Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

L’invasione dell’Ucraina e il timore della potenza americana

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In un articolo sul La Repubblica del 27 maggio u.s., intitolato Se il sud globale si mobilita, Bernard Guetta, uno dei più lucidi analisti di geopolitica europei, corrispondente di Le Monde da Varsavia, Washington e Mosca, ha preso in considerazione il motivo principale per il quale i Paesi del Sud (India, America Latina) e i Paesi Africani non sostengono la lotta dell’Ucraina contro l’invasione russa.

In margine al G7 di maggio, Lula, il presidente socialista del Brasile, ha respinto qualsiasi tipo di contatto con Zelensky e con una telefonata a Putin si è offerto come mediatore con Cina e India.  

Secondo Guetta: «Tutti questi Paesi, perfino i più ricchi tra di loro, pensano che avrebbero tutto da rimetterci nel caso di una sconfitta totale della Russia, perché verrebbero lasciati senza mezzi atti a far fronte alla potenza americana».

Ancora una volta il timore che suscitano gli Usa è tale da far passare in secondo piano ogni valutazione politica e morale sull’aggressione di un Paese sovrano.

Alcune riflessioni sono inevitabili.

Il timore della potenza americana, diventata una superpotenza assoluta dopo il secondo conflitto mondiale, trova fondamento nella politica imperialistica svolta successivamente, in particolare nell’America latina, nell’Asia orientale e nel vicino Oriente.

 

Ne sono esempi l’intervento in Corea nel 1950, l’invasione a Cuba nella baia dei Porci del 1961, l’azione della CIA nella caduta del governo Allende nel 1973, l’invasione nel Vietnam terminata nel 1975, la guerra in Libia contro Gheddafi nel 2011.

Negli ultimi anni è sopravvenuta una politica di “non intervento” anche dove sarebbe stato opportuno: il ritiro dall’Afghanistan dopo un accordo con i talebani, il non intervento nella guerra in Siria e l’assenza di truppe in Africa.

I risultati sono stati disastrosi. Per l’Afghanistan è sufficiente chiedere il parere delle donne afgane, in Siria il dittatore Assad ha fatto migliaia di morti e 5 milioni di profughi con l’aiuto dei mercenari russi; a quest’ ultimi è stato lasciato campo libero in Africa dove anche la Cina è libera di esercitare un imperialismo economico a tutto suo vantaggio.

Alle motivazioni politico-militari si affianca il timore della pressione economica esercitata dai grandi gruppi monopolistici e dalle multinazionali statunitensi.

È inoltre diffusa una valutazione negativa di alcuni aspetti della società americana come l’individualismo, l’esasperata competitività sociale, le disuguaglianze, la corsa al profitto.

Anche nei Paesi europei, ufficialmente allineati con la politica degli USA nel sostenere la causa dell’Ucraina, sia mediante aiuti economici che militari, serpeggia una tiepida adesione.

A prescindere dai pacifisti ad oltranza e dagli “amici” di Putin, tale atteggiamento si ritrova anche in ambienti progressisti di sinistra.

Verso l’aggressione russa è stato praticamente assente il movimento diffuso di protesta degli anni 70 in Europa e nel nostro Paese contro l’invasione degli Usa nel Vietnam. Non si sono viste manifestazioni di fronte alle ambasciate russe come avveniva per quelle americane, con gli inevitabili scontri con la polizia.

Affiora spesso la tentazione di attribuire le cause dell’aggressione alle minacce Nato trascurando quanto affermava Enrico Berlinguer, segretario del PCI, nell’intervista di Giampaolo Pansa sul Corriere della Sera, il giugno del 1976.

Alla domanda del giornalista «Insomma, il Patto Atlantico può essere anche uno scudo utile per costruire il socialismo nella libertà?»  rispondeva «Io voglio che l’Italia non esca dal Patto Atlantico anche per questo, e non solo perché la nostra uscita sconvolgerebbe l’equilibrio internazionale. Mi sento più sicuro stando di qua, ma vedo che anche di qua ci sono seri tentativi per limitare la nostra autonomia».

Sono raramente ricordati, né tantomeno considerati atti di eroismo patriottico, le azioni dei soldati ucraini che all’aeroporto di Kiev hanno impedito l’atterraggio delle forze speciali russe con il compito di occupare i centri del potere, oppure il rifiuto di Zelensky, Presidente dell’Ucraina, all’offerta di un “passaggio” all’estero rimanendo al suo posto quando la notte del 24 febbraio 2022 i carri armati russi entrarono nella capitale.

Le motivazioni di questo atteggiamento sono certamente complesse: è probabile agisca una certa nostalgia della rivoluzione marxista-leninista del 1917 che avrebbe dovuto affrancare i lavoratori del mondo, oppure la solidarietà col popolo russo per le terribili sofferenze subite durante il secondo conflitto mondiale e/o il mito dell’Armata Rossa che sconfisse i nazisti.

Ricordo d’altra parte che provai una emozione profonda quando nel viaggio in Russia nel 1970, riservato agli inscritti al PCI, durante il percorso dall’aeroporto di Mosca, vidi improvvisamente comparire, il monumento degli sbarramenti anticarro proprio dove si era fermata l’avanzata tedesca del 1942.

Last, but not least è la preoccupazione nelle persone di orientamento socialista o comunque progressiste di essere definiti filoamericani e quindi in contraddizione con le proprie convinzioni politiche.   

Purtroppo non si può ignorare che anche la Russia, o meglio chi la governa, a prescindere dalla terribile dittatura staliniana, abbia svolto fino dai primi decenni del secolo scorso una innegabile e aggressiva politica imperialistica: l’invasione della Georgia nel 1921, l’accordo Stalin-Hitler sulla spartizione della Polonia nel 1939, l’invasione della Finlandia nel 1940 costretta a cedere il dieci per cento dei propri territori, l’invasione dell’Ungheria nel 1956, della Cecoslovacchia nel 1958; più recentemente nel 2014 l’annessione della Crimea e gli interventi in Siria ed in Africa tramite milizie mercenarie al servizio di regimi non democratici.

Anche riconoscendo motivate le critiche agli Stati Uniti, non si può dimenticare il contributo decisivo che hanno dato per la sconfitta del nazifascismo, compreso il supporto dato alla Russia per la vittoria finale, né ignorare la possibilità che quel popolo ha di scegliere i propri governanti attraverso libere elezioni e nemmeno quanto che la protesta popolare sia stata determinante per la cessazione della guerra nel Vietnam.

Sono anche innegabili le ricadute positive sulla cultura internazionale delle prestigiose istituzioni scientifico-culturali di quel Paese.

Durante un periodo di perfezionamento professionale negli USA nel 1987, ho avuto modo di partecipare a Bethesda, alla celebrazione del centenario della fondazione del National Institute of Health, una istituzione governativa riconosciuta come centro di ricerca biomedica avanzata e punto di riferimento per gli studiosi della salute di tutto il mondo.

Per quanto riguarda l’assenza di proteste popolari in Russia non vi è dubbio che le sanzioni per i dissidenti siano molto pesanti, ma un popolo non attento all’instaurarsi progressivo di un regime autoritario non può considerarsi del tutto esente da responsabilità.

Poi certamente avviene che i popoli, o almeno alcune minoranze, si ribellano alle dittature, ma intanto milioni d’innocenti subiscono danni incredibili e sofferenze senza uguali.

La cura della democrazia è faticosa e richiede un’attenzione e un impegno costante per evitare cadute rovinose.

Guetta cosi conclude il suo articolo: «La sconfitta dell’aggressione russa non sarà il trionfo di una superpotenza americana. Sarà, prima di ogni altra cosa, l’affermazione politica di un’Europa autonoma e democratica senza la quale non ci sarà multipolarità, ma una corsa verso una conflagrazione planetaria».

 

 

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