Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Piazza Fontana e la “intentona” di Borghese

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12 dicembre 1969. Un venerdì pomeriggio. A Milano faceva freddo. Una tipica giornata dell’inverno meneghino di allora, con un’umidità che stringeva le ossa e una luce smarrita nel plumbeo di un cielo disadorno. Con l’aria inquinata e gelida che mordeva la gola.

A dispetto del grigiore del cielo l’atmosfera si ovattava di sensazioni dolci. Sant’Ambrogio era da poco trascorso e Natale si avvicinava in punta di piedi. In Piazza del Duomo i bambini passeggiavano avvolti in colorate sciarpe di lana, amorevolmente sferruzzate dalle nonne. Il profumo dei panettoni stuzzicava l’attesa.

Un Natale ancora semplice, pervaso dall’emozione della povertà che si avventurava in un benessere sobrio e non urlato. Con meno luminarie ma più aspettative. Con la semplicità dei piccoli presepi accovacciati nel muschio.

Nella adiacente Piazza Fontana la sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura era ancora aperta e gremita di clienti, molti dei quali – a ragione del mercato del venerdì – provenivano da fuori Milano.

Verso le 16 e 30 i dipendenti osservavano l’orologio con il desiderio di chiudere la banca. Li attendeva il sabato durante il quale acquistare qualche piccolo regalo. Con la parsimonia di quegli anni, nei quali si pensava al futuro dei figli che dovevano studiare.

Ma per molti il futuro non arrivò.

 

Alle 16 e 37 un potente ordigno esplose nel salone centrale della banca. Si trattava di sette chili di tritolo, chiusi in una valigetta sistemata sotto un ampio tavolo al centro del locale. Gli effetti furono devastanti: il pavimento fu squarciato, formando un’autentica voragine: diciassette persone restarono uccise e altre ottantotto furono ferite. La fossa creatasi, secondo i testimoni, era piena di corpi mutilati che bruciavano.

Non fu l’unico attentato di quella giornata. Qualche minuto prima, infatti, un altro ordigno era stato rinvenuto nella vicina sede della Banca Commerciale Italiana, in piazza della Scala. Tra le 16 e 55 e le 17 e 30, inoltre, altre tre esplosioni si verificarono a Roma: una, all’interno della Banca Nazionale del Lavoro di via San Basilio; altre due sull’Altare della Patria di piazza Venezia.

Una giornata terribile, che colpì al cuore il Paese, smarrito ed incredulo dinnanzi ad eventi che mai aveva sperimentato dalla fine della guerra.

Quel maledetto 12 dicembre prese il via il periodo più oscuro della storia italiana, caratterizzato da quella che venne definita “strategia della tensione”. Anni nei quali fu attaccata alle sue radici la democrazia, investita da una violenza mai sperimentata.

Quella di Piazza Fontana fu solo la prima di una infinita serie di stragi e attentati volti a scardinare l’ordinamento democratico: Piazza della Loggia, l’Italicus, la Questura di Milano, Peteano…. Sino all’orrore della Stazione ferroviaria di Bologna nel 1980.

Eventi terribili, ai quali si affiancò la defatigante serie di agguati e omicidi, con cadenza quasi quotidiana, commessi dalle Brigate Rosse e dai gruppi che le fiancheggiavano.

C’è un’altra data tuttavia che vorrei ricordare.

Si tratta del 7 dicembre 1970.

Quella notte ebbe luogo il tentato colpo di stato organizzato da Junio Valerio Borghese. Un evento ormai scordato da tutti.

I pochi che ancora ricordano tendono a ritenerla una farsa da operetta messa in atto da quattro vecchi rimbambiti. Una versione simile a quella descritta da Mario Monicelli nel film satirico del 1973 “Vogliamo i colonnelli”, con Ugo Tognazzi maschera grottesca e ridicola.

In effetti un golpe organizzato con l’ausilio di 187 forestali ed alcune decine di estremisti poco credibile lo sembra davvero. Ma così non è.

La possibilità di un colpo di stato in Italia era stata telegrafata a Washington il 7 agosto 1970 dall’ambasciatore statunitense a Roma, Graham Martin. Martin non considerò l’operazione “Tora-Tora” (come venne definita in codice) un’iniziativa di vecchi idealisti.

Il Fronte Nazionale, organizzazione di estrema destra diretta dal Valerio Borghese, ricevette cospicui finanziamenti, nell’ordine di miliardi di lire (che allora erano cifre impressionanti). Da chi? Non è mai stato accertato.

Il piano del golpe prevedeva l’occupazione del Ministero degli Interni, di quello della Difesa e della sede della Rai, insieme al rapimento del presidente della Repubblica Giuseppe Saragat e all’omicidio del capo della Polizia Angelo Vicari.

Al Viminale già dal pomeriggio, si erano insediati alcuni golpisti vestiti da operai.

Alle 22 e 30 giunsero davanti al ministero una cinquantina di estremisti di destra che entrarono nell’armeria, asportando i circa duecento mitra che vi erano custoditi. L’operazione fu favorita da alcuni emissari interni al ministero. Tra questi Salvatore Drago, uomo di Avanguardia nazionale, ma al tempo stesso legato al servizio segreto civile, alla mafia e alla loggia segreta P2, altrettanto attiva nel progetto eversivo. Le plurime appartenenze di Salvatore Drago sono lo specchio dell’articolazione nella quale si mosse questo tentativo.

Il colpo di Stato non fu portato a termine, perché Borghese ricevette una telefonata da qualcuno, sempre rimasto sconosciuto, che gli diede l’ordine di sospendere l’operazione.

Lo storico Aldo Giannuli dell’università di Milano ha dichiarato al Corriere della Sera: «Il golpe Borghese non è stato capito e inquadrato correttamente: o è stato visto come una buffonata di quattro rimbambiti, oppure come un vero colpo di Stato fallito. La verità sta nel mezzo: le persone coinvolte erano tante, ma non bastavano per instaurare un regime militare. Ma è anche vero che fu determinante l’abilità politica di Giulio Andreotti nell’utilizzare il progetto di golpe per disfarsi di un fantasma, quello del colpo di Stato imminente, che aleggiava da tempo. Questo spettro servì anche ad ammansire il Pci e i sindacati su una serie di questioni, con una moral suasion del tipo “se non veniamo a patti non è detto che non ci riescano la prossima volta”. Non a caso il Pci non chiese mai una inchiesta parlamentare sul golpe Borghese». Gianuli  ha sottolineato che comunque non fu una vicenda di poco conto: il rischio che si sparasse sulle strade e che ci scappasse qualche centinaio di morti è stato reale.

Furono in molti a individuare in Giulio Andreotti l’ispiratore del tentato colpo di stato, ma la cosa pare decisamente poco credibile. Andreotti fu solo abile, con la sua immensa e talora mefistofelica intelligenza, ad approfittarne. Del resto fu lui stesso a ricordare come in democrazia si fosse sempre trovato bene, al punto da essere presidente del Consiglio per sette volte e ministro di tutto. Perché quindi caldeggiare un colpo di Stato che avrebbe ridimensionato il suo potere?

Esiste un termine spagnolo per definire quanto accadde la notte del 7 dicembre 1970: è la parola “intentona”, ossia una specie di colpo di stato virtuale che serva da avvertimento.

Una notte, quella del 7 dicembre del 1970, rimasta avvolta dal mistero e ormai dimenticata.

Liquidata anche dalla Cassazione nel 1986, con una sentenza secondo la quale «La Corte ritiene che i clamorosi eventi della notte in argomento si siano concretati in un conciliabolo di quattro o cinque sessantenni».

Ben diverso il parere della CIA. Nei documenti recentemente desecretati si legge che il Dipartimento di Stato statunitense era perfettamente a conoscenza del tentativo di colpo di stato, ritenendo che il fallimento fu imputabile essenzialmente al rifiuto dei Carabinieri di aderire al progetto.

La CIA attribuì al Vaticano il ruolo decisivo nel bloccare l’operazione eversiva.

È importante oggi ricordare la strage di Piazza Fontana, per la sua efferatezza.

Ma altrettanto importante è rammentare la notte del 7 dicembre 1970.

Per tener ben a mente quanto sia fragile la democrazia e come quella dell’uomo forte sia una tragica evocazione, dal cui pertugio si materializzano ogni sorta di mostri in grado di annientare la libertà.

 

 

 

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