Il dicibile in Wittgenstein
Nel Tractatus logico-philosophicus di Ludwig Wittgenstein è ben presente l’esigenza di riconoscere una dimensione diversa da quella fattuale. Tutti i problemi trattati confluiscono nella celebre proposizione 7: «Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere». Emerge in sostanza il problema del “mistico”, vale a dire di una realtà collocata al di là del mondo dei fatti e, quindi, trascendente l’ordine delle cose esperibili. Il silenzio che viene richiesto in tal caso dà la misura di come si è risospinti al di là del mondo, nell’ “indicibile”. E proprio il concetto di “mistico” costituisce l’anello di congiunzione tra il Tractatus e la seconda grande opera di Wittgenstein, le Ricerche filosofiche. Secondo il filosofo viennese il “mistico” è un dato ineliminabile, di cui bisogna prendere atto ed esprime, in primo luogo, il senso del mistero che si avverte di fronte al mondo, e in secondo luogo l’incapacità della scienza di soddisfare i desideri più profondi dell’uomo. Il “mistico” mette in crisi la pretesa neopositivista di ridurre il dicibile al mondo dei fatti, e induce a riconoscere la varietà dei mondi del significato, le “forme di vita”.
In Wittgenstein, la religione e la teologia non escono sconfitte o umiliate, ma ritrovano uno “spazio” di senso, precedentemente negato dalle filosofie neo-empiriste. Merito di Wittgenstein è l’aver individuato l’esistenza di logiche diverse per ogni tipo di sapere. Non, perciò, una sola logica, a cui riferire tutti i saperi, ma tante logiche, quanti sono i saperi. C’è qui il superamento della pregiudiziale antimetafisica e antireligiosa dell’empirismo logico del Circolo di Vienna, i cui componenti avevano posto la verifica empirica delle proposizioni come criterio ultimo di senso. Tractatus logico-philosophicus e Ricerche filosofiche sono opere che hanno influenzato profondamente tutta la cultura, non solo la filosofica, del ’900. Queste opere si caratterizzano per la presenza in esse di due diverse concezioni del linguaggio. Ciò giustificherebbe, secondo alcuni interpreti del suo pensiero, la distinzione tra un primo e un secondo Wittgenstein, uno legato al Tractatus, l’altro alle Ricerche. Questo passaggio da una fase all’altra si compie, comunque, quando nel filosofo matura l’idea della “vita come un tessuto”, un intreccio, che costituisce lo sfondo - inesprimibile - «sul quale ciò che ho potuto esprimere acquista significato». Wittgenstein afferma che «Non quello che uno fa in questo momento, un’azione singola, ma tutto quanto il brulicare delle azioni umane, il sottofondo su cui vediamo ogni azione, determina il nostro giudizio, i nostri concetti e le nostre reazioni». La vita stessa diventa lo spazio della filosofia: al dicibile dei fatti della vita, però, si contrappone l’indicibile, che non è meno reale ed è ciò che realmente conta. L’invito al silenzio rappresenta il riconoscimento di un al di là del mondo dei fatti, che non può essere “detto”, ma solo “mostrato”. L’opposizione tra il “dire” e il “mostrare”, così come è intesa dallo stesso Wittgenstein, rimanda a due ordini di realtà contrapposte, di cui il primo è riconducibile al mondo dei fatti, l’altro al mondo oltre i fatti. A un Wittgenstein, che, all’epoca del Tractatus, intende il linguaggio in maniera rigida, come corrispondenza biunivoca tra linguaggio e fatti, se ne contrappone un secondo, quello delle Ricerche, più incline a riconoscere la molteplicità dei linguaggi, dopo che quella forma di corrispondenza, postulata precedentemente, si era rivelata inadeguata a cogliere “l’al di là del mondo”, del quale non si poteva, comunque, fare a meno. Questo passaggio da una fase all’altra si realizzerebbe attraverso una rottura, con la negazione, cioè, da parte del filosofo, delle concezioni del Tractatus stesso. Una tale interpretazione, peraltro molto diffusa, non è sostenibile sul piano testuale e sul piano più generale della filosofia wittgensteiniana. Perché, riferendoci all’opera complessiva del pensatore, più che di una rottura, o di una negazione, si deve parlare di un superamento nella continuità, pur tra fasi diverse della sua speculazione. L’approccio alla problematica linguistica rimane sostanzialmente immutato, anche se diversamente orientato, e, a parte le differenze riscontrabili, una unità profonda lega il primo al secondo Wittgenstein. Forse, proprio la parte conclusiva del Tractatus, il cosiddetto “mistico” («Non come il mondo è, è il mistico, ma che esso è», n. 6.44), consente di leggere le Ricerche non in opposizione, ma come la realizzazione del percorso disegnato nello stesso Tractatus. Nel Tractatus si muove tutto un mondo, che è proiettato a riconoscere una dimensione diversa dall’ordine dei fatti. E come se non bastasse, tutti i problemi trattati nel libro confluiscono, come ho detto in precedenza, verso l’aforisma 7, con il quale esso termina: «Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere». Questa espressione pone in tutta evidenza il problema del “mistico”, come di qualcosa, cioè, che è da intendersi come la realtà posta al di là del mondo dei fatti e, per ciò stesso, trascendente l’ordine delle cose, di cui si ha esperienza empirica. Il silenzio che si richiede per esso dà la misura di come si è risospinti al di là del mondo, nell’ “indicibile”. Proprio il concetto di “mistico” costituisce il punto di congiunzione tra il Tractatus e le Ricerche filosofiche. Il “mistico” è un dato ineliminabile, di cui bisogna prendere atto ed esprime, soprattutto, il senso del limite che l’uomo avverte di fronte al mondo e l’incapacità da parte della scienza di soddisfare i desideri più profondi dell’umanità. La pretesa di parlare su tutto è assolutamente ridicola e illegittima. Più che di parlare, si tratta di “mostrare” quel mondo a cui il “mistico” fa riferimento. Il “mistico”, così inteso, rompe la pretesa neoempirista di ridurre il dicibile al mondo dei fatti, così come sono percepiti, e apre l’indagine wittgensteiniana a riconoscere la varietà dei mondi di senso, vere “forme di vita”. Ed è così che il progetto, enunciato nel Tractatus, si realizza nelle Ricerche, nella descrizione di queste varietà di “forme di vita”. La religione stessa è, dopo tutto, una “forma di vita” accanto ad altre “forme di vita” e come tale deve essere descritta. Nel Tractatus, tutto il discorso wittgensteiniano si svolge tra la constatazione iniziale che “il mondo è tutto ciò che accade” (n. 1) e l’invito finale al silenzio: «Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere» (n. 7). La sua lettura risulta particolarmente difficile, anche se Wittgenstein stesso ne indica nell’etica la chiave interpretativa. Non si tratterebbe, come potrebbe sembrare, di un libro di logica, ma di un libro di etica. Tutto il discorso si costruisce attorno alla convinzione che nulla può essere detto a proposito delle cose più importanti. Se il mondo è il mondo dei fatti, non si potrà trovare in esso né Dio, né l’etica, né alcunché che non sia esso stesso un fatto: questo è l’assunto principale. Non minore importanza presenta l’altra grande opera di Wittgenstein: le Ricerche filosofiche, opera pubblicata postuma, a cui il filosofo lavorò per oltre venti anni, ma rimanendo sempre insoddisfatto per le conclusioni raggiunte. Qui il problema è farsi portavoce di una concezione più pluralistica del linguaggio, che finiva per riabilitare quei problemi, anche quelli etici e religiosi, che precedentemente nell’ambito del movimento del Circolo di Vienna erano stati esclusi dalla filosofia, perché non riconducibili al mondo dei fatti e, perciò stesso, privi di senso. La teoria della raffigurazione, presupposto su cui si regge tutto l’impianto del Tractatus, è considerata assolutamente inadeguata, perché con essa si circoscrive la funzione del linguaggio alla sola denominazione, mentre, in realtà, le sue funzioni sono molteplici. Il linguaggio è definito ora come un insieme di “giochi di lingua”, intesi come attività dell’uomo (§ 7). Lo stesso parlare degli individui si costituisce come parte di un’attività e il significato delle parole deve essere ricercato nel loro uso (§ 43). Proprio la richiesta dell’uso del significato delle proposizioni come criterio di senso delle affermazioni, formulata nelle Ricerche, si pone come superamento della verifica empirica come criterio di senso delle proposizioni, così come era stato postulato dai neopositivisti, soprattutto con Carnap e Neurath. Il linguaggio viene ora considerato metaforicamente come “una cassetta di attrezzi”, o “come un labirinto di vie”, ricorrendo ad immagini come queste, quasi per dare del linguaggio un’idea più articolata e per indicare che solo attraverso un’attività di tipo descrittivo diventa possibile conoscere i vari usi del linguaggio e orientarsi all’interno di saperi non facilmente circoscrivibili. L’analisi del linguaggio si configura ora non più semplicemente come analisi logica del linguaggio, ma come analisi sostanzialmente descrittiva dell’attività linguistica, che si esplicita concretamente nella molteplicità dei giochi linguistici. Il linguaggio, inteso come attività dell’uomo, è solo un gioco di lingua. Perciò tanti sono i linguaggi tanti sono i giochi di lingua e nessuno di loro può essere assimilato all’altro. Partendo da qui, diventa possibile considerare la religione, come l’etica e ogni altro sapere, come un particolare gioco linguistico, nel senso voluto da Wittgenstein. Questa riduzione lascia aperta la possibilità per il credente di giustificare la sua fede religiosa per ciò che essa rappresenta nella sua vita, senza dover fare riferimento a logiche non pertinenti o addurre necessariamente delle prove di carattere empirico.
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