Carlo Urbani, un medico senza frontiere (1956-2003)
L’aiuto agli esseri umani sofferenti, ovunque si trovino, in particolare a quelli che non hanno accesso alle cure, corrisponde alla vocazione originaria della medicina. Nel secolo scorso, per le popolazioni più povere nei Paesi sottosviluppati, l’aiuto proveniva quasi sempre da iniziative individuali collegate a missioni religiose. Negli ultimi decenni questo compito è portato avanti da organizzazioni sanitarie non governative, come ad esempio, l’Associazione Medici senza Frontiere (MSF). Il dott. Carlo Urbani, deceduto per il lavoro all’inizio degli anni duemila è stato un rappresentante eroico di questa associazione. Carlo Urbani nacque a Castelpiano, un piccolo paese di 1500 abitanti nelle Marche, il 19 ottobre 1956. Fin da giovane fu attivo nelle opere di volontariato nelle organizzazioni cattoliche quali Mani Tese e UNITALSI (Unione Nazionale Italiana Trasporto Ammalati a Lourdes e Santuari Internazionali), s’impegnò nella raccolta dei farmaci da inviare in Africa, nell’organizzazione di campi estivi per i ragazzi portatori di handicap e con i giovani organizzava riunioni per discutere i problemi dei paesi del terzo Mondo.
Laureato in Medicina nel 1981, specializzato successivamente in malattie infettive e tropicali, nei tre anni successivi lavorò nell'Istituto di malattie infettive di Ancona, nella Unità di malattie infettive di Macerata e come medico di famiglia nel proprio ambulatorio a Castelpiano. Profondamente credente sentiva tuttavia il bisogno di portare aiuto dove era maggiormente necessario. Dopo aver trascorso un mese come medico volontario in Etiopia nel 1987 raccontò la sua esperienza alla moglie: «Giuliana dovresti vedere la sofferenza che c’è. Sarebbe bello partire tutti assieme, andare a lavorare dove davvero sei indispensabile e non qui a prescrivere medicine.» Un sogno che avrebbe realizzato in seguito. Tenne corsi di parassitologia tropicale in varie università e centri ospedalieri e nel 1993 divenuto consulente della Organizzazione mondiale della Sanità (OMS) venne inviato in varie missioni nell’Africa occidentale. Nel 1996, a quaranta anni, entrò a far parte di MSF, fondata nel 1971 a Parigi, focalizzata sul fornire soccorso sanitario ed assistenza a persone in tutti i luoghi del mondo in cui il diritto alla cura non è garantito. Dal 2022 è attiva in 75 Paesi con un organico di oltre 68mila persone; i donatori forniscono l’87 % del finanziamento. L’anno successivo Urbani venne inviato dall’OMS in Cambogia come coordinatore di un progetto per il controllo delle malattie endemiche parassitarie in quel Paese, per la durata di un anno. Si trasferì a Phnom Pen con tutta la famiglia. A un insegnante suo amico che gli chiese di raccontare agli alunni di una scuola media l’opera dei medici senza frontiere in Cambogia. Rispose da Phnom Pen il 27 gennaio1997, descrivendo le terribili vicende del popolo cambogiano durante il governo degli Khmer rossi, la difficile situazione attuale e come i medici si rivolgevano direttamente alle popolazioni insegnando come curare le infezioni e ad evitare di contrarre le malattie. Per la minaccia di attacchi da parte dei Khmer rossi erano costretti a muoversi tra i villaggi con la scorta. La lettera, molto dettagliata, è stata riportata nel libro di Jenner Meletti, Il medico del mondo, Vita e morte di Carlo urbani (Il Saggiatore, Milano 2004), con prefazione di Romano Prodi e potrebbe essere stata scritta da un professore di storia e geografia piuttosto che da un medico. Urbani era piuttosto critico verso la politica, ma aveva le idee chiare: quando il centrodestra era tornato al governo in Italia scrisse al fratello: «Ma cosa avete combinato lì in Italia? Ma siete messi proprio male». Nel 1999 MSF ricevette il Nobel per la pace e Urbani, divenuto presidente della sezione italiana, fece parte della delegazione che a Oslo ritirò il premio. Con i soldi creò un fondo per promuovere una campagna internazionale di accesso ai farmaci essenziali per le popolazioni più povere. In collaborazione con l’ospedale di Macerata l’anno successivo coordinò un corso internazionale, l'Advanced training on tropical medicine; fu approvato il Macerata Statement, una carta che raccoglieva le direttive da seguire nelle missioni umanitarie. Nel 2000 l’OMS gli conferì un importante incarico di responsabile della lotta contro le malattie parassitarie nell’area del Pacifico occidentale, di tre anni di durata. Nell’aprile si trasferì ad Hanoi con la famiglia, da dove effettuò continue missioni in Cina, Laos, Cambogia e Filippine. Era un lavoro stressante, ma furono anni felici. Aveva sempre molti progetti e quando si avvicinò il termine dell’incarico nel 2003, in previsione del ritorno in Europa con la famiglia via terra, iniziò a ristrutturare un fuoristrada. Purtroppo il destino dispose diversamente. Il 28 febbraio venne chiamato a consulenza in un piccolo ospedale di Hanoi per un paziente americano ricoverato con una polmonite atipica, molto violenta. Nei giorni seguenti esaminò accuratamente il paziente e comprese di trovarsi di fronte a una nuova malattia. Fu il primo a identificare e classificare la SARS (Severe Acute Respiratory Syndrome, Sindrome Respiratoria Acuta Grave) o polmonite atipica, dovuta ad una variante del coronavirus causa di un’epidemia esplosa nel 2002-2003, ad elevata letalità. D’accordo con le autorità governative, l’ospedale venne posto in quarantena e disposizioni simili furono prese in tutto il Vietnam. Quindici giorni dopo mentre era in viaggio avvertì una febbricola, si rense conto di essere stato contagiato, e chiese di essere immediatamente ricoverato a Bangkok in un ospedale più attrezzato. La morte sopravvenne dopo diciannove giorni d’isolamento il 29 marzo. La moglie, nel libro sopracitato, ha descritto quei giorni terribili; la comunicazione attraverso il vetro divisorio fu prima verbale, poi solo a gesti. Sono pagine toccanti. Tornata in Europa ha ricordato: «Sento dentro di me ogni attimo dei suoi ultimi giorni. Rivivo le ore e i minuti. E ricordo che Carlo non mi ha mai parlato del “dopo”, della morte. Durante una delle ultime visite mi ha fatto un gesto che ancora cerco di comprendere, ha alzato le braccia, ha stretto i pugni, alzando però i pollici, come in un gesto di vittoria. Come medico sapeva di morire, ma forse quel gesto voleva dirmi che aveva accettato la prova e si sentiva pronto per il passaggio dalla vita terrena, Con serenità». Anche negli ultimi giorni Carlo Urbani si dimostrò attento alla salute altrui e dette disposizione per il prelievo dei tessuti dei suoi polmoni per le analisi. Aveva solo 47 anni, lasciava tre figli di 16, 8 e 2 anni. Con gli altri quattro operatori sanitari che avevano avuto in cura il paziente con SARS furono gli unici decessi per questa malattia in tutto il Vietnam, il primo Paese del sud est-asiatico a dichiarare che la SARS era stata debellata. L'intervento immediato e mirato di Urbani aveva permesso di salvare migliaia di vite. Secondo l'OMS il metodo anti-pandemie da lui realizzato durante la malattia che lo aveva colpito, rappresenta, ancora oggi, un protocollo internazionale per combattere questo tipo di malattie. Il ceppo di coronavirus responsabile della SARS è stato denominato Urbani in sua memoria. A lui sono state intitolate vie cittadine in Italia, ospedali, istituto scolastici, parchi pubblici; il suo volto è ritratto nella “Hall of fame della scienza” sul muro di cinta dell’ospedale Spallanzani di Roma. È ricordato con una targa al Giardino dei Giusti di Milano. Nel 2003 ha ricevuto la medaglia d’oro per i benemeriti della sanità pubblica e la medaglia dell’Ordine dell’Amicizia del Vietnam. Nello stesso anno si è costituita a Castelpiano l’ACA, Associazione Carlo Urbani, per continuare la sua opera. Nel 2020 è stato nominato Cavaliere di gran croce dell’Ordine della Stella d’Italia. Nel 2023 sempre a Castelpiano, è stato inaugurato un museo a lui dedicato. |
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