L’antico rapporto tra medicina e filosofia
Contrariamente a quanto pensano i più, una linea di confine netta tra filosofia e medicina non può essere tracciata affatto. Questo perché la medicina ha uno statuto epistemologico particolare. E’ senz’altro una scienza naturale poiché si occupa di curare il nostro corpo. Ma, allo stesso tempo, è scienza umana giacché il vero medico vede sempre il paziente nella sua totalità di mente e corpo che tra loro interagiscono. Occorre insomma pensare a una concezione unitaria dell’essere umano, in quanto tale distante da quella - di stampo cartesiano - che invece pone tra corpo e mente (o spirito, come si diceva un tempo) una divisione artificiosa. Ciò condusse una buona parte della filosofia occidentale ad adottare un dualismo forte, incapace però di costruire ponti tra le due suddette dimensioni. Al punto che Descartes dovette inventarsi la “ghiandola pineale” per spiegare un fatto evidente a tutti, e cioè che corpo e mente (o spirito) interagiscono costantemente, l’uno influenzando l’altra e viceversa. Le spinte al rinnovamento della professione medica sono oggi molto forti, in considerazione di modificazioni della società che non possono consentire compartimenti scientifici e operativi caratterizzati da una scarsa mobilità sociale e professionale. Sino a oggi la professione medica ha teso ad esaltare la funzione terapeutica, lasciando ai margini quella preventiva e riabilitativa. Ovviamente qui non si tratta di un fenomeno derivante solo da volontà, ma soprattutto dalle strutture sanitarie esistenti: in effetti sono state le strutture sanitarie a esaltare il momento terapeutico, e anche i tentativi fatti in materia di prevenzione sono stati rapidamente distorti oppure imposti da problemi congiunturali di salute pubblica. Firenze 1944, un’estate da” sfollati”
Gli “sfollamenti” spostamenti, coatti o volontari, della popolazione civile dalle zone di maggior pericolo, sono una drammatica conseguenza delle guerre. Nella parola è esplicita l’entità ed il modo in cui questo avviene: un gran numero di persone, compresi vecchi, malati e bambini, si spostano in modo disordinato, spesso con mezzi di fortuna, verso sistemazioni precarie, sotto l’incubo dei bombardamenti, senza sapere se potranno mai tornare alle loro case. É sotto i nostri occhi quanto sta avvenendo a Gaza e in Ucraina. Lo sfollamento della mia famiglia durante l’ultimo conflitto mondiale non avvenne per fortuna in condizioni drammatiche, ma comunque, abbandonare la nostra abitazione non fu piacevole; rimanere ci avrebbe consegnati ad un destino molto diverso. Nella primavera del 1944, abitavamo a Bellariva, un quartiere periferico a nord est di Firenze, sulla riva destra del fiume Arno. Era stato costruito un ponte, sommerso sotto l’acqua del fiume, non visibile agli attacchi aerei, per permettere la ritirata dell’esercito tedesco. La nostra casa era situata a non più di cento metri dal ponte e l’avvicinarsi del fronte sconsigliava di rimanere a Bellariva, e quindi di “sfollare”. Fummo fortunati: una sorella di mio zio era stata segretaria di un tedesco rappresentante di articoli d’ufficio. Ritornato in Germania durante la guerra, la zia aveva lasciato libera l’abitazione nella zona di san Gervasio, sotto le colline di Fiesole, una zona più sicura. Bianca, questo era il suo nome, si dichiarò disponibile ad ospitare non solo suo fratello e la moglie, ma anche la mia famiglia, il sottoscritto di dodici anni, i miei due fratelli di dieci anni e di tre mesi, i genitori e la nonna materna. “Qui si sa l’Italia o si Muore”, anzi no…
Il recente film Campo di battaglia del regista Gianni Amelio vuole essere un atto d’accusa contro le atrocità della guerra, descrivendo lo scenario del fronte italiano durante il Primo conflitto mondiale e, in particolare, il fenomeno delle automutilazioni che i soldati si infliggevano pur di non ritornare a combattere. Peccato che la pellicola sia l’ennesimo tentativo di sminuire la portata storica di quell’evento nella Storia d’Italia, inserendosi appieno nel filone di quel “negazionismo della Vittoria” che da decenni ripropone i soliti cliché anti-nazionali: cioè che la Grande Guerra è stata causata dal nazionalismo brutto e cattivo e che i soldati erano soltanto una massa di contadini analfabeti, mandati a morire senza capirne il perché. Si dimentica, però, che quella guerra l’Italia l’ha vinta, completando il suo Risorgimento e raggiungendo così la sua Unità nazionale, al costo di 600 mila caduti, tra i quali innumerevoli medaglie al valore, e una serie di episodi eroici che hanno visto protagonisti proprio quei “poveracci” dei soldati italiani. Le parole dello stesso Amelio, intervistato da “Corriere TV” sono emblematiche: «Le guerre sono causate dalle dittature» - ma nel nostro caso di quale dittatura si sta parlando non si capisce - mentre Alessandro Borghi, il protagonista del film, rincara la dose così: «Io non sono un nazionalista, non sono per la patria, non sono un italiano convinto, non sono un italiano orgoglioso» e, dopo aver sermoneggiato su libertà e immigrazione, conclude: «casa vostra è un indirizzo, che c’è un civico, se vengono dentro casa vostra avete ragione, se no casa vostra non è una nazione, non è un Paese». Ancora polemiche sul Premio Nobel per la pace
Destano di nuovo polemiche le candidature al Premio Nobel per la pace. Non si tratta certo di una novità, poiché già in passato sono stati insigniti del Premio personaggi il cui impegno per la pace appariva quanto meno dubbio. Basti citare il premier etiope Abiy Ahmed Ali, vincitore nel 2019 nonostante fosse accusato di aver favorito stragi di civili nel suo stesso Paese. Ma la lista è lunga. In precedenza, ad esempio, sono stati premiati Henry Kissinger nel 1973, Yasser Arafat nel 1994, Barack Obama nel 2009. Tutti personaggi controversi, anche se per motivi diversi. Impegnati in ogni caso in guerre e operazioni belliche che con la pace hanno poco a che fare. L’impressione, insomma, è che i Premi vengano assegnati per motivazioni politiche (o, ancor meglio, geopolitiche) che non dovrebbero ufficialmente avere alcun ruolo. Tra i premiati si salvano soltanto Martin Luther King e pochi altri. Arriva il libro sospeso, un'opportunità per tutti di appassionarsi alla lettura
Dopo il successo del “giocattolo sospeso”, arriva il “libro sospeso”, una nuova proposta del Comune di Napoli con cui i cittadini potranno regalare un libro ad un lettore sconosciuto o con minore possibilità economica. «Chiamiamo alle armi tutti gli editori, i negozi di libri e le cartolibrerie che vorranno aiutarci in questa nuova sfida, a fare in modo che in tutti i negozi possano essere a disposizione dei giovani e di tutti i nostri concittadini dei libri da poter portare a casa e leggere in tutta comodità. Sul sito del Comune di Napoli è possibile trovare il link attraverso cui tutte le librerie e gli editori potranno aderire alla nostra iniziativa. Quindi c’è tempo e ci auguriamo che siano tantissimi tutti coloro che aderiranno e di cui poi daremo notizia. [Chiara Marciani – Assessora alle politiche giovanili]. L’iniziativa del “libro sospeso” è stata avviata con una delibera di Giunta Comunale che ha raccolto diversi contributi e proposte. Leggi tutto: Arriva il libro sospeso, un'opportunità per tutti di appassionarsi alla lettura
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