Sui valori universali

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Si afferma spesso che non c’è alcun criterio comune di valutazione mediante il quale si possano mettere a confronto o descrivere concetti, norme e valori.

Il problema del relativismo è ovviamente connesso alla ricerca di caratteristiche inter-culturali riscontrabili in ogni gruppo sociale.

Se tali “universali” esistono, si può arguire che essi derivano da una natura umana che presenta almeno alcuni caratteri di invariabilità che precedono sia la cultura sia la socializzazione.

In linea generale si possono menzionare il comune interesse per il benessere, la presenza di vincoli normativi riscontrabili in ogni tipo di società, la capacità di intrattenere credenze garantite socialmente circa l’ambiente circostante, la capacità di deliberare e quella di compiere azioni in base a piani prestabiliti.

In altri termini si può senz’altro concedere ai relativisti che la diversità culturale è enorme, senza per questo negare la presenza di un certo numero di caratteristiche fondamentali della società umana che vengono espresse in modi molto diversi.

Se una credenza vera si definisce come una credenza conforme a una realtà indipendente dal soggetto, il relativismo nega che possano darsi, o che si possano riconoscere, credenze vere in questo senso.

 

Già Pascal aveva osservato nei suoi Pensieri: «Ciò che è considerato verità su un versante dei Pirenei è errore sull’altro».

Tale aforisma serve a cogliere il relativismo nella sua accezione più ampia, che sostiene la relatività di ogni forma di cognizione. La varietà delle concezioni etiche entro una società e fra società diverse è un dato di fatto che, pur non dimostrando l’assenza di una verità assoluta ed oggettiva in ambito etico, tende tuttavia a suggerirla. L’affermazione della scienza ha condotto a una netta distinzione tra “fatti” e “valori”.

Le scienze sociali offrono dei modi per spiegare la loro varietà, nel senso che quest’ultima sarebbe funzione di sistemi sociali altrettanto vari.

Il problema della fondatezza del relativismo di ogni forma di conoscenza si coglie affrontandolo in stadi diversi.

Il primo stadio è quello del relativismo “concettuale”, che parte dalla grande diversità degli schemi concettuali che usiamo per classificare e spiegare la realtà.

I fatti dell’esperienza non determinano mai completamente ciò che è razionale credere circa l’ordine insito nell’esperienza stessa o sotteso ad essa; classificare e spiegare significa applicare concetti d’uso locale. Così la fisica ora ricorre a concetti come “etere” o “flogisto” ora li abbandona.

Ogni schema di classificazione impone una griglia, sostenuta a sua volta da concetti teorici che si basano in ultima analisi su categorie quali “tempo”, “divinità”, “causa” o “azione”. Ciò porta a relativizzare la scienza e a mostrarne il carattere storico-evolutivo. Una tesi più forte afferma che i concetti sono sostanzialmente contestabili soltanto entro il proprio schema concettuale, e che gli schemi concettuali stessi sono “incommensurabili”, per esempio perché si basano su “presupposti assoluti” (Collingwood) o “paradigmi” (Kuhn) che hanno lo status di miti.

Il relativismo epistemico, poi, contestualizza pure i criteri che individuano la verità e la logica. Se si possono costruire logiche tra loro alternative, allora i principi fondamentali della logica aristotelica non possono più essere considerati alla stregua di “leggi del pensiero” che sono, in quanto tali, immodificabili.

Se Nietzsche (seguito oggi da Rorty) ha ragione ad affermare che la verità è “un esercito mobile di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane, che sono state sublimate, tradotte, abbellite poeticamente e retoricamente, e che per lunga consuetudine sembrano a un popolo salde, canoniche e vincolanti: le verità sono illusioni, delle quali si è dimenticato che appunto non sono che illusioni”, allora non può esservi alcun apparato cognitivo definitivo.

Questo approdo è incoraggiato tanto dalle dispute filosofiche sulla verità, che in quanto tali rendono problematica la possibilità di individuare un criterio neutrale di verità, quanto dai risultati della ricerca antropologica, i quali dimostrano, parafrasando ancora una volta Pascal, che una buona ragione - ai fini della credenza o dell’azione - su un versante dei Pirenei può essere una cattiva ragione sull’altro. Se è così, ogni cognizione si regge in definitiva sulle proprie gambe.

Quando contestualizziamo il pensiero, rispetto a cosa lo rendiamo relativo?

Le risposte possono essere a carattere materialistico o idealistico. Le prime collegano la cognizione a qualcosa di esterna ad essa; per esempio, a forme di condizionamento comportamentale o neuronale, o a strutture e rapporti sociali analizzati indipendentemente dalle credenze che determinano.

Le seconde collegano la cognizione a se stessa, alla maniera di una struttura a rete, internalizzando così i rapporti sociali, o perfino la natura, entro la rete stessa.

Forse i diversi linguaggi altro non sono, in definitiva, che reti diverse. Scrive il secondo Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche che «ciò che deve essere accettato, il dato, è costituito, per così dire, da forme di vita».

Le risposte di tipo materialista implicano un punto d’arresto per permettere a un osservatore scientifico di stabilire una prospettiva relativista che, spesso, ha il compito di esonerare il pensiero propriamente scientifico dalla contestualizzazione. Le risposte idealiste tendono invece a rifiutare qualsiasi forma di esenzione, e quindi portano, per esempio, alla sostituzione di ogni forma tradizionale di oggettività con una post-moderna “conversazione dell’umanità” (Rorty). Da un lato, se vi è qualcosa di universale non è certo evidente. Dall’altro, la varietà di per sé non prova che tutti i punti di vista siano ugualmente validi. Se lo fossero, del resto, un relativismo totale non sarebbe più valido o più giustificabile della sua negazione.

Il problema si pone oggi con forza osservando quanto sia difficile convincere altri tipi di società ad adottare valori e concetti tipici della tradizione europea e occidentale in genere. Siamo sicuri, per esempio, che la libertà individuale possa essere accettata da tradizioni culturali diverse dalla nostra, nelle quali l’individuo non ha valore in sé, ma solo come parte di n più vasto gruppo sociale?

Parimenti, siamo sicuri che tutti attribuiscano lo stesso valore ai “diritti umani”, da noi ritenuti fondamentali e imprescindibili?

In molte nazioni in precedenza dominate dall’Occidente si ritiene che queste concezioni siano, per l’appunto, un’eredità dell’epoca coloniale, quando i Paesi occidentali imponevano a tutti gli altri il proprio sistema di concetti e di valori. In tali contesti si pensa altresì che tale imposizione non abbia più ragione di esistere. I valori occidentali, si sostiene in quei contesti, non sono universali né gli unici valori possibili.

Ne consegue che nessuna civiltà può permettersi di considerare universali i propri valori, e che civiltà e tradizioni diverse debbono poter elaborare valori differenti, senza per questo soffrire di complessi di inferiorità.

 

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