I volti del realismo
Perché il realismo dovrebbe avere un “volto umano”, secondo la nota espressione di Hilary Putnam? La risposta a tale quesito è facile: perché questo volto è l’unico che ci è conosciuto e l’unico che possiamo conoscere. Eppure, il riconoscimento dei limiti della nostra conoscenza dovrebbe metterci in guardia a questo proposito: non è corretto identificare il reale con ciò che noi possiamo conoscere. Apparentemente c’è qualcosa di sbagliato nelle posizioni che sostengono di indagare la realtà, ma non fanno altro che analizzare il nostro modo di rapportarci a essa. Prendiamo ora in considerazione il cosiddetto “realismo interno” proposto da Putnam, filosofo che com’è noto amava spesso cambiare posizione (al punto che secondo alcuni non è possibile parlare di “un solo” Putnam). Il realismo interno avanza una serie di critiche alle tesi realiste forti, prendendo soprattutto di mira (1) la teoria della verità come corrispondenza, (2) la natura oggettiva della stessa verità, e (3) l’oggettività della realtà. Mi sembra tuttavia utile, prima di continuare, offrire un breve resoconto articolato per punti del realismo inteso in un’accezione molto generale. Il filosofo realista (nel senso “forte” del termine), interessato ai rapporti tra scienza e filosofia, avanza un insieme di proposte correlate riguardanti gli scopi della scienza e i rapporti fra realtà e teorie scientifiche.
Eccole esposte in modo schematico: (1) La scienza si propone di scoprire la verità sul mondo. Ciò significa, ovviamente, che la verità non viene da noi “creata” o “costruita”, come invece affermano molti filosofi - della scienza e non - contemporanei. (2) Si dà dunque progresso scientifico, nel senso che la scienza, pur non avendo ancora raggiunto la verità, è in marcia verso essa e può prima o poi conseguirla. Il continuo rimpiazzamento delle teorie non viene quindi visto come elemento che possa portare alla negazione del carattere progressivo dell’impresa scientifica. (3) La realtà, proprio come la verità, non viene creata né costruita, bensì scoperta. Questo equivale ad affermare che essa è indipendente dalla mente. La realtà è dunque oggettiva poiché la sua esistenza non dipende dai vari tipo di attività che l’uomo pone in essere per rapportarsi ad essa e conoscerla. (4) La verità o falsità di un enunciato empirico o di una teoria dipende da come le cose sono nel mondo, piuttosto che dalle credenze degli scienziati o dell’uomo della strada. (5) La verità consiste nella corrispondenza tra enunciati e la realtà, e tali enunciati sono veri se e solo se il loro contenuto corrisponde ai “fatti”. Secondo questa concezione, la scienza si propone di fornirci delle teorie circa un mondo oggettivo composto da entità indipendenti dalla mente, il cui comportamento e le cui proprietà rendono vere o false le teorie stesse. Putnam non ha in sostanza alcunché da obiettare allo scopo realista della scienza. Le sue critiche si rivolgono piuttosto alla teoria corrispondentista della verità e alla tesi dell’indipendenza, da lui giudicate basilari nella prospettiva filosofica - definita realismo metafisico - che egli considera profondamente errata. Secondo Putnam il realista metafisico pensa che il mondo sia popolato da un insieme determinato di oggetti che esistono indipendentemente dal pensiero e dall’attività linguistica umani. In quanto fruitori del linguaggio, noi ne utilizziamo le espressioni referenziali per parlare di questi oggetti indipendenti dalla mente. Se diciamo che tali oggetti hanno certe proprietà e stanno in certe relazioni, e le cose stanno veramente così, allora ciò che diciamo corrisponde alla realtà ed è pertanto vero. Dal momento che è il modo in cui gli oggetti sono a determinare se le nostre affermazioni sono vere o false, la verità non ha nulla a che fare con ciò che pensiamo di essa. Adottando tale prospettiva, dunque, il modo in cui il mondo (o IL MONDO, come scrive Putnam) è non dipende in alcun modo da noi. Noi ci troviamo nel mondo, circondati da oggetti che non sono da noi creati e che non ricadono sotto il nostro controllo. Com’è ovvio, tutto questo solleva interrogativi circa il posto occupato dagli esseri umani nello scenario tracciato dal realista metafisico. Si noti infatti che, quando descriviamo il nostro rapporto con il mondo, siamo pur sempre noi a pensare e a parlare. In altre parole, siamo noi che descriviamo noi stessi come entità collocate all’interno di un particolare insieme di oggetti indipendenti. Tuttavia, proprio per descrivere un simile scenario, sembra necessario adottare un punto di vista esterno a noi stessi. Ecco allora che, se tale rappresentazione è corretta, la prospettiva del realista metafisico presuppone la possibilità di “uscire da noi stessi”, di occupare una posizione (o punto di vista) esterna. Essa ci chiede di metterci nella posizione di Dio, la sola che ci permette di dire com’è la realtà e come ci rapportiamo ad essa. Non solo: secondo Putnam l’assunzione di fondo del realismo metafisico è che la verità abbia un carattere “radicalmente non-epistemico”. La verità, in altri termini, non è concepita secondo criteri di razionalità né è una forma di giustificazione razionale. Dal momento che essa viene definita come una relazione primaria tra parole e realtà, una proposizione può essere vera indipendentemente dal fatto che vi siano buone ragioni per asserirla o per credervi. Per illustrare tutto questo Putnam prende in considerazione la nozione di teoria ideale. La teoria ideale è quella che si otterrebbe se la scienza venisse perseguita fino al punto-limite ideale della ricerca (nel senso di Peirce). In tal caso la teoria ottenuta sarebbe in grado di soddisfare completamente tutti i requisiti scientifici. Ne consegue che possiamo pensare la teoria ideale come quella che possiede tutte le caratteristiche metodologiche importanti alle quali la scienza attribuisce valore, ad eccezione però della verità la quale, Putnam continua, può essere lasciata “aperta”. Può una simile teoria essere falsa? Putnam risponde che, nella prospettiva del realismo metafisico, una teoria ideale può essere falsa anche se soddisfa ogni requisito epistemico richiesto. Ed ha, su questo punto, indubbiamente ragione, poiché in tal caso la nozione di verità viene intesa in un senso non-epistemico. Il realismo metafisico, infatti, non considera la verità in termini di soddisfacimento di requisiti epistemici, ma come una relazione primaria fra linguaggio e realtà. Si manifesta allora un divario concettuale tra la definizione di verità da un lato, e la definizione di “teoria ideale” dall’altro. La definizione di verità fornita dal realista metafisico non menziona affatto i requisiti epistemici, mentre la teoria ideale è addirittura basata su essi. Pertanto, una teoria potrebbe essere ideale dal punto di vista epistemico e, al contempo, essere falsa. Può risultare del tutto plausibile pensare che una teoria che soddisfa tutti i requisiti sia vera. Tuttavia, a causa del summenzionato divario concettuale, da tale fatto la verità della teoria non può essere dedotta in modo automatico.
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