Le teste dei Celti
Un simbolo rappresenta il riferimento comune di coloro che vi aderiscono: nella memoria greca della parola, è la tessera di riconoscimento che si usava quando due individui o comunità la spezzavano, per conservarne ognuno un pezzo, di modo che combaciando, l'unione fornisse prova dell'esistenza di un patto. I meccanismi con cui vengono adottati, perciò, quelli per i quali si arriva all’autoriconoscimento ed al senso di appartenenza, dovrebbero indicare abbastanza chiaramente quali siano le motivazioni della scelta; capita però che uno stesso simbolo si faccia leggere in modi diversi, e fra questi forse col tempo si scopre che non la prima, forse nemmeno la seconda, ma una lettura ancora successiva possa spiegare molte più cose di quante gli stessi aderenti avessero pensato. E' un pensiero quasi automatico, nel momento in cui ci si imbatte in una fotografia come questa.
("Sia in Padania ed ovunque in Europa, i Celti erano sempre un gruppo di tribù autonome disorganizzato politicamente. Il venire meno dell’unità politica contribuisce sostanzialmente all'estinzione dell'autonomia Celtica. Per secoli i Romani hanno un pregiudizio innato nei confronti dei Celti e mantengono un repertorio di ostilità. Anche Cicero esprime un'attitudine xenofobica contro i Celti additandoli alla gente Romana tutte le volte che faceva al caso suo. I Romani caricavano le comunità Celte con pesanti debiti contratti tramiti prestiti forzosi e non necessari, ed i Celti difficilmente, semmai, possono avere una equa audizione nel sistema legale Romano per le loro istanze fiscali e politiche. L'indebitamento incomincia a rappresentare una forma di schiavitù verso i burocrati e collettori di tasse romani. Nei loro scritti storici romani (Livio) e politici (Cesare) puntavano a celebrare il carattere nazionale di conquistatori dei romani stessi.
Loro non potevano far apparire i nemici di Roma troppo deboli o facili opponenti, però la loro inferiorità di cultura e morale doveva essere chiara. I Celti erano trattati e guardati in questo contesto. I romani non erano interessati alla loro storia come tale. Le piccole comunità galliche mantenevano una disciplina nel loro stile di vita ed erano disgustati e disapprovavano lo stile di vita dei romani nelle città” - come leggo da questo sito, suppongo dotato di una certa dose di ufficialità). Tralasciando lo stile, cui mi sono permesso di apportare quantomeno modifiche ortografiche, credo che non ci possa esimere da alcune considerazioni. In quella foto, infatti, personalmente ci vedo qualcosa d’altro; per fissare questo pensiero e cercare di trasportarlo al giorno d’oggi, mi fermerei su un campo di battaglia durante la seconda guerra punica, e mi farò aiutare dalla memoria di uno storico come Giovanni Brizzi. La scelta di quel momento storico preciso dell'osservazione, è quella che permetterà di guardare ad un Comandante non romano, e pertanto meno sospettabile della faziosità ipotizzata da coloro che si sentono sempre così invisi al suo potere: parleremo infatti esclusivamente del loro alleato Cartaginese. Questo fu un motivo di accusa sovente mossa al Comandante, ovvero di aver sovraesposto queste legioni barbariche per l’esigenza egoistica di risparmiare i cuoi concittadini. Ma Annibale non era un “egoista” (meraviglia la stessa ipotesi di un giudizio così superficiale), quanto un vero Comandante, e perciò le motivazioni vanno cercate ben altrove. Anzitutto infatti, di veri cartaginesi come lui vi erano nell’esercito solo gli ufficiali, e pertanto nessun concittadino era da difendere nella e dalla pugna; ma soprattutto, perché anche là dove furono utilizzati ampiamente, come avvenne nelle seconde linee della battaglia di Zama, nel territorio africano, non furono certo “risparmiati”, ed anzi se qualcuno fu risparmiato fu appunto per il valore dei veterani d’Italia, una scelta da buon soldato e non certo quella di un attento politico pro domo sua. Ma il secondo e ben più importante motivo, del quale lo stratega Annibale era consapevole, era che i Celti erano davvero, dei pessimi soldati: “intollerantissima corpora”, erano del tutto incapaci di sopportare le fatiche, oltre che il clima e la disciplina. Ed erano anche amanti della gozzoviglia, bevitori sfrenati di vino, orgogliosi, incostanti e rissosi, sempre pronti al saccheggio ed infidi, tanto che minacciavano spesso la vita dello stesso loro comandante, come accadde proprio in pianura padana (ehm...!) durante il soggiorno nell’Inverno del 218… L’elemento più particolare che determinava questa loro incapacità ad essere poco di più che un numero da gettare in prima linea, era un’antico costume religioso, ovvero l’ancestrale modus pugnandi che conservavano, dell’essere cacciatori di teste. Era tale la loro bramosia per tali trofei, che molto spesso i Celti sospendevano perfino la battaglia, perché erano più preoccupati di collezionare questi cimeli, piuttosto che di uccidere un nemico in più. Ora riguardiamo quella foto ed altre, e ricomponiamo i tasselli simbolici dell’autoriconoscimento, riguardiamo gli odiati romani (ricordate...? "Le piccole comunità galliche [...] erano disgustate e disapprovavano lo stile di vita dei romani nelle città"), e diamo un occhio anche a chi li rappresenta sulle comodità dei triclini romani così disprezzati, dando di tanto in tanto qualche ordine, lanciando qualche slogan (1) che si basi sulla conoscenza più che profonda del Furor da tagliatori di teste dei sudditi/guerrieri, pronti alla pugna e scevri di qualsivoglia sapienza tattica, così utili alla causa… |
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