Il tramonto dell’Occidente

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Da molto tempo ormai si parla di declino della civiltà occidentale, ed è quindi logico che aumenti l’attenzione per la celebre opera di Oswald Spengler Il tramonto dell’Occidente.

Il problema fondamentale che egli si poneva è quello del futuro della civiltà occidentale.

Indubbiamente lo storicismo di Dilthey fornisce a Spengler il quadro teorico della sua opera, ma essa trova la sua ispirazione nella domanda, un po’ angosciante, sul corso della storia europea e americana e sul suo destino.

La soluzione del problema comporta però la necessità di chiarire “cos’è una civiltà” e il suo rapporto con la natura e con la storia, cioè la necessità di fissare la fisionomia della civiltà nell’ambito della storia universale, più specificamente nell’ambito della storia umana.

Spengler conduce una forte polemica contro la concezione unitaria dello svolgimento storico, affermando la necessità di intendere la storia dell’umanità come esplicitazione di una molteplicità di forme differenti, vale a dire di diverse civiltà, ognuna fornita di una propria vita e di un proprio sviluppo autonomo.

 

Ogni civiltà costituisce un organismo a sé stante, che dell’organismo possiede i caratteri fondamentali.

Ogni civiltà ha la sua nascita, la sua crescita, la sua decadenza, la sua morte, proprio come qualsiasi organismo biologico: l’appartenenza della civiltà a un tipo organico rappresenta al tempo stesso la sua determinazione “ineluttabile” entro una linea di sviluppo cui essa non può sottrarsi.

Essa sorge quando un’anima si stacca dallo stato primitivo dell’umanità, e cresce restando legata al suolo in cui è sorta, per decadere e morire quando la somma delle sue possibilità si è ormai esaurita.

Poiché ogni civiltà è un organismo appartenente a un medesimo tipo, e la storia universale è la biografia totale delle diverse civiltà, lo sviluppo dell’umanità è soggetto a un rigoroso determinismo biologico.

Il complesso di possibilità, di cui ogni civiltà dispone all’inizio del suo sviluppo, è esso stesso determinato dall’appartenenza a un certo tipo biologico. Si tratta di un complesso di possibilità fin dall’inizio delimitate, che trovano la loro realizzazione necessaria in una certa fase dello sviluppo, e che esaurendosi provocano la fine della civiltà stessa.

Il complesso di possibilità, di cui ogni civiltà dispone all’inizio del suo sviluppo, è così interpretato alla luce della necessità biologica che governa la sua esistenza, e impiegato a designarne soltanto l’autonomia e la relatività, che deriva dal suo orizzonte chiuso a ogni autentica forma di relazione e di comunicazione.

Ogni civiltà, poiché possiede un proprio complesso di possibilità, rappresenta un mondo a sé, e ha un proprio linguaggio formale.

Crea il suo simbolismo, si foggia la sua immagine della natura e della storia, e dà un carattere specifico a tutte le sue manifestazioni, determinandone il “carattere storicamente relativo”.

Mediante l’opera della civiltà viene ad instaurarsi una nuova relazione di dipendenza tra lo spazio e il tempo, tra l’estensione e la direzione. La vita interiore, l’anima della civiltà, si esprime in un insieme di manifestazioni che possiede il significato di un simbolo, cioè in un insieme di segni sensibili che rivestono carattere spaziale, ma che designano anche il divenire creativo della civiltà nel suo sviluppo.

Lo spazio viene così subordinato al tempo, e l’estensione alla direzione, in quanto la natura diventa una funzione della civiltà ed esprime in forma simbolica la sua anima. Ma in questo modo ogni civiltà si costruisce il suo mondo formale e dà vita a un proprio linguaggio simbolico, che nessun’altra può intendere nel suo autentico significato, poiché finisce per tradurlo nel suo e per assorbirlo in questo.

L’individuo appartenente a una certa civiltà non può pertanto intendere in maniera effettiva le manifestazioni delle altre civiltà, e il suo orizzonte di comprensione è limitato dalla struttura dell’universo simbolico in cui si trova immerso. Ogni individuo, in quanto inserito in una situazione che è sua soltanto e non di qualsiasi altro individuo, ha un proprio quadro storico e pertanto “ha vissuta esperienza dell’altro e dell’altrui destino solo in rapporto a se stesso”.

L’intento dimostrativo di Spengler è quindi rivolto in una duplice direzione: da una parte a individuare lo sviluppo tipico di ogni civiltà nella sua parabola prima ascendente e poi discendente, fino all’esaurirsi del proprio complesso di possibilità e cioè fino alla morte.

Dall’altra a porre in luce la fisionomia peculiare di simbolismo e di linguaggio che si manifesta in ogni aspetto della sua esistenza. Spengler cerca così di seguire il sorgere della civiltà dallo stato di pre-civiltà propria della vita contadina, legata indissolubilmente alla razza e al sangue, attraverso la fondazione di città e l’accentramento nelle città di tutte le manifestazioni culturali, politiche ed economiche più importanti, attraverso la costituzione dei popoli in nazioni dotate di un proprio ambito geografico e di una coscienza comune, attraverso l’organizzazione statale che viene ad assumere un posto preminente e centrale. Per poi, dall’esame del succedersi delle vicende politiche ed economiche, porre in luce il suo trasformarsi in una “civiltà-in-declino”, da cui inizia il ritorno entro l’ambito puramente biologico e zoologico dell’umanità primitiva.

Alla base sta il presupposto di una logica organica che regge la vita della civiltà. La logica della natura, in quanto logica meccanica, ha il suo principio nella legalità causale. Ma questa logica non vale per il mondo della storia, che è il mondo del tempo e non dello spazio, della direzione e non dell’estensione.

La logica della storia, in quanto logica organica, ha invece il suo principio nella necessità del destino, che la vita avverte mediante l’immediata coscienza della propria irreversibilità: “l’idea del destino richiede un’esperienza della vita, non l’esperienza scientifica, la forza dell’intuire e non il calcolo, la profondità e non lo spirito”. Il destino è l’antitesi della causalità, in quanto indica la necessità della storia: esso presiede al divenire dei fenomeni nella loro singolarità irripetibile, come la causalità governa invece la connessione dei fenomeni ripetibili nell’ambito spaziale.

La necessità organica è pertanto sottoposta al destino e, anzi, sostanzialmente identica ad esso, in quanto il divenire biologico in ogni suo aspetto e in ogni suo momento è quale il destino lo fa essere.

La stessa appartenenza a un tipo, con i caratteri che questo comporta e la durata di vita che possiede, risulta sottoposta alla necessità del destino, il quale fissa il complesso di possibilità che l’organismo ha di fronte, e pertanto anche il termine della sua esistenza. Così avviene per la vita delle civiltà, che sono appunto un tipo di organismo.

La storia universale si colloca sotto il dominio del destino. La necessità organica che è alla base dello sviluppo di ogni civiltà, e che si fa valere attraverso una serie di fasi sempre corrispondenti tra loro, con le quali la civiltà prima sorge e cresce dando vita al proprio simbolismo, e poi si avvia verso la decadenza e la morte, è la necessità del destino.

Nel relativismo storicistico di Spengler si ritrova pertanto un determinismo biologico-fatalistico. Biologico dal momento che la civiltà è un organismo che ha fin dall’inizio segnato il proprio cammino, fatalistico poiché tale cammino è espressione del destino che governa la realtà intera.

L’analisi che Spengler conduce dell’odierna crisi della civiltà occidentale, cercando di mostrare come le sue manifestazioni siano in ogni campo quelle proprie di una “civiltà-in-declino”, si ispira appunto al presupposto del determinismo biologico-fatalistico.

In ogni campo della vita culturale e della vita politico-economica egli vede il presagio della prossima caduta. La conclusione – piuttosto raggelante – del pensatore tedesco è che gli esseri umani non possono fare nulla per invertire la rotta e arrestare il declino della civiltà cui appartengono. Di qui l’accusa di determinismo estremo rivolta a Spengler da altri studiosi, tra i quali Joseph Ratzinger.

 

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