Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Il centenario della morte di Lenin

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Cento anni fa, il 21 gennaio 1924, moriva Vladimir Ilic Uljanov, alias Lenin, vero demiurgo della Rivoluzione russa del 1917. Il suo corpo imbalsamato giace ancora nel Mausoleo che porta il suo nome nella Piazza Rossa di Mosca.

A differenza di quanto accadeva in passato, tuttavia, non ci sono più le file interminabili di fedeli che lì si recavano per rendere omaggio alla sua salma. I visitatori, oggi, sono assai più rari, anche se il Mausoleo di granito mantiene il suo fascino a causa del ricordo degli eventi storici che cambiarono, in breve tempo, il volto della Russia.

Possiamo allora chiederci che senso ha porre l’accento sulle caratteristiche élitarie e giacobine del modello di partito proposto da Lenin, se poi non si ha il coraggio di notare che alla base di tutto vi è una concezione troppo presuntuosa e idealizzata della natura umana.

In altri termini, se si parte dal presupposto che alcuni rivoluzionari di professione abbiano accesso diretto alla teoria “vera”, in grado di condurre alla liberazione definitiva del genere umano, e che gli assiomi indiscutibili di detta teoria debbano essere trasmessi in modo automatico alle masse, si dà per scontato che tali rivoluzionari siano dei superuomini non sottoposti al normale travaglio delle passioni, degli egoismi e dei desideri.

 

Ma ciò non può essere: i rivoluzionari - e tra loro quelli leninisti - sono individui imperfetti come tutti gli altri.

In assenza di meccanismi che consentano il controllo del loro operato essi tendono a trasformarsi in casta oppressiva, e lo sbocco staliniano è il logico risultato della lotta di potere all’interno di un gruppo chiuso.

Come ignorare, inoltre, che il concetto di eliminazione “definitiva” dei conflitti reca già in sé i germi della crisi?

Il conflitto è parte integrante tanto del mondo naturale quanto della vita umana, e ipotizzarne la risoluzione finale significa chiudere gli occhi di fronte alla realtà: il conflitto può essere in una certa misura controllato, ma non eliminato del tutto.

Ciò è ancor più vero se si rammenta, seguendo la lezione di Popper e Hayek - che spesso le nostre azioni hanno conseguenze non previste, sia a livello individuale che collettivo. Un mondo non conflittuale presuppone una capacità di prevedere e controllare il futuro che gli uomini - esseri imperfetti come tutti i prodotti della natura - non possono conseguire.

Occorre quindi notare ancora una volta che il concetto di “utopia” può essere fertile quando venga inteso come ideale regolativo, mentre risulta pericoloso quando si pretenda di applicarlo agli avvenimenti storici.

L’antropologia filosofica di Marx e di Lenin, e la loro proposta politica sono intimamente connessi: ogni utopia nasce come risposta ai problemi umani, e così è anche per Marx e Lenin. Ne consegue che il marxismo-leninismo, ancor prima di essere un progetto utopico politico e sociale, è un’utopia di tipo antropologico.

Soltanto comprendendo che cos’è l’uomo nuovo del comunismo si riesce a cogliere la vera natura della società futura, in cui classi e conflitti saranno assenti.

Non solo. Oggi sappiamo che i bolscevichi erano una minoranza nella Russia dell’epoca.

Riuscirono a conquistare il potere con metodi violenti solo grazie alla loro organizzazione ferrea. Strutturati come una sorta di ordine militare e religioso che, però, non faceva alcun riferimento alla trascendenza, furono in grado di sbaragliare gli avversari grazie, per l’appunto, alla loro organizzazione di tipo militare.

In essa al dissenso non era concesso alcuno spazio, e gli ordini provenienti da un ristrettssimo gruppo dirigente, non potevano essere discussi. Occorre quindi capire che lo stalinismo non fu affatto una deviazione, bensì la realizzazione completa di un disegno nato nella mente dello stesso Lenin.

 

 

 

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