Albert Einstein? Un opportunista
Rifiutando la concezione scientista e meccanicista della metodologia della scienza, Albert Einstein definì “opportunista” il proprio programma epistemologico. Scrisse infatti che «lo scienziato apparirebbe all’epistemologo sistematico come un tipo di opportunista privo di scrupoli: sembra un realista fintanto che cerca di descrivere il mondo indipendente dagli atti di percezione; sembra invece idealista, quando guarda a concetti e teorie come a libere invenzioni dello spirito umano, non logicamente derivabili dai dati empirici; sembra un positivista, quando riguarda i suoi propri concetti e teorie come quelli che si giustificano unicamente in quanto che riescono a fornire una rappresentazione logica delle relazioni fra le esperienze sensoriali. Può persino dar l’impressione di essere platonico o pitagorico, nella misura in cui considera il punto di vista della semplicità logica come uno strumento indispensabile ed efficace della propria ricerca». La ragione di cui Einstein parla è una ragione intesa in termini assai vasti, una costellazione complessa di cui fanno parte vari elementi tra loro legati e che si fecondano l’un l’altro. Si tratta di una ragione che comprende scienza, arte, poesia, inconscio, etica, religione. Tale ragione si contrappone all’arroganza della strategia epistemologica della linea Hume-neopositivismo, secondo la quale i linguaggi dotati di significanza e valore sono soltanto quelli del mondo empirico o del convenzionalismo logico-matematico. Rammento a questo proposito le celebri parole di David Hume: «Quando scorriamo i1 libri di una biblioteca, di che cosa dobbiamo disfarci? Se prendiamo in mano qualche volume di teologia o di metafisica scolastica, ad esempio, chiediamoci: Contiene forse dei ragionamenti astratti intorno alla quantità o al numero? No. Contiene dei ragionamenti basati sull’esperienza e relativi a dati di fatto o all’esistenza delle cose? No. Allora diamolo alle fiamme, giacché esso non può contenere nient’altro che sofisticheria e inganno». Per indicare questa complessità della propria epistemologia non meccanicistico-positivista, Einstein ha usato in polemica col neopositivismo logico la metafora dell’animale metafisico. In una lettera a Moritz Schlick scrisse: «In breve, non tollero la separazione tra Realtà dell’Esperienza e Realtà dell’Essere. Sarai stupito del ‘metafisico’ Einstein. Ma ogni animale a due o a quattro zampe è de facto, in questo senso, metafisico». D’altronde uno dei massimi storici della scienza del secolo scorso, il francese Alexandre Koyré, ricordava che il pensiero scientifico non si sviluppa nel vuoto, ma è sempre collocato all’interno di un quadro di idee e di princìpi fondamentali che, abitualmente, si pensa appartengano alla filosofia in senso proprio.
Einstein è dunque in buona compagnia nel progetto di superamento dell’impostazione humeana e neopositivista della scienza, poiché molti dei grandi fisici del XX secolo hanno fatto ricorso a posizioni antipositiviste. Certamente egli non proponeva di abbandonare la razionalità. Semplicemente vedeva che deve esserci un ruolo degli altri elementi del pensiero che, se usati in modo adeguato, possono supportare il pensiero scientifico. Ecco quindi la concezione delle teorie come libere invenzioni, l’esaltazione dell’intuizione e dell’immaginazione, il ruolo dello stupore che lo scienziato prova di fronte al mondo, l’accentuazione della funzione svolta dagli ideali etici ed estetici, il senso cosmico-religioso dell’universo come sentimento della bellezza dello stesso, e il primato della saggezza spirituale. Concetti e princìpi della fisica teorica sono dunque, secondo il più grande scienziato contemporaneo, creazioni libere dello spirito umano, suggeriti dall’esperienza, ma mai dedotti necessariamente da essa per astrazione, vale a dire per via esclusivamente logica. “Quel che vedo nella natura” - afferma ancora Einstein - “è una struttura magnifica che possiamo capire solo molto imperfettamente, il che non può non riempire di umiltà qualsiasi persona razionale”. Simili considerazioni dovrebbero indurre a riflettere anche sul carattere storico dell’impresa scientifica. La scienza è sempre il risultato dell’incontro tra il mondo naturale da un lato, e le concezioni e gli interessi pratici degli esseri umani dall’altro, vale a dire tra mondo e soggetto che vuole conoscere il mondo. John Dewey usava a tale proposito il termine transazione per denotare questo interscambio dove i contributi dell’osservatore e della realtà osservata non possono essere separati con una linea di confine rigida. Ogni volta che ci vien fatto di chiedere quali siano le caratteristiche della realtà che possono essere scoperte, occorre sempre rammentare di aggiungere la domanda “scoperte da chi?”. Si può senz’altro sostenere che la natura presenti delle caratteristiche di regolarità indipendenti dal soggetto che la indaga. Tuttavia l’evoluzione ci ha dotato di certe caratteristiche e non di altre, e ciò significa che siamo sensibili a certi parametri fisici e non ad altri. In altre parole, la scienza fornisce informazioni attendibili circa il mondo circostante, ma si tratta pur sempre di informazioni relative ad una certa cornice concettuale che è la nostra. Non si deve tuttavia commettere l’errore di pensare che i limiti delle nostre capacità cognitive siano - o siano soltanto - limiti di tipo aprioristico. Siamo invece vincolati da limiti empirici assai evidenti, determinati dal fatto che noi indaghiamo la natura mediante un apparato sensoriale che risponde a certi stimoli, ma non ad altri. In altre parole, il mondo che la scienza attuale ci mostra è semplicemente il mondo così come viene rappresentato dalla scienza attuale. Noi ora crediamo che esistano certe entità che svolgono un ruolo chiave nella nostra visione scientifica della realtà ma, d’altro canto, non abbiamo alcuna ragione di escludere che le nostre attuali teorie scientifiche verranno superate (o, ancor meglio, abbiamo tutte le ragioni per credere che esse in effetti lo saranno). Dunque la scienza di qualsiasi particolare periodo storico non ci dà la garanzia che il mondo sia proprio come essa lo descrive: anzi, l’incessante succedersi di teorie ci mostra proprio il contrario. Oggi viviamo all’interno di uno schema concettuale che ci porta a vedere la realtà secondo l’ottica di certe teorie scientifiche di grande successo come la relatività o la meccanica quantistica, ma è ragionevole presumere che anch’esse non reggeranno alla prova del tempo. È questa la ragione che induce ad essere scettici circa le proposte volte a demarcare con confini rigidi la scienza dalla metafisica. Tale demarcazione è di difficile (per non dire impossibile) esplicitazione perché si regge sul presupposto che vi sia una sola scienza, il che non è. Occorre relativizzare ogni tentativo di questo tipo ad un particolare periodo storico: sono sempre la scienza di un certo periodo e la metafisica di un certo periodo a confrontarsi, e l’esperienza storica ci fa capire che tra cento anni le cose potranno essere viste in modo diverso. Non esiste una “immagine scientifica del mondo” atemporale, ma tante immagini inserite nel flusso del tempo. La stessa immagine del senso comune, che apparentemente è la più stabile di tutte, in realtà cambia in continuazione incorporando senza posa elementi che provengono da quella scientifica. L’assolutizzazione del sapere scientifico non è pertanto sostenibile. Se affermiamo che la scienza attuale ci fornisce la visione fedele di come il mondo è, corriamo il rischio (inevitabile, considerate le circostanze in cui concretamente operiamo) di ipostatizzare qualcosa che è soltanto un prodotto storicamente determinato. La sua validità è ristretta ad un particolare periodo della nostra evoluzione culturale, e un approccio fallibilista dovrebbe impedirci di sostenere, anche alla luce dell’esperienza passata, che l’ontologia propostaci dalla scienza dei nostri giorni sia l’ontologia assoluta che la metafisica si è sforzata per tanti secoli di costruire. A questo proposito, risultano più che mai attuali le seguenti parole dello scienziato e premio Nobel per la fisica Werner Heisenberg, uno dei fondatori della meccanica quantistica: «La scienza naturale non descrive e spiega semplicemente la natura; descrive la natura in rapporto ai sistemi usati da noi per interrogarla. È qualcosa, questo, cui Descartes poteva non aver pensato, ma che rende impossibile una netta separazione fra il mondo e l’Io». Secondo molti epistemologi contemporanei, queste riflessioni inducono a concludere che relativismo e fallibilismo, anziché essere spettri di cui avere paura, costituiscono componenti essenziali ed ineludibili del nostro rapporto con l’ambiente circostante. |
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