La tentazione identitaria dei filosofi
Con questo presupponendo – o almeno così mi pare di capire – che una simile filosofia ci sia stata in passato. Il quesito è ricco di implicazioni, ma confesso che, posto in quel modo, mi lascia assai perplesso. Pagnini continua osservando che «a dispetto di quei tanti ‘fili rossi’ che illustri storici hanno tentato di tessere per legare la cultura del Rinascimento, Vico, Gentile, Gramsci, in una visione identitaria che fosse anche il nerbo di un impegno civile, e a dispetto di chi ripete quei tentativi proclamando una Italian theory che, mentori quegli stessi filosofi, esprimerebbe una autoctona vocazione ‘biopolitica’, in Italia la filosofia scorre in mille rivoli». A me pare una fortuna che da noi – come del resto ovunque nel mondo – la filosofia scorra in mille rivoli. Né sento l’esigenza di avere una vocazione biopolitica autoctona o una visione identitaria. Il pensiero filosofico si articola in tradizioni o, se vogliamo, in correnti che non rispettano affatto i confini nazionali. Certo vi può essere (o esserci stata) la prevalenza di una tradizione in un certo Paese.
È noto che gli inglesi tendono all’empirismo, gli americani al pragmatismo, etc. Ma prevalenza non equivale a dominio assoluto. Non v’è mai stata, in alcuna nazione, una corrente che abbia “eliminato” tutte le altre. I mille rivoli, caso mai, sono segno di vitalità e di pluralismo. Chi scrive proviene dalla tradizione analitica. Questo tuttavia non gli impedisce di apprezzare – e molto – il pragmatismo e lo storicismo in tutte le loro molteplici manifestazioni. E di rallegrarsi quando due correnti diverse, per esempio tradizione analitica e pragmatismo, trovano punti di convergenza dopo polemiche durate per decenni. In ogni caso non credo che andare alla ricerca della “italianità” sia una buona idea. M’interessa poco la nazionalità degli autori con cui dialogo e preferisco considerarli parte di un contesto globale. La filosofia, proprio come la scienza, dovrebbe essere uno strumento per superare i confini nazionali e creare le basi per un discorso universale. Lo stesso Pagnini nota in seguito che, anche quando si parla di filosofia italiana e ci si concentra sui dibattiti nati in Italia, è pur sempre una comunità “globalizzata” che è chiamata a interloquire. Potrebbe essere altrimenti? Direi proprio di no. Se davvero accadesse, i filosofi verrebbero meno a uno dei loro doveri primari, che è appunto quello di analizzare i tratti comuni che legano tra loro tutti gli esseri umani. Lasciamo dunque perdere ogni tentazione identitaria quando si opera in ambito filosofico: siano pure altri a farsi sedurre dalle sirene del particolarismo e della chiusura mentale.
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