Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Le teste dei Celti

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Un simbolo rappresenta il riferimento comune di coloro che vi aderiscono: nella memoria greca della parola, è la tessera di riconoscimento che si usava quando due individui o comunità la spezzavano, per conservarne ognuno un pezzo, di modo che combaciando, l'unione fornisse prova dell'esistenza di un patto.

I meccanismi con cui vengono adottati, perciò, quelli per i quali si arriva all’autoriconoscimento ed al senso di appartenenza, dovrebbero indicare abbastanza chiaramente quali siano le motivazioni della scelta; capita però che uno stesso simbolo si faccia leggere in modi diversi, e fra questi forse col tempo si scopre che non la prima, forse nemmeno la seconda, ma una lettura ancora successiva possa spiegare molte più cose di quante gli stessi aderenti avessero pensato. E' un pensiero quasi automatico, nel momento in cui ci si imbatte in una fotografia come questa.

Chiarisco anche che mi permetto di parlare dei Celti, di quelli veri, per averne spesso apprezzato le qualità in vari settori delle scienza e della cultura, ma si sa che ognuno riscrive la storia un po’ come gli pare, e mi consta che l'autoriferimento alla supposta appartenenza alla civiltà gallica di cui costoro fanno largo uso, sia considerato un supporto “storico” all’idea politica di una certa indipendenza dal Romano.

 

("Sia in Padania ed ovunque in Europa, i Celti erano sempre un gruppo di tribù autonome disorganizzato politicamente. Il venire meno dell’unità politica contribuisce sostanzialmente all'estinzione dell'autonomia Celtica. Per secoli i Romani hanno un pregiudizio innato nei confronti dei Celti e mantengono un repertorio di ostilità. Anche Cicero esprime un'attitudine xenofobica contro i Celti additandoli alla gente Romana tutte le volte che faceva al caso suo.

I Romani caricavano le comunità Celte con pesanti debiti contratti tramiti prestiti forzosi e non necessari, ed i Celti difficilmente, semmai, possono avere una equa audizione nel sistema legale Romano per le loro istanze fiscali e politiche. L'indebitamento incomincia a rappresentare una forma di schiavitù verso i burocrati e collettori di tasse romani. Nei loro scritti storici romani (Livio) e politici (Cesare) puntavano a celebrare il carattere nazionale di conquistatori dei romani stessi.

Loro non potevano far apparire i nemici di Roma troppo deboli o facili opponenti, però la loro inferiorità di cultura e morale doveva essere chiara. I Celti erano trattati e guardati in questo contesto. I romani non erano interessati alla loro storia come tale. Le piccole comunità galliche mantenevano una disciplina nel loro stile di vita ed erano disgustati e disapprovavano lo stile di vita dei romani nelle città” - come leggo da  questo sito, suppongo dotato di una certa dose di ufficialità).

Tralasciando lo stile, cui mi sono permesso di apportare quantomeno modifiche ortografiche, credo che non ci possa esimere da alcune considerazioni.

In quella foto, infatti, personalmente ci vedo qualcosa d’altro; per fissare questo pensiero e cercare di trasportarlo al giorno d’oggi, mi fermerei su un campo di battaglia durante la seconda guerra punica, e mi farò aiutare dalla memoria di uno storico come Giovanni Brizzi.

La scelta di quel momento storico preciso dell'osservazione, è quella che permetterà di guardare ad un Comandante non romano, e pertanto meno sospettabile della faziosità ipotizzata da coloro che si sentono sempre così invisi al suo potere: parleremo infatti esclusivamente del loro alleato Cartaginese.

I galli della pianura padana, che costituirono per molti anni la componente più numerosa dell’esercito di Annibale, con oltre 20.000 uomini, furono anche coloro che pagarono il maggiore tributo di sangue, nelle principali battaglie sul suolo dell’Italia. In particolare, questo avvenne alla Trebbia, al Trasimeno ed a Canne (dove su 6.500 caduti oltre 4.000 furono celti), per un motivo alquanto semplice e legato alla strategia militare di Annibale, ovvero quello di schierarli
costantemente in prima linea, quindi esponendoli direttamente all'urto delle pericolose legioni romane.

Questo fu un motivo di accusa sovente mossa al Comandante, ovvero di aver sovraesposto queste legioni barbariche per l’esigenza egoistica di risparmiare i cuoi concittadini. Ma Annibale non era un “egoista” (meraviglia la stessa ipotesi di un giudizio così superficiale), quanto un vero Comandante, e perciò le motivazioni vanno cercate ben altrove.

Anzitutto infatti, di veri cartaginesi come lui vi erano nell’esercito solo gli ufficiali, e pertanto nessun concittadino era da difendere nella e dalla pugna; ma soprattutto, perché anche là dove furono utilizzati ampiamente, come avvenne nelle seconde linee della battaglia di Zama, nel territorio africano, non furono certo “risparmiati”, ed anzi se qualcuno fu risparmiato fu appunto per il valore dei veterani d’Italia, una scelta da buon soldato e non certo quella di un attento politico pro domo sua.

E' allora evidente che il motivo deve ricercarsi in altre considerazioni, e sarà sufficiente trovarlo nelle sue stesse parole: anzitutto, i Celti erano guerrieri nati. Per il loro costume assai primitivo, il fatto di combattere in prima fila era un privilegio, ed un altissimo riconoscimento per il loro senso dell’onore.

Ma il secondo e ben più importante motivo, del quale lo stratega Annibale era consapevole, era che i Celti erano davvero, dei pessimi soldati: “intollerantissima corpora”, erano del tutto incapaci di sopportare le fatiche, oltre che il clima e la disciplina.

Ed erano anche amanti della gozzoviglia, bevitori sfrenati di vino, orgogliosi, incostanti e rissosi, sempre pronti al saccheggio ed infidi, tanto che minacciavano spesso la vita dello stesso loro comandante, come accadde proprio in pianura padana (ehm...!) durante il soggiorno nell’Inverno del 218…

Annibale dunque sacrificò senza alcun dubbio la componente barbarica dei Celti, e non certo in quanto tale, bensì in quanto la meno esperta, tatticamente la meno capace, e di certo la più inaffidabile, tanto che spesso la chiusura delle colonne in marcia era affidata ai suoi cavalieri di fiducia, affinché sorvegliassero proprio costoro, i Celti.

L’elemento più particolare che determinava questa loro incapacità ad essere poco di più che un numero da gettare in prima linea, era un’antico costume religioso, ovvero l’ancestrale modus pugnandi che conservavano, dell’essere cacciatori di teste.

Appese durante la battaglia ai finimenti dei cavalli, le teste erano conservate con rudimentali espedienti di unguenti e balsami, nella loro essenza di macabri e prestigiosi trofei da mostrare nelle libagioni post-belliche, oppure scarnificate e trasformate in coppe rituali per i loro santuari, o infine fissate dentro apposite nicchie ricavate negli architravi dei santuari stessi.

Era tale la loro bramosia per tali trofei, che molto spesso i Celti sospendevano perfino la battaglia, perché erano più preoccupati di collezionare questi cimeli, piuttosto che di uccidere un nemico in più.
Insomma, I Celti preferivano perdere tempo a tagliare teste in battaglia, piuttosto che interessarsi al suo esito con coscienza guerriera. E non può quindi meravigliare, perciò, che Annibale ne disponesse come meglio poteva, ovvero come truppe inaffidabili quanto esaltate.

Il loro
Furor pugnandi, del resto, era noto da tempo come più uno stato dell'essere che un aspetto necessario all’azione bellica. Lo stesso Cesare ebbe modo di annotarlo brevemente. Il guerriero Celta non aveva in mente la conquista del territorio più di quanto invece aveva la discesa in campo nell’immensa ordalia che gli si parava davanti, violenta, spietata, nella quale sentirsi mano diretta mossa dagli Dèi; né le armi, né la strategia contavano per uomini sacri ed esaltati che facevano di un mezzo (la guerra) uno scopo a sé, e del furore sacro un mezzo di comunicazione con il Divino (v. "Les Religions Gauloises, rituels celtiques de la Gaule indépendant", J. Bruneaux, Ed. Errance).

Ora riguardiamo quella foto ed altre, e ricomponiamo i tasselli simbolici dell’autoriconoscimento, riguardiamo gli odiati romani (ricordate...? "Le piccole comunità galliche [...] erano disgustate e disapprovavano lo stile di vita dei romani nelle città"), e diamo un occhio anche a chi li rappresenta sulle comodità dei triclini romani così disprezzati, dando di tanto in tanto qualche ordine, lanciando qualche slogan (1) che si basi sulla conoscenza più che profonda del Furor da tagliatori di teste dei sudditi/guerrieri, pronti alla pugna e scevri di qualsivoglia sapienza tattica, così utili alla causa…



(1)
la parola slogan non a caso proviene dal gaelico scozzese sluagh (nemico) e ghairm (urlo), si pronunciava slogorm ed aveva il significato di "grido di guerra" o "grido di battaglia".

 

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