I filosofi e il capitalismo

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Piaccia o meno, la filosofia è importante anche ai fini dell’attuale dibattito sul futuro del capitalismo. Se ne accorse tempo fa il compianto Piero Ostellino, già direttore del “Centro Einaudi” e firma di punta del “Corriere della Sera”.

In un articolo intitolato Capitalismo moribondo? No, senza alternative, Ostellino dimostrò perché è impossibile tener fuori la filosofia dal dibattito anzidetto.

Questo a riprova del fatto che i giornalisti, a differenza dei docenti universitari, sanno meglio comunicare al grande pubblico i dati essenziali di un problema. E senza peraltro scordare che tra giornalisti e accademici c’è spesso una certa osmosi, nel senso che gli uni assumono a tratti le vesti degli altri (e viceversa).

Scrisse dunque Ostellino che il dibattito su capitalismo e mercato “si sviluppa tutto intorno a un problema filosofico.

Di Teoria della conoscenza”. Per quale motivo? Semplicemente perché gli esseri umani presuppongono di avere a disposizione strumenti conoscitivi assai più potenti di quelli che in effetti posseggono.

È una vecchia storia. A partire dall’antichità greca per arrivare ai giorni nostri è sempre stata viva la presunzione di comprendere completamente la realtà, sia essa naturale o sociale. O almeno che essa sia del tutto accessibile ad alcuni – si pensi ai Filosofi-re di platonica memoria – grazie a speciali poteri derivanti non si sa bene da dove.

Purtroppo non è così. Per quanto ci riguarda viviamo in un mondo assai incerto, e la dimensione dell’incertezza investe in pieno anche la conoscenza e le teorie che in base ad essa costruiamo. La conseguenza è che le nostre scelte avvengono sempre in condizioni che non garantiscono affatto gli esiti desiderati.

 

L’Illuminismo francese aveva un carattere razionalista e assegnava alla “Ragione” concepita in termini astratti il potere di conoscere la volontà dei cittadini, mentre secondo l’Illuminismo empirico e scettico di derivazione scozzese sono le passioni a guidare la ragione, e non viceversa.

Inutile rammentare che nel contesto culturale italiano ha sempre prevalso il primo, con ben pochi pensatori di livello disposti a schierarsi sul versante degli scozzesi.

Non mancavano nell’articolo di Ostellino i riferimenti a Karl Popper e – fatto meno ovvio – a Luigi Einaudi, grande teorizzatore del “conflitto come il dato permanente del progresso nelle libertà”. Né veniva scordato il costante tentativo di divinizzare in epoca moderna e contemporanea l’essere umano, attribuendogli i caratteri che in precedenza erano assegnati a Dio.

Si pensi a un solo esempio. La fiducia nella scienza è diventata completa al punto di pensare che sia possibile prevedere in modo esatto terremoti, alluvioni e catastrofi naturali. E, quando le previsioni falliscono, si accusano gli esperti del settore di non saper far bene il proprio lavoro.

Va rimarcata nell’articolo la competenza dell’autore nel dipingere in poche righe i tratti essenziali dell’incapacità di riconoscere i limiti della conoscenza umana.

Resta un solo dubbio. Ostellino a un certo punto scriveva: «Un’altra differenza fra certi economisti e i filosofi morali è l’idea degli economisti che la società – una volta individuato il bandolo della matassa dell’equilibrio socio-economico – sia fondamentalmente statica, mentre i filosofi la ritengono in continuo movimento».

Ma è davvero così? Chi scrive insegna filosofia all’università e, purtroppo, proprio in campo filosofico ha sempre trovato i maggiori esempi di amore per la staticità e di superbia antropocentrica.

 

 

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