Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Ira e vendetta, componenti negative delle società umane

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«Cantami o diva del pelide Achille l’ira funesta che infiniti addusse lutti agli achei…» Doveva esser terrorizzante l’ira di Achille, e terribili le conseguenze della vendetta, se Omero così iniziava il suo memorabile canto.

Sembra che il motivo dell’ira di Achille fosse il dissidio con Agamennone, re dei greci e capo della spedizione a Troia, per una spartizione del bottino di guerra, una schiava di nome Briseide. Un motivo banale per degli eroici guerrieri. Omero comunque ci ha fatto sapere che ira e vendetta, possono essere collegate, con un nefasto rapporto causa-effetto,fin dell’antichità.

Al di là dei richiami storico-letterari, l’ira è un sentimento tipicamente umano.

Dal latino ira, sinonimi come “furia” derivano sempre dal latino furere, collera dal greco antico χολέρα, rabbia dal latino rabies. Quest'ultimo termine indica anche una malattia virale, la rabbia.

L’ira è definita uno stato psichico alterato, suscitato da elementi percepiti come minacce o provocazioni capaci di rimuovere i freni inibitori che normalmente stemperano le scelte del soggetto(i) coinvolto(i). Coloro che sono in preda all’ira provano una profonda avversione verso qualcosa o qualcuno e, in alcuni casi, anche verso se stessi.

Ha una componente genetico-costituzionale: vi sono persone che più facilmente si lasciano trasportare dall’ira, definiti anche irosi, mentre altri sono più capaci di contenerla ed è influenzata in modo notevole dall’ambiente.

Lo stato d’ira si accompagna a modificazioni fisiologiche, come l'aumento del battito cardiaco, della pressione sanguigna, dei livelli di adrenalina e noradrenalina.

Studi neuroanatomici indicano che nella collera intervengono differenti regioni del cervello, rafforzandosi e facendo anche da contrappeso fra loro.

In passato le valutazioni sulle conseguenze di un comportamento collerico sono state diverse. Mentre lo stato d’ira veniva auspicato per i soldati, resi così più efficienti per la guerra, era considerato deleterio per l'ordine e la pace della comunità sociale.

 

Per la dottrina cristiana è uno dei sette vizi capitali.

Secondo Freud l’ira, come altre emozioni, se repressa, poteva causare una gamma di sintomi fisici dal mal di testa ai disturbi intestinali, e negli anni 50-60 del secolo scorso sono stati fatti tentativi terapeutici incoraggiando i pazienti a entrare in stato d’ira. Attualmente si ritiene che scatenare gli attacchi non sia curativo e si preferisce cercarne i motivi.

L'ira è comunque in grado di mobilitare risorse psicologiche positive come la correzione di comportamenti sbagliati e le disuguaglianze sociali, ma può rivelarsi “distruttiva” quando non trova un adeguato sbocco di espressione.

Una persona irata può infatti perdere oggettività, empatia, prudenza, senso di riflessione e causare danni ad altre persone o cose.

Ira ed aggressività (fisica o verbale, indiretta o diretta) devono tuttavia essere tenute distinte, anche se possono influenzarsi a vicenda

Che il desiderio di vendetta, come lo stato d’ira, sia presente fino dai primordi della storia umana lo testimonia ancora una volta Omero.

Nel libro XXII dell’Odissea ha descritto il comportamento di Ulisse dopo aver terminato la strage dei Proci colpevoli di aver usurpato il suo regno e insidiata la moglie: «Guardava anche Odisseo per la sala, se ancora qualcuno vivo gli fosse sfuggito, scampando la tenebrosa Chera Ma tutti li vide fra il sangue e la polvere…»

La parola vendetta ha origine latina: vindex nel diritto romano è il garante, vindicta la bacchetta con la quale era toccato lo schiavo per affrancarlo ed è probabile che vindicare provenga dalla fusione di venum prezzo e dicare, indicare; dunque vendetta come prezzo della riparazione del torto.

Il desiderio di vendetta è contraddistinto da un soggettivo senso di giustizia ed è un comportamento esclusivamente umano.

Che il senso di giustizia sia molto potente e presente anche in popolazioni particolari, me lo ricordava spesso il mio professore di psichiatria all’università, direttore di una grande manicomio negli anni 50: «se vuoi che un reparto di pazienti divenga agitato distribuisci dosi diverse di minestra».

Coloro che hanno subito il torto, reale o presunto, vogliono o sentono il bisogno di “pareggiare i conti”, punendo chi intenzionalmente o meno ne è stata la causa.

Il desiderio di vendetta è comunque variabile negli individui come è variabile il rapporto tra entità dell’offesa e quella della vendetta.

Vi sono persone che per torti presunti, frutto di menti alterate, compiono atti orribili, altre del tutto incapaci di vendicarsi anche in situazioni estreme.

In uno dei documentari girati nel 1945 dopo la liberazione nei campi di concentramento nazisti un soldato alleato mostrava ad una donna liberata il suo aguzzino, le porgeva il suo fucile e le diceva: «spara!». La donna rendeva il fucile al soldato.

Esempi di vendetta “soft” si trovano nei rapporti affettivi: «tu non mi credevi, ma io te l’avevo detto»; di solito non hanno conseguenze.

Il contesto sociale influenza notevolmente il sorgere di un desiderio di vendetta e facilita il suo attuarsi come avviene in ambienti criminali o in certi gruppi di popolazione con alterati codici d’onore nei quali la vendetta diviene un atto obbligatorio.

Può essere esplicata in modo collettivo, come nel linciaggio. Il termine “linciaggio” deriva da Charles Lynch, giudice di pace della Virginia, che all’epoca della rivoluzione americana ordinò punizioni extralegali, ma l’orribile pratica è allo stesso tempo antica come la tentata lapidazione dell’adultera nei Vangeli, e insieme moderna, vedi i progrom antisemiti dell’Europa orientale.

Il tema della vendetta è stato oggetto di moltissime rappresentazioni artistiche di solito a tema individuale.

Si deve ammettere che lo spettatore avverte spesso simpatia per il(la) protagonista vendicatore(trice) capace di soddisfare il suo senso di giustizia, se questo avviene quando la legge latita.

Oltre agli episodi di vendetta individuale oggetto di cronaca, vi sono quelli collettivi durante le guerre.

Nei tempi antichi, se una città assediata si arrendeva senza resistere, l’occupazione avveniva di solito senza particolari violenze; se la città resisteva e poi capitolava gli assedianti per tre giorni avevano licenza di ogni violenza. Una sorta di vendetta. per aver osato resistere.

In epoca moderna la vendetta in guerra è affidata alla tecnologia.

Nel secondo conflitto mondiale, nel novembre 1940, la città di Coventry in Inghilterra fu distrutta dai bombardamenti tedeschi. Venne allora coniato il termine coventrizzare, per indicare il bombardamento a tappeto di una città.

Il 13 febbraio del 1945 aerei angloamericani sganciarono sulla città di Dresda, in Germania un numero impressionante di bombe incendiarie, la città fu rasa al suolo e nel terribile rogo morirono 25-35mila persone.

A Coventry il numero di vittime fu limitato a poco più di mille; è probabile che la popolazione fosse stata allertata da un bombardamento precedente, mentre quella di Dresda riteneva che la presenza di un centro ricco di tesori architettonici e capolavori artistici e la modestia delle installazioni militari la preservasse dagli attacchi aerei.

Inoltre la Germania capitolò pochi mesi dopo. Fu una “vendetta” terribile ed inutile.

Nella religione cristiana, non è presente la vendetta, ma il perdono.

In una società laica, perdonare non significa dimenticare le offese che devono essere valutate nelle istituzioni giudiziarie, secondo leggi ritenute necessarie dai primordi dell’umanità.

Dopo il processo di Norimberga del 1947 ai criminali nazisti si sono costituiti tribunali internazionali per i crimini di guerra e contro l’umanità.

Se ira e vendetta sono componenti negative costanti nella storia passata e presente delle società umane, è possibile prevedere un futuro senza di loro?

Educazione sentimentale, lotta alle disuguaglianze e abolizione dei conflitti tra Stati, sono sicuramente mezzi efficaci per moderarne la nefasta presenza.

Se l’abolizione completa rimanda all’utopia si può concordare con quanto ha affermato lo scrittore uruguayano Eduardo Galeano (1940-2015) in un’intervista: «L'utopia è là nell'orizzonte. Mi avvicino di due passi e lei si distanzia di due passi. Cammino dieci passi e l'orizzonte corre dieci passi. Per tanto che cammini non la raggiungerò mai. A che serve l'utopia? Serve per questo: perché io non smetta mai di camminare.»

 

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