L’internazionalismo di Joe Biden
L’alleanza “senza limiti” tra la Russia di Putin e la Cina di Xi Jinping tutto sommato funziona, anche se vede lo zar moscovita in posizione subordinata. Sorprendentemente (ma non troppo) la teocrazia iraniana ne è entrata a far parte, anche se, sul piano interno, Putin ha sempre usato il pugno di ferro con i musulmani di casa propria. Si pensi, per esempio, alla brutalità usata per risolvere la crisi cecena. Dal canto suo il segretario del Partito comunista cinese ha trasformato la regione autonoma del Xinjiang, popolata dagli uiguri di religione islamica, in un grande campo di concentramento a cielo aperto. Gli ayatollah iraniani, ai quali interessa in primo luogo sconfiggere gli Stati Uniti e i loro alleati, non battono ciglio di fronte alla persecuzione dei loro correligionari, esibendo così ipocrisia e malafede. Tutto va bene pur di battere il “Satana americano” e, a tal fine, l’islam diventa meno importante. Tornando a Biden, bisogna rammentare che le critiche alle sue azioni sono spesso giustificate. Occorre tuttavia chiedersi quali siano le reali alternative a disposizione dell’anziano presidente Usa. L’America, oggi, non è più la stessa, e scomodare Alexis de Tocqueville può essere appagante dal punto di vista teorico, ma pure inutile sul piano pratico.
Abbiamo visto striscioni antisemiti appesi ai muri della più celebre università Usa, l’ateneo di Harvard, nonché svastiche naziste esibite senza vergogna in manifestazioni filopalestinesi a New York e altrove. Ed è errato pensare che tutto ciò sia opera dei numerosi giovani musulmani che vivono e studiano negli Stati Uniti. In realtà la parte del leone l’hanno fatta studenti americani Doc, che hanno evidentemente subito un indottrinamento (o, meglio, un lavaggio del cervello) da parte dei tanti “cattivi maestri” che tengono cattedra negli atenei Usa, inclusi i più celebri e prestigiosi. Questo per dire che Biden si trova a governare un Paese che ha cambiato pelle negli ultimi decenni. Oggi restano scarsi segni di quell’eccezionalismo che prima era dato come scontato e inorgogliva le giovani generazioni americane. Sparite anche le tracce del “destino manifesto” che spinse la nazione a espandersi dall’Atlantico al Pacifico, mito alle origini dell’epopea del West. Resta forse qualcosa dell’idea dell’America come “arsenale delle democrazie”, usata da Franklin D. Roosevelt per sconfiggere gli isolazionisti e spingere gli Usa a partecipare alla seconda guerra mondiale. Biden la utilizzò per convocare il “Forum delle democrazie” il quale, tuttavia, ebbe scarso successo. Anche lo scenario internazionale, infatti, è molto cambiato, e oggi tante nazioni, soprattutto quelle del cosiddetto “Sud del mondo”, ascoltano più volentieri le sirene dei regimi dittatoriali e autocratici. Né si dimentichi che ai nostri giorni è diventato sempre più arduo governare il Congresso. Per eleggere il nuovo speaker della Camera sono stati necessari tempi lunghissimi, e ogni anno bisogna combattere per giungere all’accordo sul deficit statale, senza il quale gli uffici federali rischiano la chiusura. A Biden va riconosciuto comunque il merito di avere in mente una prospettiva internazionalista, che conduce ad aiutare gli alleati sotto attacco come Israele, Ucraina e probabilmente, in futuro, Taiwan. Una bella differenza rispetto a Barack Obama, che predicava il “declino controllato” degli Usa e lasciava spazio agli ayatollah iraniani, nonostante le netta ostilità di Donald Trump a ogni accordo con Teheran. Il morale della favola è che, oggi, alle nazioni occidentali non resta altra scelta se non aggrapparsi agli Stati Uniti. L’Unione Europea, in politica estera, è inesistente. Aggiungo che il ragionamento vale indipendentemente da chi sia l’inquilino della Casa Bianca, poiché solo Washington può impedire che le autocrazie vincano in modo definitivo. |
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