fu prodotto all’artigianato del battiloro solofrano che non potette più lavorare questo metallo, perché da Napoli, che ne aveva la privativa, fu imposto, da parte dei battiloro napoletani (tra cui molti solofrani) che formavano una forte corporazione, che si lavorasse nelle botteghe solofrane solo l’argento. Il danno fu irreversibile perché le botteghe furono costrette a chiudere e questa arte, che dopo la concia, era la più rappresentativa, decadde definitivamente tanto che a metà ottocento c’erano a Solofra appena cinque botteghe che battevano solo l’argento (contro le cento botteghe di cinquanta anni prima). Ancora si perdette la lavorazione della pergamena, che prima della rivoluzione era tanto fiorente da meritare la segnalazione del Galanti che lo cita come il prodotto “più qualificante” della concia solofrana. Restava la concia pur essa fortemente ridotta tanto che a metà ottocento le botteghe erano solo una trentina rispetto alle oltre sessanta di prima della rivoluzione.

Ancora, un segno della situazione di stallo e di arretratezza che si visse dopo la rivoluzione fu quella delle strade, tra tutte basta citare la vicenda della strada di Turci, che permetteva il fiorente commercio con la Puglia, via Atripalda, della quale prima della rivoluzione era stato progettato il rifacimento con la partecipazione predominante della Universitas solofrana rispetto alle altre interessate e che in seguito agli eventi rivoluzionari fu abbandonata a sé (sia il progetto che la strada), tanto che in alcuni periodi dell’anno rimaneva non praticabile.

Infine bisogna citare il “prestito forzoso”, che l’Universitas fu costretta a contrarre nel settembre del 1799, con mutuo ad interesse scalare per “riparare” alle spese fatte per “sostenere le milizie di Ferdinando IV nella riconquista del regno”, un debito estinto soltanto nel 1834.

Si spiega così perché a Solofra lo spirito rivoluzionario covò sotto la cenere, accogliendo le istanze rivendicative che provenivano dalle zone più sensibili, tanto che qui si formarono ben quattro vendite carbonare che daranno un contributo non indifferente ai giorni della rivoluzione carbonara.

 

Statistiche

Utenti registrati
137
Articoli
3182
Web Links
6
Visite agli articoli
15369582

(La registrazione degli utenti è riservata solo ai redattori) Visitatori on line

Abbiamo 584 visitatori e nessun utente online