Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Velia Titta, la moglie poetessa di Giacomo Matteotti

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Il 10 giugno 2024 ricorre il centenario della morte di Giacomo Matteotti, ucciso dai fascisti. Di lui sappiamo quasi tutto: l’impegno politico fin da giovane, quando fu confinato in Sicilia per essersi battuto contro gli interventisti nella prima guerra mondiale, le successive ripetute aggressioni per il suo antifascismo, fino al discorso finale in Parlamento che ne decretò la morte.

Ne fu lucidamente consapevole, tanto che in conclusione si rivolse ai suoi compagni di partito dicendo: «Io, il mio discorso l’ho fatto. Ora voi preparate il discorso funebre per me».

Spesso tuttavia le storie dei familiari dei personaggi eroici sono poco conosciute anche se hanno avuto un’importanza fondamentale nelle vicende dei protagonisti. È il caso di Velia Titta, poetessa e romanziera che condivise con Giacomo Matteotti un grande amore, ma anche sofferenze e persecuzioni.

Velia Titta, ultima di sei figli, nacque a Roma (o secondo alcuni a Pisa) il 12 gennaio 1890. Il padre lasciò la famiglia quando lei aveva dieci anni e la madre morì poco tempo dopo. Le fece da padre il fratello Ruffo, di tredici anni maggiore, che divenne un baritono famoso col nome di Titta Ruffo.

La militanza antifascista costò cara al cantante di fama internazionale: esule in Francia dopo l’assassinio del cognato, fu imprigionato nel corso di una successiva visita a Roma. Liberato a seguito delle pressioni degli ambienti culturali d’Oltralpe, gli fu vietato l’espatrio.

Velia studiò in scuole e collegi religiosi, conseguendo la licenza alla Scuola Normale femminile di Pisa. Aveva una personalità vivace, pur essendo riflessiva e sensibile. Si interessò di letteratura e prestò anche attenzione ai problemi sociali e culturali del suo tempo, ma non di politica. Preferì la poesia, la narrativa, la musica e l’arte. Era credente e praticante, dolce ma tenace: una giovane donna, come si diceva allora, “di temperamento”.

A 18 anni aveva pubblicato due libriccini di versi, L'alba e Primi versi, e a trent’anni il romanzo L’idolatra con lo pseudonimo di Andrea Rota; intimista e d’impronta sentimentale, dalla prosa misurata ed elegante suscitò un ampio consenso.

Nel 1912, a ventidue anni, incontrò Giacomo che ne aveva ventisette e si sposarono quattro anni dopo a Roma. Velia, accettò il solo rito civile, ma non rinunciò a riaffermare le proprie convinzioni: «Saremo felici lo stesso – scrisse - tu continuerai la tua vita, e io non posso in questo giorno mentire e dirti cosa non vera o nascondendo il mio cuore. Sarò religiosa lo stesso, ci vorremo bene lo stesso, vivendo uniti in qualsiasi lotta […] Sii tranquillo, nulla potrebbe separarmi mai da te».

L'unione, tuttavia, fu turbata fin dall’inizio dai timori di Velia per il pericoloso 'impegno politico del marito. Già in una lettera del giugno 1916 gli scriveva: «Ma tu non voler essere audace; hai dei nemici».

Giacomo venne confinato in Sicilia e rimasero praticamente separati per tre anni fino alla fine del conflitto. L’intensa corrispondenza tra loro, testimonianza del grande amore, è stata raccolta da Stefano Caretti nel volume Lettere a Velia e Lettere a Giacomo (Nistri Lischi, 1985-2000).

L’avvento del fascismo trovò Giacomo parlamentare a Roma. A Fratta Polesine, dove la famiglia possedeva dei terreni, venne più volte aggredito dalle squadre fasciste. Velia, di salute cagionevole, passava lunghi periodi in Liguria, a Varazze, dove si era rifugiata con i figli; anche lei subì minacce: «Sono venuti a dirci che se ritorni non garantiscono neanche le famiglie più. Non so altro perché fuori non vado. Insultano su la strada come fossimo la peggior gente di spregio».

Il 15 giugno 1924, cinque giorni dopo la scomparsa del marito, Velia  affrontò direttamente Mussolini, con un brevissimo colloquio durante il quale chiese notizie con la speranza che fosse ancora in vita. Quando fu ritrovato il corpo si rivolse come credente ai socialisti, perché si astenessero dalle vendette.

In occasione dei funerali scrisse al Ministro degli Interni: «Chiedo che nessuna rappresentanza della Milizia fascista sia di scorta al treno: nessun milite fascista di qualunque grado o carica comparisca, nemmeno sotto forma di funzionario di servizio. Chiedo che nessuna camicia nera si mostri davanti al feretro e ai miei occhi durante tutto il viaggio, né a Fratta Polesine, fino a tanto che la salma sarà sepolta. Se ragioni di ordine pubblico impongono un servizio d’ordine, sia esso affidato solamente a soldati d’Italia». Il presidente della Camera dei deputati ed il vice presidente del Senato dovettero limitarsi a salutare la salma del parlamentare sul binario della stazione di Monterotondo.

Al processo degli imputati dinanzi all’Alta Corte di Giustizia, Velia si costituì parte civile a nome dei tre figlioletti rimasti orfani. In seguito, però, non intese avallare il depistaggio quando le indagini sul delitto finirono a Chieti in un processo farsa con un rinvio a giudizio compiacente e circoscritto agli autori materiali dell'omicidio: «Chiedo mi sia concesso di estraniarmi dall’andamento di un processo che ha cessato di riguardarmi. […] Mi parrebbe, accedendo all’invito, di offendere la memoria stessa di Giacomo Matteotti, per il quale la vita era cosa terribilmente seria. Quella memoria nella quale e per la quale, e solo per educare i figli all’esempio ed alla fermezza paterna, vivo ancora appartata e straziata»

Nel marzo 1926 incaricò l’avvocato Pasquale Galliano Magno di seguire le pratiche per la restituzione delle cose sequestrate nel corso dell'istruttoria. Nell’istanza, Velia si lamentava che non le era stato ancora restituito «ciò che apparteneva al suo defunto marito» e che «si trattava di altissimo valore morale specialmente per la vedova e gli orfani del defunto».

Per averle prestato assistenza l’avvocato Galliano fu sottoposto per quindici anni a ogni forma di violenza fisica da parte dei fascisti fino ad avere problemi di vista e deambulazione. Fu anche obbligato a trasferire lo studio in un’altra città. Non volle mai essere pagato e Velia riuscì a regalargli solamente la stilografica del marito,

L’assassinio consumato del giugno 1924 cambiò la storia d’Italia e per Velia la fine di una comunione d’amore e ideale durata dodici anni. Gli anni successivi, segnati dal rimpianto, furono incupiti dalla solitudine e spesso resi ancor più amari da un clima di ostilità e di sospetto. Rimasta sola, subì le malversazioni dell'amministratore delle tenute di famiglia; nel 1936 si decise a vendere le proprietà e di acquistare una grossa proprietà agricola, ma fu poi obbligata ad indebitarsi per estinguere il debito.

La vigilanza delle autorità fasciste sulla famiglia Matteotti fu sempre strettissima, diurna e notturna, definita da Velia un’autentica schiavitù; chiunque la visitava era fermato e interrogato, tutta la corrispondenza era sotto controllo. Si temeva che coltivasse contatti con gli antifascisti e potesse espatriare: «Pregasi intensificare vigilanza sulla vedova e sui figli on. Matteotti tenendo sempre particolarmente presente eventualità tentativi uscire clandestinamente dal Regno. Attuazione eventuali tentativi del genere deve essere resa impossibile».

Sopravvisse quattordici anni dopo l’uccisione di Giacomo più di quanti ne aveva vissuti al suo fianco, ma la brillante personalità, l’accesa sensibilità, il talento di poetessa e narratrice, il rigore morale, la tenace determinazione alla lotta, iniziarono a spegnersi dalla morte del marito. Morì a Roma il 5 giugno 1938, a soli 48 anni, per i postumi di un'operazione chirurgica; i figli furono affidati alla sorella Nella, madre della partigiana e giornalista Francesca Wronowskie.

Anche in occasione dei funerali, svoltisi in forma strettamente privata a Fratta Polesine, fu disposta una sorveglianza minuziosa delle quattordici persone presenti; due mazzi di fiori deposti sul feretro furono sequestrati perché “tutti rossi”.

Lo stesso Mussolini aveva annoverato Velia tra i suoi nemici.

Galeazzo Ciano nel suo Diario 1937-38 commentò cinicamente l’evento: «I miei nemici sono finiti sempre in galera e qualche volta sotto i ferri chirurgici».

 

 

 

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