La prudenza sui migranti non va demonizzata

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I mass media italiani hanno sovente messo sul banco degli imputati i Paesi dell’Europa dell’Est a causa della linea dura da essi adottata sul problema dei migranti (o profughi, se si preferisce).

“L’amara sorpresa dell’Est”, titolava in prima pagina il “Corriere della Sera” non molto tempo fa, sostenendo addirittura che il crollo del muro di Berlino ha sepolto in quei luoghi non soltanto il comunismo, ma pure l’idea stessa di solidarietà.

Tesi senza dubbio forte, e che merita di essere discussa con attenzione.

Secondo alcuni noti giornalisti parecchie nazioni che un tempo erano inglobate nel blocco sovietico e nel defunto Patto di Varsavia hanno, in sostanza, perduto la loro anima regredendo verso forme di xenofobia considerate ormai morte da decenni. Ungheresi, cechi, slovacchi, bulgari e polacchi non vogliono infatti saperne di ricevere nel proprio territorio masse di migranti che sono manifestamente alieni alle loro tradizioni e alla loro cultura.

Bisogna allora capire “quale” anima i cittadini europei dell’Est avrebbero smarrito e, soprattutto, se davvero ne hanno perso una. In realtà, se si osserva la situazione senza partire da pregiudizi dati come scontati, e senza presupporre che chi predica l’apertura totale e indiscriminata abbia automaticamente ragione nel zittire coloro che la pensano in modo diverso, il quadro che ne esce risulta assai più variegato.

 

Vaste correnti di opinione nel mondo occidentale stanno predicando da decenni l’inutilità dei confini o, ancor meglio, la miseria morale delle frontiere.

È uno stile di pensiero che punta tutto su una forma rozza di cosmopolitismo e su un multiculturalismo mal concepito, nel quale ogni distinzione dev’essere abolita. La difesa dei confini, che implica logicamente anche quella delle identità culturali, è un abominio da rigettare senza “se” e senza “ma”, come se le suddette identità culturali non fossero un prodotto dell’evoluzione storica.

Si badi che l’impero sovietico si reggeva, in fondo, proprio su presupposti non molto dissimili. Anche se, in quel caso, la spinta verso la standardizzazione aveva alle spalle il marxismo, col suo tentativo di abolire le differenze nazionali in nome di una società mondiale senza classi (e teoricamente priva di sfruttamento).

Ma a nessuno viene in mente che per ungheresi, polacchi, cechi etc. il crollo del muro di Berlino rappresentò proprio il recupero della loro identità repressa e svilita per decenni? Piuttosto strano – almeno a mio avviso – che questo fatto non venga compreso da numerosi soloni dei media e della carta stampata. Ed è davvero così difficile capire che l’afflusso ininterrotto di centinaia di migliaia di persone, provenienti da contesti totalmente diversi, preoccupi tanti a Budapest, Varsavia, Praga o Bratislava? E non solo nei palazzi governativi, ma anche tra la gente comune?

A me pare che altri siano gli elementi di stranezza in questa tragica vicenda. E allora sostengo che, a essere bizzarro, è stato piuttosto l’atteggiamento degli ultimi governi italiani, che poco o punto sembravano preoccuparsi di identificare chi arriva. Ciò significa che è più razionale trovare dei metodi - magari artigianali - per procedere all’identificazione dei migranti. E, se i cechi usano i pennarelli, non scomoderei i nazisti, le SS, e quant’altro.

Soltanto un Paese come l’Italia, che da un bel pezzo ha rinunciato a ribadire la sua identità nazionale, può accogliere tutti a cuor leggero. E non credo sia un fatto positivo. Anche perché ogni giorno abbiamo sotto gli occhi l’esempio di stranieri che vogliono sì vivere da noi, ma senza rinunciare a un solo frammento dei loro costumi e delle loro tradizioni.

Le file interminabili di donne velate che si accalcano nei centri di accoglienza o sulle autostrade che portano da Budapest a Vienna lo confermano sin troppo bene.

Cosa si rischia, oggi, a dire queste cose? L’emarginazione, ovviamente, aggravata inoltre dalle fotografie penose che i giornali sbattono in prima pagina per appoggiare la tesi dell’accoglienza senza limiti. Non è più possibile usare espressioni come “casa nostra” e “casa loro” poiché debordano dai limiti del politicamente corretto tanto a Roma quanto, purtroppo, a Bruxelles.

 

 

 

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