Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Marxismo vs liberalismo

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E’ molto utile un esame dei rapporti tra marxismo e liberalismo, dal momento che il proclamarsi liberali sembra essere diventato oggi una sorta di pre-condizione del discorso politico sensato.

Il crollo di molti regimi comunisti ha segnato indubbiamente la fine di un’epoca.

Diventa impossibile pensare alla realizzazione di una società perfetta negli stessi termini del passato, poiché è compito tanto dei politici quanto degli intellettuali valutare gli insegnamenti della storia e farne tesoro.

In questo senso, la crisi dell’utopia marxista porta con sé la necessità di rinnovare strumenti e metodologie d’analisi.

Il problema che occorre affrontare in via preliminare è in fondo il seguente: esiste oggi un’alternativa plausibile alle società di libero mercato, e se sì, come pensarla?

La via utopica appare, per le molte ragioni già menzionate, impercorribile.

In particolare, i dubbi sulla sua praticabilità derivano dalla finitezza e dalla natura controvertibile della conoscenza umana, la quale può bensì aspirare a raggiungere l’assoluto, ma non vi riesce poiché - come accade nella scienza - una teoria che sembra oggi valida viene superata da una teoria successiva, la quale riesce a spiegare un maggior numero di fatti.

 

Se ciò è vero, occorre costantemente giudicare le costruzioni economiche e politiche da un punto di vista storico e, quindi, relativo.

Nulla ci autorizza a credere che gli ordinamenti capitalistici e liberaldemocratici costituiscano il termine della storia umana.

Anche capitalismo e liberaldemocrazia sono sistemi legati a circostanze contingenti, ed è legittimo supporre che essi possano un giorno venir superati.

Qualcuno potrebbe chiedere: quale tipo di superiorità possono vantare capitalismo e liberaldemocrazia?

La risposta è che si tratta di una superiorità pratica; un sistema politico ed economico si dimostra migliore di un altro non quando è teoricamente più attraente per la mente di un filosofo, ma quando si rivela più adatto a soddisfare le esigenze vitali degli individui.

E’ altresì importante rilevare che tale ordinamento si rivela tanto più valido quanto più è flessibile e suscettibile di revisione interna.

Sia il capitalismo che la liberaldemocrazia ammettono continui correttivi, il che li rende strumenti di cui ci si può servire, senza assolutizzarli, per progettare una società migliore.

Si è notato da più parti, tuttavia, che il liberalismo è ormai diventato, anche grazie alla sconfitta del suo antagonista storico nel secolo scorso, un contenitore vuoto che può essere riempito con i contenuti più disparati.

E non è certo un caso che esso, sconfitto il nemico, si trovi oggi in una situazione di stallo.

Il liberalismo si reggeva sul confronto con un “altro da sé”, e quindi negandolo; finito tutto ciò ci si accorge che la sua proposta positiva è, tutto sommato, debole.

Si può, allora, ipotizzare una sorta di “destino comune” di liberalismo e marxismo?

Ne parlò negli anni ’40 del secolo passato Joseph Schumpeter, che teorizzò la necessaria convergenza fra le due tradizioni di pensiero.

A suo avviso l’espansione delle attività produttive e la tendenza alla razionalizzazione burocratica (nel senso attribuito a questa espressione da Max Weber) rappresentavano gli elementi di un processo che avrebbe condotto al superamento della proprietà privata dei mezzi di produzione.

Naturalmente oggi le previsioni di Schumpeter - indipendentemente dal loro grado più o meno elevato di paradossalità - sono state contraddette dall’espansione dell’economia di mercato e dal crollo dei sistemi economici socialisti.

Eppure, esiste un senso in cui l’idea del destino comune appare plausibile ad alcuni autori.

E’ legittimo infatti chiedersi se, ai nostri giorni, liberalismo da un lato e marxismo dall’altro possano ancora essere visti come le due dimensioni esaustive - e quindi uniche - nell’ambito dell’agire politico.

Chi si ostina a ragionare in questi termini pecca di eurocentrismo, e ciò significa che continua a non vedere la possibilità di trascendere proposte politiche elaborate nell’Europa del secolo scorso.

Né il liberalismo né il marxismo sono in grado di offrire risposte adeguate ai nuovi problemi che le società industriali, toccate in maniera essenziale dalla rivoluzione tecnologica e informatica, debbono affrontare.

Il destino comune di liberalismo e marxismo sarebbe, dunque, un destino di segno negativo, caratterizzato dalla difficoltà di sopravvivere l’uno all’altro e di sopravvivere entrambi di fronte all’espansione su scala planetaria di strutture sociali altamente tecnologizzate: in altre parole, di fronte al processo di crescita costante della complessità.

Secondo questa interpretazione anche il liberalismo, nonostante la sua vittoria, non riesce a elaborare risposte plausibili all’esigenza di combattere gli effetti della differenziazione sociale presente nelle società industriali.

A fronte della costante crescita della complessità cui accennavo in precedenza, la concezione della democrazia intesa come partecipazione politica necessaria e quale valore morale assoluto appare irrimediabilmente datata, come parimenti obsoleta è l’idea di una società non differenziata dalla divisione del lavoro.

Proprio per queste ragioni, dal punto di vista antropologico risulterebbe oggi difficile porre la partecipazione diretta alla vita politica come condizione di razionalità e di piena appartenenza alla comunità.

Non è infatti difficile capire che tale concezione della politica si basa sull’esperienza di gruppi sociali in cui la differenziazione era minima, ed è destinata a entrare in conflitto con le caratteristiche precipue delle società industriali moderne.

Queste ultime sono infatti caratterizzate da una differenziazione assai accentuata delle funzioni sociali, da un grado elevato di pluralismo etico e cognitivo (il “politeismo dei valori” messo in luce da Weber), e da una crescente distacco degli individui rispetto dalle tradizioni e alle credenze collettive. Ecco quindi manifestarsi la perdita di centralità del sistema politico rispetto agli altri sotto-sistemi fondamentali che compongono la società.

Ne segue che il sistema politico, lungi dal rispecchiare e la totalità dell’esperienza sociale, diventa un sotto-sistema accanto a molti altri (quelli economico, scientifico, tecnologico, religioso, etico, etc.).

Perciò ogni tentativo di ridare al sistema politico la centralità e l’universalità che lo caratterizzavano nelle società antiche - e il marxismo è stato proprio un tentativo di questo tipo - è destinato al fallimento.

Questi sono i motivi che dovrebbero impedire, dopo il crollo dei sistemi del socialismo reale, di celebrare acriticamente il trionfo dell’occidente liberaldemocratico.

Il destino comune di marxismo e liberalismo non è un’idea assurda se rammentiamo le comuni radici illuministiche ed eurocentriche delle due tradizioni.

Tratto caratterizzante del progetto illuministico è il tentativo di dar vita a un’organizzazione totalmente razionale della vita sociale.

Ecco quindi spiegata la fiducia positivista e neopositivista che lo sviluppo della scienza avrebbe garantito non solo il dominio della natura, ma anche il progresso etico e della giustizia, e quindi, in ultima analisi, la felicità del genere umano.

A ben guardare il marxismo altro non è che la radicalizzazione storicista del progetto emancipatorio dell’illuminismo, e questo carattere radicale rende la sua crisi più visibile di quella liberale.

Il cosiddetto “progetto illuministico del moderno” appare oggi difficilmente realizzabile, sia nella classica versione liberale che in quella radicale del marxismo.

Si può rispondere a questi rilievi - in parte giustificati - che la differenza tra liberalismo e marxismo è invece enorme, e risiede nel fatto che il secondo è un sistema concettuale chiuso e destinato alla decadenza quando i suoi assunti di base vengono contraddetti dalla prassi, mentre il primo è un sistema aperto per eccellenza (o, ancor meglio, è un metodo), in grado di autoemendarsi senza tregua.

In altre parole, il liberalismo può vantare capacità di adattamento all’ambiente e alle mutevoli circostanze storiche che il marxismo non possiede, e ciò deriva dalle differenti antropologie filosofiche che li sottendono: da un lato un’antropologia che pone il concetto di limite al centro del proprio edificio speculativo, dall’altro una concezione dell’uomo che vede proprio nel superamento - illusorio - di ogni limite tanto la propria ragion d’essere quanto la chiave per modificare l’ordine esistente.

Il marxismo è stato certamente uno schema concettuale in buona parte impermeabile agli influssi esterni, ma non incomprensibile né incommensurabile rispetto ad altri schemi concettuali o visioni del mondo.

Crediamo che, in questo senso, l’applicazione del principio di carità davidsoniano possa condurre a risultati fecondi.

Dopo tutto, come afferma lo stesso Donald Davidson, il mondo condiviso è pur sempre lo stesso, anche se viene visto da prospettive molto differenti. Si può allora concludere notando che gli ex marxisti più avvertiti accettano il pluralismo degli schemi concettuali, e quindi sono in grado di spiegare mediante l’analisi anche quello in cui hanno vissuto precedentemente.

Ciò che non dovrebbe invece essere fatto è passare da uno schema a un altro senza tematizzare con il dovuto rigore il corso degli avvenimenti recenti.

 

 

 

 

 

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