Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Rousseau e la democrazia del “popolo di dei”

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L’attualità del pensiero roussoiano a trecento anni dalla nascita del filosofo.

Rousseau non è un filosofo di facile comprensione. Il filosofo ginevrino è stato fra i più letti ed interpretati nella storia della filosofia politica moderna. A nostro avviso è stato anche uno dei più incompresi. Nelle opere politiche molti interpreti hanno ravvisato la nascita di una filosofia collettivista e organicista. In questo articolo, al contrario, cercheremo di mettere in luce come la filosofia roussoiana sia la giusta ricetta per un repubblicanesimo democratico con una matrice addirittura individualista.

L’assunto principale da cui partire è che  il Contratto sociale garantisce la trasformazione della libertà naturale in libertà civile, grazie alla dipendenza esclusiva dei cittadini dal governo della legge. Un tale governo è l’unico che può garantire gli interessi generali della società e si oppone agli interessi particolari dei singoli uomini.

 

Quando il singolo aliena tutto se stesso in favore del tutto, vuol dire proprio che, grazie alla completa aderenza del cittadino al corpo collettivo, egli non si sottomette a niente altro che alla volontà generale e non ubbidirà a nessun altro che alle leggi che ne sono l’espressione.

La libertà è anche dunque libertà dall’interferenza degli altri uomini e di interessi particolari. Mentre, invece, il cittadino che non ubbidirà alle deliberazioni del corpo comune lo farà per affermare la propria volontà particolare, diventando così un probabile pericolo per l’indipendenza di altre volontà singole.

Questo aspetto è molto importante, perché molti critici di Rousseau hanno visto nell’alienazione totale del singolo nella collettività un pericolo per la libertà negativa; la nostra tesi, al contrario, vuole mostrare  che, siccome la collettività in realtà non è altro che un ente morale che rappresenta l’interesse comune di ognuno, non solo non opprime la libertà individuale ma anzi ne è l’unica garanzia.

Gli studiosi che hanno interpretato Rousseau come un organicista, un collettivista e un  teorico dell’assolutismo democratico, hanno ritenuto che all’interno del Contratto sociale vi fosse una cesura fra il primo libro, dove viene presentato il patto sociale e il secondo libro dove viene introdotta la teoria della volontà generale. In questo modo l’interpretazione del lavoro roussoiano mette in risalto la volontà generale come un espediente per mitigare la presunta oppressione del tutto sul singolo cittadino.

Secondo Vaughan  il contratto sociale rappresentava : “una forma estrema di collettivismo”, e noi ne seguiamo la confutazione fatta da Robert Derathè nel suo famoso saggio su la politica di Rousseau: “Vaughan ha potuto considerare la dottrina di Rousseau una forma estrema di collettivismo solo perché ha separato arbitrariamente la teoria della volontà generale dal resto del sistema”.

Egli riconosce che la teoria dello stato si presenta successivamente sotto due aspetti differenti che non devono essere confusi. Secondo Vaughan, infatti, in un primo aspetto la teoria segue un’analisi astratta del contratto sociale che mostrerebbe la natura collettivista radicale del pensiero roussoiano sulla scia di Platone; nel secondo aspetto, l’introduzione della volontà generale permette al filosofo di Ginevra di introdurre delle “qualification”, o limiti che, grazie alle leggi che ne produce, crea un ambito di libertà individuale all’interno del tutto.

Eppure noi troviamo nell’introduzione del Contratto sociale: “voglio cercare se nell’ordine civile può esservi qualche regola di amministrazione legittima e sicura, prendendo gli uomini come sono e le leggi come possono essere. Tenterò di associare sempre in questa ricerca ciò che il diritto permette con ciò che l’interesse prescrive, perché la giustizia e l’utilità non si trovino a essere separate”  dove va ricordato che per utilità va considerato l’istinto di ognuno all’autoconservazione e per giustizia l’insieme di leggi che potrebbero essere rispettate da tutti; questa osservazione, in fase di premessa, esclude l’idea di un collettivismo esasperato visto che la società ha l’obbligo di tenere unite le regole della società e l’interesse primario del singolo.

Ancora più evidente è la definizione del patto sociale che Rousseau fa nel capitolo sette: “ciascuno di noi mette in comune la sua persona e tutto il suo potere sotto la suprema direzione della volontà generale; e noi, come corpo, riceviamo ciascun membro  come parte indivisibile del tutto”, da ciò  risulta evidente che questa espressione, che il ginevrino considera l’essenza del patto, stabilisce che la vera sottomissione del singolo è alla suprema direzione della volontà generale.

Il tentativo di Vaughan di trovare cesure è un’operazione arbitraria e tesa a ricondurre il pensiero di Rousseau in una tradizione, o meglio, di definire il pensiero roussoiano come il  capostipite della tradizione organicista che avrebbe ispirato il collettivismo e l’autoritarismo popolare nel XX secolo. Leggere il passo di Rousseau, sopra riportato, ci induce solo a capire che il mettere in comune la propria persona e tutto il proprio potere sotto la direzione della volontà generale, fa di questo principio la forma di decisione collettiva che scaturisce dall’alienazione totale.

Se si rinuncia a farsi guidare dalla volontà particolare dei propri impulsi e istinti e si riesce a “sottomettersi” alla direzione della volontà generale, allora non c’è dubbio che qui non c’è un corpo organico, né un potere istituzionale che guida ma una direzione morale, la direzione che ognuno razionalmente può trovare in sé quando comprende la direzione del proprio interesse bene inteso: il bene comune.

Approfondendo quanto detto, va sottolineato che la volontà generale richiede che nessun individuo sia escluso dal processo legislativo, dunque che tutti siano posti in grado di prendere le decisioni politiche in un ambito di deliberazioni collettive, il che implica l’uguaglianza dei diritti politici. La volontà generale prevede in sé l’esclusione di ogni privilegio politico e la condivisione del potere di ogni cittadino.

Quanto detto ci aiuta  a definire che, se l’alienazione totale comporta condivisione di potere e uguaglianza di diritti, ciò che realmente rimane escluso è la possibilità che le leggi, espressione di questo modello, possano derivare da volontà particolari ed esercitare un’ oppressione su un singolo cittadino. L’errore di chi vede il Contratto sociale come un’opera collettivista è quello di considerare l’interesse comune, che rende generale la volontà, come quello della comunità, come se fosse un’entità diversa e opposta alla totalità dei cittadini.

Non esiste per Rousseau una somma di volontà particolari che si uniscono in un’ istituzione comune in quanto mediazione dei contrasti, bensì solo l’unione degli interessi comuni che è l’ente morale che garantisce la libertà individuale e la giustizia sociale, nell’ambito delle deliberazioni collettive.

Un altro aspetto da sottolineare è il significato di “persona morale”. Rousseau all’interno dell’esposizione del Contratto sociale usa spesso una terminologia  giuridica, per definire lo stato, il governo e i cittadini, che riprende il suo significato dalle definizioni dei giuristi francesi tra il seicento e il settecento. In modo particolare Pufendorf aveva generato una definizione per aggiornare concetti che derivavano dal diritto romano. Per lui gli enti morali sono istituiti dagli uomini e attribuiti agli obblighi che gli uomini contraggono entro una società; mentre gli enti morali di origine divina riguardano lo stato di natura, gli enti morali di origine umana riguardano gli obblighi civili.

Per Pufendorf, ad esempio, il potere e il diritto sono attributi morali che si assegnano alle persone morali, sia che ci stiamo riferendo ad individui sia che ci stiamo riferendo a collettività. Individui o collettività, l’importante è che svolgano una finzione nella società politica. Lo spazio in cui  queste persone morali agiscono è definito “stato morale”. Questo spazio, che delimita il luogo in cui le funzioni delle persone morali vengono svolte, è un luogo definito da obblighi e da diritti; tanto lo stato di natura quanto lo stato civile comprendono in sé quelle regole e quegli obblighi che ne caratterizzano la definizione.

Mentre lo stato di natura, come già ricordato, è opera divina, lo stato morale è derivato dall’accordo o dal contratto di individui e agenti dello spazio comune. Secondo Hobbes ogni associazione umana è di origine contrattuale e senza la ricomposizione delle volontà non si può dare una vera società civile che resterebbe altrimenti una semplice moltitudine di uomini.

La persona morale per Hobbes è dunque definibile solo grazie al fatto che essa rappresenta una comunità di individui, che si sono uniti trovando un accordo tra le loro volontà in un solo corpo comune. La persona morale è, dunque, un rappresentante la volontà comune di un dato spazio o stato morale, di una comunità politica. Per Rousseau solo la collettività può essere considerata un ente morale, l’individuo, con la sua personalità, e l’insieme dei propri interessi, non può che esprimere comunque una volontà particolare in relazione alla generalità della comunità politica.

Quello che dobbiamo tenere presente è che per Rousseau la generalità è sempre un concetto relativo: i cittadini di uno stato avranno una volontà generale rispetto al tutto, ma se li consideriamo in relazione ad altri gruppi o stati la loro volontà sarà particolare in riferimento al proprio gruppo. Ogni gruppo avrà una volontà generale rispetto ai suoi membri e allo stesso tempo avrà una volontà particolare verso gli altri stati.

Per il filosofo di Ginevra è la presenza di una volontà comune di tutto il corpo che conferisce al tutto la qualità di persona morale, nessun individuo può essere paragonato alla stessa stregua della persona morale: questi resterà pur sempre un privato con una sua prospettiva particolare. Per tutti questi motivi la volontà generale, che è la regola di giustizia di un determinato stato e tende alla generalità e alla conservazione del tutto, per gli altri stati non sarà altro che una volontà particolare in opposizione alla propria.

Ma è questa volontà generale che, conferendo la qualità di persona morale, va considerata sempre un concetto giuridico, da cui poi scaturiscono le leggi  per la definizione del giusto e dell’ingiusto; non si può pensare alla volontà generale come a un concetto religioso stretto, ma, come vedremo in seguito, la sua resta una natura metafisica che interviene a sostituire nell’immaginario collettivo la funzione alta di garanzia che gli ebrei avevano posto nel Dio del popolo.

Rousseau così si esprime al riguardo: “in effetti ogni individuo può, in quanto uomo, avere una volontà particolare contrario diversa dalla volontà generale che ha come cittadino. Il suo interesse particolare può parlargli in modo diverso dall’interesse comune; la sua esistenza assoluta, naturalmente indipendente, può indurlo a guardar ciò che deve alla causa comune come un contributo gratuito, la cui perdita nuocerebbe agli altri meno di quanto il pagarlo non costi a lui, e guardando la persona morale che costituisce lo stato come un ente di ragione perché non è un uomo, godrebbe dei diritti del cittadino senza voler adempiere ai doveri del suddito: ingiustizia il cui diffondersi determinerebbe la rovina del corpo politico.” 

Se questa visione che tiene conto della volontà generale come principio fondante il contratto sociale è giusta, allora è necessario verificare l’analisi di Rousseau del sistema democratico. Leggendo infatti  il  Contratto sociale, chi ha visto in questo sistema un modello di democrazia organicista e collettivista ha certamente sottovalutato le considerazioni precise che il ginevrino aveva posto nel terzo capitolo. “Chi fa la legge sa meglio di tutti come essa va eseguita e interpretata. Sembra dunque non potervi essere costituzione migliore di quella in cui il potere esecutivo sia unito al legislativo; ma è proprio questa unione a rendere il governo sotto certi aspetti insufficiente, perché le cose che devono essere distinte non lo sono e il principe e il sovrano, essendo la medesima persona non formano, per così dire, se non un governo senza governo.”  

Questa unione del “sovrano” con il “principe” genera secondo Rousseau un’anomalia per la quale uno stesso corpo in qualità di sovrano emana leggi di natura generale e allo stesso tempo come principe emana ordini particolari a singoli cittadini. La considerazione circa una miglior disposizione ad eseguire una legge di cui si è stati autori viene immediatamente annullata dalla considerazione che in questo connubio risiedono gravi pericoli.

La dicotomia generale-particolare viene annullata, in questo sistema, in un corpo unico che dovrebbe essere in grado di avere due volontà distinte. L’anomalia riguarderebbe prima di tutto il popolo che per diventare principe dovrebbe distogliere il suo sguardo dalle cose generali per una visione più orientata sugli oggetti particolari. Così facendo si creerebbe un governo senza governo.

Quando Rousseau, nello stesso paragrafo, esamina il funzionamento della democrazia, enumera una serie di precondizioni che ne rendono difficile l’applicazione: “in primo luogo uno Stato molto piccolo, in cui il popolo sia facile da radunare e dove ciascun cittadino possa facilmente conoscere  tutti gli altri; in secondo luogo una grande semplicità di costumi, che impedisca il moltiplicarsi degli affari e le discussioni spinose; quindi una grande uguaglianza nei gradi e nelle fortune, senza di che l’uguaglianza non potrebbe sussistere a lungo nei diritti e nell’autorità”; queste precondizioni ci lasciano pensare che nonostante il filosofo di Ginevra consideri la democrazia il modello ideale, voglia comunque considerarlo un modello a cui l’umanità dovrebbe tendere e non un sistema applicabile all’uomo della sua epoca.

La preoccupazione teorica sull’impossibilità di confondere la generalità del potere legislativo con la particolarità del potere esecutivo, elimina di fatto ogni considerazione sulla applicabilità del sistema democratico puro alle condizioni degli uomini come essi sono. Non per niente il capitolo sulla democrazia, oscillante fra ammirazione per il modello ideale e constatazione della sua inapplicabilità, si conclude con la seguente frase: “se ci fosse un popolo di dèi si governerebbe democraticamente. Un governo tanto perfetto non conviene ad uomini”.

Questa nostra analisi ci ha permesso di evidenziare, leggendo il Contratto sociale,  che Rousseau considera possibile trovare nell’ordine civile quella regola di amministrazione legittima, “prendendo gli uomini come sono e le leggi come possono essere”, e questa regola è la volontà generale. Tutto questo nella convinzione della profonda attualità dei contenuti e dei principi del Contratto sociale soprattutto in un’epoca dove la politica mostra l’impossibilità di mantenere le promesse della democrazia laddove resti irrisolta la dicotomia fra particolare e generale, ovvero laddove non venga risolto il dilemma fra ciò che è privato e ciò che è pubblico. A trecento anni dalla nascita di Rousseau il suo pensiero resta profondamente e drammaticamente attuale.


Bibliografia

The Political Writings of Jean Jacques Rousseau, ed. from the original manuscripts and authentic editions, with introductions and notes by C. E. Vaughan.Cambridge U niversity Press, Cambridge 1915, p.48. In 2 vols.

R.Derathè, Rousseau e la scienza politica del suo tempo, trad. di Roberta Ferrara, Il Mulino, Bologna 1993.

J. J. Rousseau, Contratto sociale,cit., Lib. I

 

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