Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Storia del Partito Comunista Cinese

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È da poco uscito per i tipi dell’Editore Laterza (Roma-Bari, 2023) un volume dedicato alla storia del Partito Comunista Cinese.

Intitolato La Cina rossa. Storia del Partito Comunista Cinese, il libro di Guido Samarani e Sofia Graziani ripercorre con dovizia di particolari la nascita e lo sviluppo di una formazione politica che, conclusa la lotta con gli invasori giapponesi e, in seguito, la guerra civile con i nazionalisti di Chiang Kai-shek, sconfitti e costretti a rifugiarsi nell’isola di Formosa (l’attuale Taiwan), è riuscita ad ottenere il dominio assoluto della Cina.

Fondato nel 1921 a Shanghai da un esiguo numero di militanti, nel corso della sua storia il PCC ha attraversato parecchie fasi. Nato con il fattivo appoggio di Lenin e dell’Unione Sovietica, il Partito è stato per lungo tempo soggetto all’influenza di Mosca, che ne favorì la crescita anche con l’assistenza ideologica e cospicui finanziamenti. Sin dagli inizi, tuttavia, i comunisti cinesi avevano ben chiara la necessità di percorrere una strada almeno parzialmente autonoma. Questo in virtù delle immense dimensioni del loro Paese e della ricchezza di una tradizione culturale millenaria (superiore, sotto molti aspetti, a quella russa).

Dell’appoggio sovietico, tuttavia, avevano bisogno per affermarsi sugli avversari e per modernizzare la nazione. Ancora negli anni ’50 del secolo scorso, infatti, la Cina era una nazione essenzialmente agricola e rurale, con un’industria e un apparato produttivo assai deboli.

 

Quando Mao Zedong divenne la figura dominante nel Partito, ne approfittò per elaborare una dottrina che si discostava dai canoni classici del marxismo-leninismo, impostati sulla dicotomia tra borghesia e proletariato. Ciò condusse Mao ad attribuire un grande peso ai contadini, che formavano la stragrande maggioranza della popolazione cinese. Ad essi si appoggiò nella lotta tanto contro gli invasori giapponesi, quanto contro i nazionalisti di Chiang Kai-shek, che venivano visti con favore dalle potenze occidentali.

Quando il “Comintern” (l’Internazionale comunista) fu sciolto nel 1943, Ma Zedong colse la palla al balzo per ribadire la necessità di una “via cinese al socialismo”, rispettosa dell’esperienza sovietica, ma criticandola quando era necessario.

Proprio qui si trovano le radici della crescente ostilità tra Repubblica Popolare e Unione Sovietica, In seguito sfociata, nel 1969, in gravi scontri militari tra gli eserciti dei due Paesi sul fiume Ussuri. In realtà, sin dalla fondazione della Repubblica Popolare nel 1949, Mao non accettò mai che la Cina avesse un ruolo subordinato rispetto a Mosca. E questo nonostante egli adottasse, sul piano economico, il modello sovietico dei piani quinquennali.

Fu sempre forte in Mao la tendenza nazionalista che si tradusse quasi subito nell’occupazione del Tibet (etnicamente non cinese) e del Xinjiang (popolato dagli uiguri musulmani). Nel 1964 la Cina maoista riuscì pure a dotarsi della bomba atomica, così entrando a far parte della cerchia ristretta delle potenze nucleari.

Il volume illustra molto bene episodi ormai entrati nell’immaginario collettivo quali la “Campagna dei cento fiori”, il “Grande balzo in avanti” e quello forse più celebre, la cosiddetta “Rivoluzione culturale” che segnò, in pratica, la fine del maoismo. Grande attenzione viene inoltre dedicata alla svolta economica decisa nei tardi anni ’70 del secolo scorso da Deng Xiaoping, con un’apertura – par quanto parziale – all’economia di mercato, con l’invito rivolto ai cittadini ad arricchirsi, sia pure in un contesto che restava in sostanza comunista e dominato dal “Partito/Stato”. E’ comunque tale svolta ad aver consentito alla Cina di diventare la seconda potenza economica mondiale, a ridosso degli Stati Uniti.

Ovviamente l’opera si conclude con un’analisi dell’operato dell’attuale leader, Xi Jinping che, confermando il marxismo-leninismo quale unica dottrina ufficiale dello Stato, ha posto l’accento sulla dimensione ideologica piuttosto che su quella economica, al contrario di quanto avevano fatto i suoi predecessori. E’ inoltre riuscito a circondarsi di fedelissimi nel “Politburo”, inaugurando una gestione personale al posto di quella collegiale in auge in precedenza.

Una questione, tuttavia, incombe. Si rammenti che il moderato Deng Xiaoping aveva autorizzato, nel 1989, la strage di piazza Tienanmen temendo che le proteste studentesche e popolari portassero alla fine del regime comunista. Deng, infatti, criticò aspramente Gorbaciov per non aver impedito il crollo dell’Unione Sovietica

Ma è pur vero che il Partito comunista cinese è al potere, senza interruzioni, dal lontano 1949, vale a dire da ben 74 anni. E, come la storia dimostra, nessuna forma politica e nessun regime è mai durato per sempre. I cinesi, che hanno alle spalle una cultura millenaria, lo sanno bene, e i dirigenti del Partito stanno cercando di evitare che ciò che è accaduto a tutti gli atri accada anche nella Repubblica Popolare.

 

 

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