Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

I dilemmi della verità

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È comune ai nostri giorni sostenere che l’inscindibilità di osservazione e teoria conduce alla relativizzazione di ogni discorso intorno al mondo circostante, e ciò equivale a negare che il mondo rappresenti il criterio ultimo per distinguere il vero dal falso.

 In altre parole, risulta impossibile separare il mondo dalle teorie da noi costruite e utilizzate per parlarne; per far questo avremmo bisogno di un punto di vista superiore e neutrale, vale a dire di quella che Hilary Putnam definisce “visione dell’occhio di Dio”. Il risultato, in ultima istanza, è che ogni discorso sul mondo è relativo alle teorie di cui attualmente disponiamo.

Ne segue che non possiamo parlare della realtà se non adottando una qualche cornice di tipo concettuale, e ciò che ci è consentito fare è re-interpretarne una nei termini di un’altra.

Differenti teorie sono in grado di identificare differenti oggetti, ma non v’è mai modo di uscire da tutte le teorie per confrontarci direttamente con la realtà: tutto ciò che possiamo fare è rintracciare le connessioni tra le teorie e tradurle - per quanto è possibile - l’una nell’altra.

Anche Donald Davidson, accogliendo le tesi di Dewey, nega che vi sia una linea di divisione ben definita tra il soggetto isolato da un lato e il mondo dall’altro.

Dal pensiero deweyano egli ricava la tesi che, in assenza di esseri pensanti, risulterebbe impossibile parlare di verità o falsità, il che significa negare da un lato che l’accesso alla verità costituisca una speciale prerogativa dei filosofi, e affermare dall’altro che la verità è inscindibilmente legata agli interessi umani.

 

Verità e oggettività hanno dunque senso solo se vi sono creature intelligenti che le pensano e ne parlano, e sono determinate dai rapporti d’interazione che si verificano tra tali creature e l’ambiente in cui vivono. Essendo l’oggettività connessa alle nostre limitate capacità cognitive, risulta vano cercarne una definizione in termini di maggiore assolutezza.

Se accettiamo sino in fondo queste premesse, dobbiamo anche ammettere che chiunque abbia un’esperienza della realtà sostanzialmente differente dalla nostra è, per forza di cose, portato a concepire la realtà in modo diverso. Possiamo quindi immaginare esseri intelligenti la cui cornice concettuale e categoriale conduce a una visione del mondo che ha ben poco a che fare con la nostra.

Gli oggetti e gli eventi presenti nel loro modo di esperire il mondo circostante potrebbero differire da quelli per noi usuali in misura tale che i loro predicati avrebbero dominii non paragonabili ai nostri.

Se le cose stanno così, che cosa possiamo dire della “verità”? Innanzitutto risulta scarsamente plausibile la prospettiva di raggiungere una sorta di verità definitiva (nel senso di “finale”) in ambito scientifico, né migliore sorte sembra toccare alla nozione di “progressivo avvicinamento” alla verità.

Il motivo per cui la verità continua a essere importante è che essa svolge comunque un ruolo chiave nelle nostre decisioni, dal che consegue che tale ruolo è giustificato su basi pratiche: in altri termini, la nozione di “verità” riveste una funzione preziosa nella nostra schematizzazione concettuale della realtà. La tesi per cui la scienza non è in grado di giungere alla verità attuale delle cose è certamente corretta. Ma è vero che la scienza tenta costantemente di raggiungere quel risultato. Come potrebbe essere altrimenti, dal momento che si propone di rispondere alle nostre domande circa il mondo? Queste risposte, tuttavia, hanno sempre un carattere ipotetico e provvisorio, e le teorie scientifiche altro non sono che valutazioni mai definitive della risposte che la natura fornisce ai nostri interrogativi.

Pertanto la verità, come del resto l’oggettività e la razionalità, è legata alla nostra capacità di idealizzazione.

Il perseguimento della verità è l’obiettivo primario della scienza, anche se è opportuno riconoscere che esso fa parte di un gioco altamente idealizzato. Senza dubbio la nozione di verità intesa in senso ontologico è necessaria ma, dal momento che tra realtà-in-quanto-tale e realtà-come-noi-la-vediamo esiste sempre uno iato, a tale nozione può al massimo essere attribuita una funzione regolativa, il che significa che essa non può essere completamente esplicitata.

Risulta allora difficile capire cos’altro potrebbe essere la verità se non coerenza ideale, dal momento che il fatto che una proposizione sia vera equivale al suo essere coerente rispetto a un insieme ideale di dati.

Anche in questo caso è la presenza dell’idealizzazione ad impedirci di ottenere - mediante la coerenza - la verità assoluta. Nella pratica il divario tra verità “presunta” ed “accertata” continua infatti a manifestarsi, e soltanto delle circostanze ideali (ovviamente non conseguibili praticamente) potrebbero colmarlo. E, anche nella ricerca scientifica, la separazione fra reale e ideale limita il nostro orizzonte cognitivo.

 

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