Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Politica e guerra nel conflitto israelo-palestinese

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La situazione strategica di Israele è contraddistinta dall’essere uno stato militarmente superiore a tutti quelli limitrofi ad ogni livello (esercito, marina, aviazione, servizi segreti, per non parlare delle armi nucleari e batteriologiche) però minuscolo per dimensioni geografiche e demografiche rispetto al sub-continente arabo ed all’ummah dell’Islam estesa dalle Filippine all’Atlantico, dalla Bosnia sino alla Somalia.

Inoltre ha una vulnerabilità interna causata dalla sua demografia. Esiste una consistente minoranza araba con cittadinanza israeliana, mentre gli ebrei sono frammentati in comunità nazionali (russa, araba etc.) e religiose abbastanza diverse.

In tempi brevi e medi, Israele a rigor di logica non deve temere per la propria sopravvivenza. In tempi lunghi di generazioni, la sua condizione di fortezza assediata rischia d’essere insostenibile, non solo e non tanto per fattori militari essendo una potenza nucleare, quanto demografici, economici, politici, culturali.

Uno Stato ed un popolo difficilmente possono reggere a decenni di guerra ininterrotta: l’economia ne sarà usurata, i contrasti politici interni esacerbati, la psiche degli abitanti deteriorata, molti abitanti volti in fuga all’estero.

Moshe Dayan dichiarò che preferiva Sharm el Sheikh alla pace con l’Egitto, prima di ricredersi e comprendere che era meglio la pace con l’Egitto al tenersi Sharm el Sheikh.

La stessa conclusione fu fatta propria da Rabin e da Sharon verso la Palestina. Tutti e tre erano uomini di guerra, ma abbastanza razionali e consapevoli dell’esigenza per Israele di giungere ad una pacificazione con gli stati arabi.

Essa è apparsa negli ultimi anni faticosamente possibile in seguito alla disponibilità dell’Arabia Saudita ad una piena normalizzazione delle relazioni con Israele. L’Arabia Saudita è custode dei luoghi santi dell’Islam, con i capitali in suo possesso controlla buona parte dei media arabi ed è il centro teologico di una delle quattro scuole giuridiche della Sunna.

Insieme all’Egitto, che da molti anni ha riconosciuto pienamente Israele, è il cardine del sub-continente arabo.

In questo contesto, in cui pareva che si procedesse ad una lenta accettazione dello stato ebraico da parte di quelli arabi (disposti ad abbandonare la Palestina), l’attacco di Hamas ha avuto fini squisitamente politici.

Esso non si è proposto obiettivi peculiarmente militari, né sarebbe stato possibile dato il divario abissale di quantità e qualità delle FFAA di Israele e Palestina.

La sua finalità è stata quella di sabotare il delicatissimo processo di normalizzazione dei rapporti dello stato israeliano con l’Arabia Saudita ed altri paesi arabi (come il Marocco). Questo obiettivo è stato perseguito in modo logico e spietato assieme, colpendo la popolazione civile israeliana per avere una reazione quanto più possibile dura del governo e dell’esercito nemici.

Classici della guerriglia e della guerra insurrezionale, come “I dannati della terra” dello psichiatra F. Fanon, enunciano con lucidità che il fine delle uccisioni di civili dell’avversario da parte delle bande insurrezionali è avere una reazione dell’esercito regolare contro la popolazione civile amica, innescando così un ciclo distruttivo di azione-reazione, che finisce con il rendere impossibile una pacificazione.

Le vittorie tattiche dell’esercito regolare occupante sono successi di Pirro, perché provocando perdite civili accrescono sempre di più l’odio verso di esso sino ad un punto di non ritorno. Allora, o l’esercito regolare accetta di combattere “in eterno”, oppure prende atto dell’impossibilità di trovare un modus vivendi ed abbandona la terra contesa. Una pellicola, “La battaglia di Algeri” di Pontecorvo, esprime rapidamente e con efficacia lo stesso concetto.

Hamas sapeva che Israele avrebbe risposto con forza e proprio per questo ha colpito.

La reazione di Israele è stata prevedibilmente intensa ed altrettanto prevedibilmente ha avuto effetti politici negativi per Tel Aviv. L’Arabia Saudita ha deciso di sospendere i colloqui con Israele e ne ha informato gli Stati Uniti mentre molti altri paesi hanno espresso solidarietà alla Palestina, anche alcuni storicamente moderati verso la “questione palestinese” come Tunisia ed Algeria.

Due potenze locali sono alquanto refrattarie alle politiche israeliane: l’Iran è ostile ad Israele da sempre ed è un paese cresciuto economicamente e militarmente, mentre la Turchia con Erdogan è ritornata islamica e sospetta d’Israele per il suo aiuto ai curdi. L’Egitto stesso, sebbene amico d’Israele come stato, ha un forte movimento interno di tradizionalisti mussulmani tenuto a freno manu militari e paventa una destabilizzazione dall’arrivo d’un milione di palestinesi.

Politicamente, Hamas ha ottenuto un successo incalcolabile che potrebbe divenire strategico. Israele si trova dinanzi ad un dilemma tipico di queste circostanze: se reagisce con forza eccessiva, uccide civili in quantità ed innesca il ciclo di azione-reazione di cui si è detto e sicuramente rende impraticabile una normalizzazione dei rapporti con gli stati arabi; se reagisce con forza insufficiente, Hamas continua ad esistere ed a insistere con i suoi attacchi.

Il governo e l’esercito israeliani per vincere dovrebbero percorrere un cammino strettissimo fra due precipizi, annientando Hamas con un uso mirato della forza. Tuttavia le forze armate palestinesi si sono preparate per tempo all’offensiva israeliana ed hanno creato un labirinto fitto e scaglionato in profondità di difese, imitando quanto fatto da Hezbollah nel Libano meridionale: un’offensiva di terra israeliana contro Hezbollah condotta anni fa fu inconcludente. Di più, la storia insegna che colpire e distruggere le basi militari di un esercito insurrezionale è sostanzialmente inutile se esso dispone di “santuari protetti”, che esistono nel Sinai ed in Libano. Neppure distruggere la struttura militare di Hamas potrebbe bastare, sempre che Israele vi riesca.

Inoltre il conflitto può portare ad una radicalizzazione della politica israeliana, rafforzando le componenti estremiste, sempre esistite e sempre potenti, che vorrebbero una totale espulsione dei palestinesi anche da Gaza e dalla Cisgiordania. Una tale azione avrebbe conseguenze imprevedibili, a cominciare dalla destabilizzazione di Giordania ed Egitto e dall’isolamento internazionale di Israele. Non si dimentichi che la Palestina come stato è riconosciuta da buona parte degli stati del mondo.

La storia è il regno del cambiamento e dell’imprevisto, per cui la guerra in corso potrebbe in teoria anche concludersi in poche settimane. Tuttavia, rebus sic stantibus, tutto fa credere che il conflitto durerà come minimo per mesi, ma potrebbe aprire una guerra lunga di anni e con molte variabili ed incognite.

 

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