Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Marxismo e messianesimo

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Tracciare un bilancio dell’influenza esercitata dal pensiero comunista sulle vicende storiche del XX secolo è indubbiamente impresa ardua e tale da intimorire anche le menti più acute.

Troppo vicini sono infatti gli avvenimenti che hanno sconvolto l’Europa orientale per consentire la necessaria freddezza di giudizio e, d’altro canto, la passione polemica riferita all’ideologia più importante del mondo contemporaneo rischia spesso di far degenerare il dibattito in una serie di posizioni rigide e precostituite.

A Massimo Salvadori spetta il merito di aver tentato una sintesi di questo tipo a due anni di distanza dal crollo del muro di Berlino, fornendo un resoconto analitico delle molteplici fasi attraversate dal pensiero comunista dagli inizi del secolo scorso ai giorni nostri, e senza d’altro canto rinunciare all’obiettivo ambizioso di tracciarne una valutazione complessiva.

A giudizio di Salvadori l’interpretazione - oggi molto diffusa - che considera la vicenda del comunismo contemporaneo come un errore di cui la storia avrebbe fatto finalmente giustizia è non soltanto riduttiva, ma anche sterile e di matrice angustamente ideologica.

 

Occorre invece rendersi conto della grandiosità della “utopia che è caduta”, delle enormi forze materiali e ideali che ha sprigionato e del costante impasto di grandezza e miseria che ha generato.

Ecco il motivo per cui lo storico delle dottrine politiche non può assumere le vesti del giustiziere, ma deve puntare a comprendere il perché di un successo e di una influenza tanto estesi nel tempo.

Tesi principale dell’autore è che il comunismo, per raggiungere la sua efficacia pratica, è stato costretto a mutare se stesso al punto da apparire irriconoscibile rispetto alle premesse originarie, dando quindi vita a una serie di varianti le quali, pur possedendo comuni fondamenti, si sono via via diversificate e, spesso, combattute.

E tutto ciò era praticamente inevitabile, se appena si considerano le ambiguità di fondo che permeano il pensiero di Marx. Salvadori ne mette in evidenza alcune:

(a) il nodo irrisolto del primato rivoluzionario attribuito ora alla classe operaia in quanto forza economico-sociale, ora all’avanguardia - il partito - in quanto forza politico-ideologica;

(b) l’incertezza circa il ruolo attribuito alla violenza fisica come mezzo idoneo per il sovvertimento sociale e l’edificazione del socialismo;

(c) il contrasto tra il centralismo statale come strumento di salvaguardia della rivoluzione, e la democrazia delle masse che si autoliberano.

E’ essenziale notare a questo proposito che Marx, pur possedendo un acuto senso della contraddizione, aveva in ultima analisi costruito un sistema basato sulla fede nella capacità della scienza e della prassi rivoluzionaria di dominare le contraddizioni della realtà e di sottometterle infine ad una “grande armonia”.

Ed è proprio tale fede a spiegare la potenzialità religiosa di una simile dottrina, il cui esito di palingenesi totale era in grado di fare appello in modo efficacissimo ai sentimenti più profondi delle masse. Partendo da premesse che erano in buona parte mal fondate, coloro che intendevano applicare il pensiero marxista alla realtà scelsero ben presto strade diverse e, in molti casi, addirittura opposte.

Per esempio Lenin - che Salvadori considera un revisionista - affermò che lo strumento principe dell’azione politica era il partito dei professionisti della rivoluzione; il primato del proletariato veniva così negato (nella pratica, se non nella teoria), esaltando l’organizzazione centralistica e criticando la spontaneità delle masse come fattore ambiguo e disgregatore.

La linea di continuità tra Lenin e Stalin diventa in tal modo evidente, in quanto quest’ultimo, rafforzando lo Stato autoritario e il suo apparato coercitivo, rifiutò in modo netto la necessità dell’autogestione politica delle masse.

Interessanti sono anche le considerazioni dell’autore dedicate a Mao Zedong e al modello cinese.

Egli nota infatti che Mao, adottando un’interpretazione originale della dialettica marxiana, giunse a sostenere che la rivoluzione è una condizione esistenziale (nel senso di permanente ed eterna) dell’uomo.

La stessa società comunista doveva quindi poggiare sulla rivoluzione permanente in ogni ambito, onde evitare il sopravvento del principio di conservazione.

Ma, a questo punto, è chiaro che di marxismo si può parlare soltanto in senso assai traslato; la rivoluzione, da strumento per raggiungere una definitiva armonia, diviene fine ultimo e stile di vita pervasivo, il che induce Salvadori a considerare lo scomparso leader cinese un “attivista idealistico” più che un vero marxista.

“Comunismo” non è certo un termine neutro e intercambiabile. Esso ha innanzitutto una connotazione utopica fondamentale che ne ha fatto il principale veicolo realizzativo dei progetti volti a costruire una futura società senza classi.

Chi lo abbandona dichiara ipso facto di non credere più a una rivoluzione di tipo radicale, intesa a scalzare l’ordinamento sociale vigente per sostituirlo con uno alternativo. Se si procede a tale abbandono, è chiaro che l’alternativismo globale - fonte primigenia della diversità comunista - dovrà essere rimpiazzato dall’antagonismo legittimo (ma pur sempre limitato) rispetto alle forze politiche che si presentano agli elettori con programmi diversi.

Per realizzare questo mutamento di prospettiva occorre insomma porsi in sintonia con le seguenti parole - scritte in puro stile popperiano - di Ralf Daherndorf: «Noi viviamo nel mondo dell’incertezza. Quello che facciamo è solo un abbozzo, un tentativo; e quindi può essere sbagliato. Chi ama la libertà deve preoccuparsi innanzitutto che l’errore non abbia possibilità di consolidarsi, che non possa trasformarsi in dogma. La costituzione della libertà permette di correggere gli errori. Essa è altresì una costituzione che favorisce nuovi progetti. I nuovi progetti non sono desiderabili perché nuovi, ma perché gli interessi e le aspirazioni degli uomini mutano. Nuove condizioni di vita aprono nuovi orizzonti. Se con democrazia si intende la costituzione della libertà in questo senso, questo significa due cose innanzitutto: l’incoraggiamento all’iniziativa e la garanzia dei controlli.»

E’ ad ogni modo un dato di fatto che, per comprendere la vera essenza del comunismo contemporaneo, non si può assolutamente prescindere dalla sua componente messianica.

Nel trattare il tema dei rapporti tra intellettuali e Partito comunista italiano nel secondo dopoguerra, Nello Ajello ha giustamente sottolineato che «il ‘campo socialista’ era una Chiesa combattente», mettendo in luce altresì la “dipendenza del partito [comunista italiano] dalle direttive dell’internazionalismo proletario”.

Ed è proprio questa ispirazione messianico-religiosa a spiegare perché, anche a livello culturale, la realtà venisse spaccata in due in modo manicheo: «da un lato, dunque, il ‘partito del Vero e del Bello’, cioé la borghesia mistificatrice, dall’altro la ‘cultura nuova dell’umanità socialista’, di cui l’Urss è depositaria.»

La lotta politica era in sostanza vista come un combattimento tra il Bene e il Male, con ciò essendo ovviamente sottinteso che il marxismo costituiva l’unica chiave per distinguerli in modo netto e schierarsi di conseguenza. Ecco perché anche i fatti ungheresi scossero in misura tutto sommato limitata l’universo culturale comunista.

Una volta convinti di aver individuato il Bene, a sua volta incarnato in una ben precisa realtà storico-politica come l’Unione Sovietica (della quale pur si criticavano i limiti contingenti), non potevano sussistere dubbi sulla necessità di schierarsi. Anche i fatti ungheresi, dunque, erano giudicati alla stregua di un incidente di percorso che non poteva scuotere la bontà dell’impalcatura complessiva.

Alla luce di queste considerazioni, la recente dimostrazione che la politica del Partito comunista era in buona parte eterodiretta, nel senso di essere “guidata dall’esterno”, dovrebbe suscitare negli osservatori una sorpresa assai minore di quella che si è invece manifestata: la già citata dipendenza del partito dalle direttive dell’internazionalismo proletario era un fatto scontato per chi, in quegli anni, militava nel campo comunista.

Naturalmente “comprendere” non equivale a “giustificare”; né del resto avrebbe senso la giustificazione di una visione del mondo che si è dimostrata fallace. E’ questo, invece, il tentativo posto in essere in molti suoi scritti da Luciano Canfora, autore che ancora crede nella validità del marxismo. Egli ha a più riprese cercato di storicizzare Togliatti intendendo dimostrare che, nelle concrete circostanze in cui si trovò ad operare, il leader comunista italiano non avrebbe potuto agire diversamente da come in effetti fece.

Togliatti, dunque, corresponsabile dei crimini staliniani e colpevole di non averli denunciati quando era esule in Unione Sovietica? Forse è così - risponde Canfora - ma questa è solo la superficie del problema. A suo giudizio, in realtà “il Migliore” non aveva alternative; se avesse parlato sarebbe stato eliminato come tanti altri, impedendo in tal modo la svolta di Salerno, vale a dire la rifondazione, al suo ritorno in Italia nel 1944, di un partito più nazional-popolare che marxista-leninista e inserito a pieno titolo nel sistema politico grazie all’accettazione del metodo democratico.

Il marxismo - soprattutto nella sua versione leninista - è stato una grande utopia, probabilmente la maggiore del secolo scorso. Chi vi aderiva entrava a far parte di un sistema etico-ideologico onnipervasivo, retto da leggi sue proprie e dominato da canoni peculiari di scientificità. In questo senso esso offriva ai suoi adepti un’interpretazione totalizzante della realtà e della storia, dotata di un proprio e unico concetto di Verità. Non è quindi difficile comprendere che il militante comunista era automaticamente condotto a giustificare ogni eccesso in vista del conseguimento di un obiettivo di ordine superiore: la fine dello sfruttamento e la realizzazione di una società senza classi.

Ma affermare, con Canfora, che Togliatti gestiva il Pci con metodi stalinisti pur essendo in cuor suo un democratico costituisce un falso storico. Molto meglio sarebbe riconoscere che si è stati leninisti perché si riteneva un tempo che da quella parte stava la Verità, mentre ora non lo si è più perché si è compreso che essa non può mai venir acquisita una volta per tutte.

 

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