Gli universali in matematica
Come può la teoria dei numeri riceve un’interpretazione letterale che ne rende veri gli assiomi? Alla domanda: «esistono i numeri?», secondo molti non si danno risposte metaforiche (indirette) come: «sì, nel senso che il termine ‘numero’ ricorre nei teoremi dedotti dagli assiomi», oppure: «sì, nel senso che i discorsi intorno ai numeri risultano proficui per la scienza». Si cerca, invece, di sostenere che le entità, alle quali spetta il nome di numeri, e nei cui confronti le leggi della matematica risultano vere, esistono in senso letterale. Credere che simili enti esistano in senso letterale significa credere che essi non siano - in alcun senso - immaginari o fittizi. Dovremmo cioé dire che esistono con la stessa convinzione con la quale parliamo dell’esistenza di tutto quello che consideriamo effettivamente reale, si tratti di oggetti fisici o di dati sensibili. Il problema della ricerca di un’interpretazione letterale della teoria dei numeri è abbastanza simile al problema degli “universali”, considerato particolarmente importante nella filosofia medievale. Il problema degli universali riguarda la natura delle proprietà come, ad esempio, l’essere virtuoso, la proprietà di essere quadrato, o la proprietà di essere rosso.
Forse è possibile trovare esempi di virtù nel mondo, ma la virtù in se stessa non è una cosa collocata nello spazio o nel tempo; eppure, ne parliamo come se si trattasse di un certo oggetto, e dichiariamo altresì di averne conoscenza. La virtù, la proprietà di essere quadrato, la proprietà di essere rosso e tutti gli altri universali di questo tipo sembrano essere entità astratte, cioé “cose” non collocate nello spazio o nel tempo. Che genere di realtà possiedono, dunque, questi universali? La loro natura appare misteriosa. Se sono entità intangibili e immateriali, com’è possibile che vengano conosciute e che abbiano tanta importanza nel nostro pensiero? Le risposte che i filosofi medievali diedero a questo interrogativo si dividono in tre gruppi. I realisti sostenevano che gli universali sono entità astratte reali, almeno altrettanto reali quanto gli oggetti concreti, e che l’intelletto ha la possibilità di scoprirli e di comprenderli mediante l’intuizione razionale. I concettualisti sostenevano che gli universali sono entità astratte reali, ma che esistono soltanto nel nostro pensiero, essendo generati all’interno della mente. I nominalisti, infine, sostenevano che gli universali o non esistono, oppure non sono entità astratte. In riferimento alla teoria dei numeri, il problema riguarda la realtà dei numeri naturali (nonché degli insiemi e delle coppie ordinate), anziché la realtà delle proprietà. Ma i numeri, come le proprietà, paiono essere entità piú astratte che concrete, cioé cose non collocate nello spazio o nel tempo. Per questa ragione, il problema medievale degli universali è analogo al problema della natura dei numeri, che si riferisce alla matematica. Poiché essi sono piuttosto simili, le risposte che i pensatori moderni hanno dato al problema della natura dei numeri si possono classificare in tre gruppi, corrispondenti alle tre distinzioni medievali. Possiamo chiamare nominalisti quanti sostengono che i numeri non sono entità astratte e che, se mai c’è la possibilità di interpretare la teoria dei numeri in modo da farla risultare vera, lo si deve fare con riferimento a oggetti concreti. Possiamo chiamare concettualisti quanti sostengono che i numeri esistano e che sono entità astratte, prodotte però dalla mente. Infine, possiamo chiamare realisti (o, anche, platonisti) quanti sostengono, senza riserve, che i numeri esistano in senso letterale come entità astratte, indipendenti dal nostro pensiero. E’ stato in particolare il logico e filosofo americano W.V. Quine a notare opportunamente che: «I tre principali punti di vista, a proposito degli universali, vengono designati dagli storici come il realismo, il concettualismo e il nominalismo. E, praticamente, queste stesse dottrine riappaiono nelle ricerche di filosofia della matematica del ventesimo secolo sotto i nuovi nomi di logicismo, intuizionismo e formalismo.» Cos’è un universale? A tale domanda possiamo dare tre risposte di carattere generale: (a) universale è ciò che è comune ai componenti di un insieme omogeneo; oppure (b) è il genere rispetto alla specie (ad esempio: “mammifero” rispetto a “uomo”, “cavallo”, etc.); o ancora (3) è la “essenza” che è propria di molti individui (ad esempio: “razionale” quando viene predicato degli uomini, etc.). Dal punto di vista storico, l’individuazione dell’universale può essere fatta risalire al tipico quesito socratico «che cos’è?» qualcosa come la virtù, il coraggio, etc., così come viene formulato nei dialoghi platonici. Si tratta, in sostanza, di individuare l’essenza universale grazie alla quale tutte le cose simili si identificano con una natura comune. A tale proposito Aristotele caratterizza il quesito socratico come il procedimento induttivo che, astraendo da più cose ciò che hanno in comune, punta a definirle per come esse sono realmente (e non per come appaiono). E’ nota l’obiezione, formulata tra gli altri dallo stesso Platone, secondo cui è impossibile ricavare l’universale dai particolari se questi non sono già stati identificati a priori come quei particolari, connessi in un insieme omogeneo. In altre parole, come si può identificarli e connetterli se non in base alla preventiva conoscenza di ciò che tali particolari hanno in comune, e cioé la loro essenza universale? Sono, queste, le basi storiche su cui viene fondata la questione ontologica riguardante gli universali e i concetti, che sarà destinata ad accompagnare l’intero sviluppo del pensiero occidentale (non solo filosofico, ma anche scientifico e, in particolare, matematico). La soluzione aristotelica è piuttosto ambigua. Per Aristotele, infatti, universale è ciò che si predica “per natura” di più enti. Ma cosa significa “per natura”? Dalle opere aristoteliche si desume che tale espressione significa che la caratteristica dell’universalità coincide con l’essenza (ousìa) degli enti che vengono presi in considerazione, e non con qualsiasi loro determinazione contingente. Negli Analitici posteriori, leggiamo ad esempio che il fatto che la somma degli angoli interni di un triangolo equivalga a due angoli retti rappresenta una caratteristica universale del triangolo, in quanto appartiene ad esso in virtù della sua “essenza”. Ed è proprio perché questa determinazione viene stabilita in base all’essenza del triangolo che essa può essere estesa ad ogni triangolo particolare. Ecco quindi giustificata la celebre affermazione aristotelica secondo la quale «non può esservi scienza se non dell’universale.» L’universale rimanda, dunque, a un fondamento di tipo ontologico, il quale è la “sostanza” considerata non nella sua singola realtà materiale e potenziale, bensì in quanto essa riveste “una forma in atto”. D’altro canto, la forma è anche ciò che appartiene in modo proprio all’attività dell’intelletto, il quale ha la capacità logica di cogliere l’universale e di dargli vita in quanto concetto. Non è difficile riconoscere, in tutto ciò, le radici di problemi ontologici e gnoseologici fondamentali che saranno poi discussi in epoca medievale (ad es., Tommaso d’Aquino) e moderna (Kant). Non solo. La soluzione aristotelica è ambigua perché non chiarisce a sufficienza le interrelazioni tra l’aspetto logico e quello ontologico del problema. In epoca contemporanea, neopositivismo logico e filosofia analitica hanno cercato di risolvere il problema stesso privilegiando l’aspetto logico e riducendo, in sostanza, l’ontologia (essere) alla logica (linguaggio). E’ ovvio, tuttavia, che anche tale soluzione presta il fianco ad obiezioni di carattere sostanziale. I pensatori medievali tentarono a più riprese di chiarire i rapporti tra aspetto logico e aspetto ontologico dell’universale che Aristotele aveva lasciato irrisolto. Dai dibattiti degli scolastici hanno origine le principali correnti che hanno dominato il pensiero moderno e contemporaneo, opponendo gli empiristi (gli universali sono semplici segni o nomi delle cose, ricavati dalle cose stesse per astrazione), ai razionalisti (gli universali sono il riflesso nelle cose e nell’intelletto umano delle idee, in base alle quali Dio ha creato il mondo). E’ in particolare nei secoli XII e XIII che la questione filosofica degli universali viene dibattuta. La base di partenza fu un passo di Porfirio, che venne tradotto e commentato da Severino Boezio. In tale passo, Porfirio prende in considerazione la natura dei termini universali di genere e specie (“animale”, “uomo”, “cavallo”, “sostanza”, etc.), proponendone delle definizioni precise. Porfirio, tuttavia, era pagano, e gli scolastici vivevano ovviamente in un orizzonte culturale assai diverso, nel quale la rivelazione cristiana era il centro attorno al quale tutto il resto ruotava. L’interpretazione prevalente fu quella di derivazione platonico-agostiniana (Anselmo), secondo cui agli universali corrispondono realtà o idee che esistono effettivamente nella mente di Dio (realismo). Dunque, i termini del pensiero rimandano a una struttura ontologica che si colloca al di sopra della realtà materiale: essa costituisce l’essenza di quest’ultima ed è modello di essa (in senso creazionistico). A questa interpretazione si opposero i nominalisti come Roscellino, i quali consideravano gli universali come meri segni convenzionali o nomi delle cose. Gli universali non hanno realtà al di là del movimento d’aria che la nostra voce produce nel pronunciarli: sono semplici flatus vocis. A entrambe le tesi si oppose Abelardo. Egli parte dalla constatazione che tanto i realisti quanto i nominalisti identificano l’universale con una “cosa” (res): i primi con un’essenza trascendente, i secondi con la vox. Per Abelardo, invece, l’universale non è qualcosa di ideale o di materiale che sta negli individui o al di fuori di essi; l’universale è sermo, dunque “significato” di tipo logico-linguistico, nel senso di “ciò che si può predicare di molti”. Abbiamo, infine, una soluzione di compromesso proposta da Alberto Magno e Tommaso d’Aquino. Di fronte alle tre alternative, se (1) l’universale possieda una realtà ontologica che “precede” le cose individuali (ante rem), se (2) esso sia “nelle” cose individuali (in rem), oppure se (3) esso “derivi” dalle cose per astrazione (post rem), questi autori le accolsero tutte con giustificazioni appropriate. Infatti, gli universali sono ante rem poiché, nella mente divina, essi pre-esistono al mondo degli individui creati; sono in re poiché, grazie alla creazione, Dio li mette nelle cose individuali come loro “essenza”; e sono anche post rem giacché la mente umana, essendo gli universali stati posti nelle cose da Dio, può estrarli a posteriori mediante un procedimento di tipo astrattivo, trasformandoli pertanto in: (a) immagini mentali; (b) in concetti; e (c) in parole e segni convenzionali. Alberto Magno e Tommaso d’Aquino determinano, quindi, il passaggio da una prevalente interpretazione platonista (Agostino, Anselmo) a una aristotelica, con Abelardo che funge da ponte tra le due. La questione ha un punto di svolta solo con Kant, che intende l’universale come concetto trascendentale che unifica in sé la funzione logica e il riferimento ontologico. Gli universali o “categorie dell’intelletto”, per Kant, sono forma e condizione a priori dell’esperienza e, in quanto tali, sono gli “oggetti trascendentali” del mondo fenomenico. Tuttavia, nonostante la sua trascendentalità “copernicana”, l’universale kantiano resta formale e astratto: esso si applica ai dati materiali, ma questi ultimi gli pre-esistono. Questa considerazione spinge gli idealisti a trasformare il trascendentale kantiano in “assoluto” che si auto-determina grazie a un’attività produttiva originaria. A sua volta Hegel, pur partendo da Kant, ne sviluppa in senso idealistico le tesi affermando che il pensiero è “attività infinita” la quale, producendo se stessa (auto-producendosi), dà pure vita all’universale o concetto. Tuttavia, a differenza di quanto avviene in Kant, nel sistema hegeliano il concetto non è una semplice astrazione dell’intelletto, ma rappresenta la dinamicità vivente della ragione concreta (spirito, ipostatizzazione della ragione), la quale è tutt’uno con il divenire dialettico della realtà. Buona parte del pensiero contemporaneo rifiuta l’ “universale concreto” dell’idealismo a causa delle sue evidenti componenti metafisiche. Tanto il pragmatismo quanto il marxismo fanno ricorso alla prassi per spiegare l’esistenza degli universali; la prassi, essendo la fonte sia dei significati che dei valori riconosciuti socialmente, spiega anche gli universali (dal che discende, tuttavia, che essi non potrebbero essere presenti in assenza del mondo umano: se un cataclisma facesse sparire ogni essere umano dal nostro pianeta, sparirebbero anche gli universali). Nel ’900, inoltre, ha preso sempre più piede l’analisi puramente logica dell’universale astratto, dal punto di vista strettamente formale (sintassi), da quello del riferimento alle cose (semantica), e dal punto di vista dell’uso concreto (teoria dei “giochi linguistici” nel secondo Wittgenstein). Vale anche la pena di notare che, accanto al problema classico degli universali, esiste pure quello degli “universali linguistici”, nel quale si prendono in considerazione le proprietà comuni a tutte le lingue. Esso venne impostato nel XVII secolo dai grammatici francesi di Port-Royal i quali, assumendo che il linguaggio è una rappresentazione del pensiero logico, progettarono una grammatica universale comune a tutte le lingue storicamente esistenti. Queste tematiche sono state riprese dalla linguistica del ’900. Ad esempio, il linguista Noam Chomsky sostiene che esiste, per l’appunto, una “grammatica universale”, la quale determina le condizioni che debbono essere soddisfatte da tutte le lingue umane. Le strutture di tale grammatica, pur evolvendosi storicamente, sono sostanzialmente innate e già presenti nella mente sin dalla nostra nascita. |
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