Johann Georg Ritter von Zimmermann ovvero pensieri dalla solitudine
Nella notte fra il 30 novembre e il 1° dicembre 1827 si spegneva in Lodi, all’età di appena 29 anni, colto dalla tisi polmonare, Carlo Villa, nato a Pavia nel 1798, professore di Umanità per sei anni nel Ginnasio Liceo Imperiale di Lodi e prima ancora per due anni in quello di Sondrio. Uomo di grande ingegno e cultura ma pure di somma modestia, è ricordato unicamente per aver tradotto l’opera sulla solitudine di Giangiorgio Zimmermann, edita a Milano nel 1834 come nono volume della collana “Biblioteca scelta di opere tedesche tradotte in lingua italiana”, dal titolo “Morali Influenze della solitudine sopra lo spirito ed il cuore”. La traduzione di Villa compare pure nei due volumi dell’edizione napoletana del 1827, anno della sua morte, pubblicati a spese del Nuovo Gabinetto Letterario. Una riedizione delle “Morali influenze della solitudine” tradotta da Villa (non anastatica) è stata curata di recente da Maurizio Pirro dell’Università degli Studi di Bari Aldo Moro, con ampia postfazione del medesimo curatore.1 «In questa mortal vita, da mille guai travagliata, nella quale ancora per poco la mia ormai cadente età mi riserba, stretto dal legame dé doveri, e dal grave Carico degli affari quasi schiacciato, niuna consolazione, niun diletto sento che mi rimane fuorché la rimembranza de’ bei giorni goduti nella fuggita mia giovinezza… e assai volte eziandio (persino) il conversare cò trapassati.» Con questa frase inizia la lunga trattazione di Johann Georg Ritter von Zimmermann sulla solitudine. Zimmermann, nato a Brugg, piccola città della Svizzera l’8 dicembre del 1728, morì ad Annover (Regno Unito) il 7 ottobre 1795 all’età di 66 anni Le biografie di Zimmermann sono molto rare e scarne2, ma la più accurata, pur nella sua brevità, rimane quella del prof. Carlo Villa quale introduzione alla versione che contiene anche la bibliografia.3 Leggi tutto: Johann Georg Ritter von Zimmermann ovvero pensieri dalla solitudine Storia del tricolore italiano
La storia del Tricolore italiano è convenzionalmente datata al 7 gennaio 1797, con la sua prima adozione come bandiera nazionale da parte di uno stato italiano. Il Tricolore italiano nella forma attuale deriva non direttamente dalla Repubblica Cispadana del 1797, ma dal Regno di Sardegna, che lo adottò come bandiera nel 1848. La bandiera della Repubblica Italiana è praticamente identica, soltanto con la rimozione dello stemma sabaudo. La vecchia bandiera della Cispadana era infatti in origine a bande orizzontali anziché verticali. In verità le origini remote del Tricolore sono di gran lunga anteriori al 1848 ed al 1797. Franco Cardine, illustre medievista, ha osservato che «i tre colori della nostra bandiera sono […] alla base della liturgia cattolica: e bianco, verde, rosso figurano fin dal medioevo come rispettivi simboli delle tre virtù cardinali: fede, speranza, carità», tanto che «questi erano i colori preferiti del secolo XV per le insegne e gli emblemi». Insomma, tale combinazione cromatica era impiegata già nel Tardo Medioevo, come minimo, per le insegne. Cardine lo riconosceva pur in un articolo giornalistico in cui neppure velatamente polemizzava contro il Tricolore quale simbolo repubblicano e ‘giacobino’. In verità si può risalire ancora più indietro al Medioevo per l’associazione simbolica di bianco, rosso, verde. Scrisse Renato del Ponte, storico d’impostazione tradizionalista romana e studioso di storia delle religioni e del simbolismo: La libertà della ricerca scientifica non può essere assoluta
Negli ultimi secoli la scienza è stata considerata una forma di conoscenza in grado di fornirci una rappresentazione del mondo neutrale e oggettiva, mentre in tempi più recenti si è compreso che la fiducia nella possibilità di determinare un punto di vista “privilegiato” in base al quale effettuare le osservazioni non era plausibile. Considerati i limiti delle nostre capacità cognitive le prospettive sono più d’una, e occorre pertanto passare a una visione funzionale della ricerca scientifica. L’abbandono del punto di vista privilegiato e assoluto comporta l’introduzione del pluralismo all’interno dell’edificio scientifico, e le conseguenze di questo stato di cose sono ovviamente fondamentali ai fini dei rapporti tra scienza e società nel suo complesso. Partendo da tali premesse, si deve notare che la scienza non può isolarsi dal contesto più vasto della cultura in quanto tale; se è vero che essa rappresenta lo strumento migliore per indagare il mondo naturale e quello sociale, è pure legittimo affermare che non vive in isolamento rispetto alla società nel suo complesso. La scienza altro non è che una delle più importanti pratiche umane, e in quanto tale va giudicata sia in riferimento alla storia, sia avendo presenti le altre pratiche umane che con essa interagiscono. Vi è dunque qualcosa di errato nella razionalità semplificatrice che positivismo e neopositivismo hanno attribuito alla conoscenza scientifica: occorre tener conto della complessità del reale e delle interrelazioni che ne formano il tessuto connettivo. Leggi tutto: La libertà della ricerca scientifica non può essere assoluta Apartheid Sionista, analisi storico giuridica
Il termine “Apartheid” si riferiva originariamente a un sistema politico introdotto formalmente in Sudafrica nel 1948, caratterizzato da leggi, politiche e pratiche che imponevano esplicitamente la segregazione razziale, il dominio e l’oppressione di un gruppo razziale sugli altri. Sistemi simili, sebbene non necessariamente definiti apartheid, furono introdotti in altri paesi africani fino a quando non vennero smantellati alla fine dei governi di minoranza razzista. Durante questo periodo, il termine “apartheid” fu adottato dalla comunità internazionale per condannare, proibire e criminalizzare tali sistemi e pratiche che divennero espressamente vietati dal diritto internazionale. L’apartheid è una violazione dei diritti umani e un crimine contro l'umanità. Il crimine di apartheid si verifica quando atti disumani vengono “commessi nel contesto di un regime istituzionalizzato di oppressione e dominazione sistematica da parte di un gruppo razziale su qualsiasi altro gruppo o gruppi razziali e commessi con l’intenzione di mantenere quel regime” Art. 7.2 l.h dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale (CPI), 1998. Il rischio nei processi decisionali
Decidere è un atto al quale è impossibile sottrarsi durante la vita; la parola ha un notevole peso semantico, proviene dal latino de-cidere, tagliar via, mozzare. Un processo decisionale comprende motivazioni, obbiettivi da raggiungere, i mezzi per ottenerli e valutazione di eventuali rischi. Il rischio indica la possibilità di subire o provocare danni in seguito alla decisone intrapresa. L’origine del termine è incerta; secondo alcuni autori, deriva dal greco bizantino rhizikò (sorte, destino) e dal latino medievale riscus e risigus; secondo altri dall'arabo rizq (sec. XII) in cui è richiamato il concetto di un onere non monetario. Nella vita quotidiana le decisioni sono di solito facili e il rischio è basso o praticamente assente, come invitare amici a cena. In quelle di maggior impegno il rischio è sempre possibile, ma può essere ridotto se entra in funzione il pensiero “lento”, riflessivo, consente di valutare meglio il rapporto rischio/beneficio piuttosto che il pensiero “rapido.” La distinzione è stata formulata da Daniel Kahneman, psicologo israeliano, premio Nobel per l’economia nel 2002.
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