Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Elisabetta II, regina per caso

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Elizabeth Alexandra Mary, nipote del re di Gran Bretagna Edoardo VIII, pur appartenendo alla casata dei Windsor mai avrebbe immaginato di diventare, un giorno e suo malgrado, sovrana del Regno Unito. Le si addiceva, piuttosto, un percorso di vita da donna di campagna, lontano dai fasti reali e dalle grandi responsabilità istituzionali.

L’inaspettata abdicazione di re Edoardo VIII, tuttavia, aveva costretto suo padre Alberto a diventare re Giorgio VI. Alberto era una persona profondamente timida, schiva, un po’ impacciata e non aveva accettato la corona di buon grado, ma la decisione di suo fratello maggiore di rinunciare al trono per amore di una donna divorziata, non gli aveva lasciato scelta.

Era stato un evento imprevisto che si era abbattuto sulla famiglia e, inaspettatamente, Elisabetta era divenuta figlia primogenita del re. Il suo futuro iniziava a essere tracciato, dunque, senza lasciare troppo spazio alle iniziative personali.

La Seconda guerra mondiale fu la più importante esperienza formativa per la futura regina che, sin da giovane, aveva mostrato grande coraggio, senso di responsabilità e devozione verso la famiglia e la nazione. A quattordici anni, allo scoppio della guerra, sorprese tutti rifiutandosi di lasciare Londra, martellata dai bombardamenti tedeschi.

I servizi di sicurezza avevano suggerito ai membri della famiglia reale di abbandonare la capitale per mettersi al riparo in Canada, ma la principessa non volle sentire ragioni e decise di restare a Londra per condividere l’orrore del conflitto con i propri connazionali.

Il privilegio di appartenere alla famiglia reale non l’avrebbe protetta, dunque, dal pericolo di perire sotto le bombe, così come sarebbe potuto accadere a qualsiasi altro comune cittadino.

Da lì a poco, inoltre, Elisabetta prese la straordinaria iniziativa di fare un annuncio radiofonico alla BBC (sarebbe stata questa la sua prima volta) allo scopo di confortare i bambini sfollati, quelli non privilegiati come lei.

Questo può essere considerato il primo, forse inconsapevole, atto politico di Elisabetta, principessa adolescente che si presentava così al mondo, come una giovane donna intraprendente, con un profondo amor patrio e che non si faceva scudo dei propri privilegi per sottrarsi al dovere di sostenere il suo paese trascinato in guerra dalla Germania nazista.

La principessa decise poi, e contro il volere dei genitori, di arruolarsi nell’Esercito britannico.

La sua esperienza come meccanico d'auto presso l'ATS (Servizio Territoriale Ausiliario, il servizio militare delle donne) le consentì, in seguito, di affermare legittimamente di aver partecipato a quella che è stata definita “la guerra popolare”. L'esperienza le diede un tocco in più rispetto a qualsiasi predecessore.

Quando, nel 1947, sposò Philip Mountbatten, che divenne Duca di Edimburgo (e morì nell'aprile 2021 all'età di 99 anni), il suo matrimonio fu colto come un'opportunità per illuminare una vita nazionale ancora in preda alla mestizia e all'austerità del dopoguerra.

La regina si presentava in tutta la sua splendente maestosità, seduta sul trono con le grandi insegne, circondata da vescovi. La nazione aveva desiderio e necessità di ridestarsi dopo la miseria e il lutto del conflitto e quella fu una grande occasione.

Quando suo padre Alberto, re Giorgio VI morì prematuramente, a soli 57 anni, Elisabetta ricevette il pesante fardello. Fu incoronata regina nell'Abbazia di Westminster, il 2 giugno 1952.

La giovane principessa ereditò una monarchia il cui potere politico era stato in costante diminuzione dal 18° secolo, ma il cui ruolo nella vita pubblica della nazione sembrava, semmai, essere diventato sempre più importante.

“Sono consapevole che vicino a me ci siano persone decisamente più preparate, persone forti e di grande carattere, nate per essere leader, persone che lasceranno un segno e, forse, più adatte a governare, ma nel bene e nel male la Corona è nelle mie mani”.

Furono queste le sue prime umili ma determinate parole, in un contesto in cui una giovane donna inesperta e non di elevata istruzione, ma improvvisamente lanciata sul trono d’Inghilterra, si vedeva circondata da uomini anziani ed esperti, nonché scaltri professionisti della politica intrisi di scetticismo nei confronti dell’idea che la giovane figlia di re Giorgio VI si dimostrasse all’altezza dell’enorme compito affidatole.

Le cronache raccontano che, dopo il decesso del padre, la principessa fu colta da shock quando si rese conto di cosa stava per accadere: avrebbe indossato la corona della monarchia più importante del mondo e, con essa, un fardello di responsabilità enorme, suo malgrado.

Elisabetta, d’altronde, non aveva avuto molta scelta. Il suo stesso carattere l’aveva condotta a sobbarcarsi quel carico eccezionale di impegni. Furono il suo innato senso di responsabilità, la sua la devozione al padre e il suo attaccamento alla nazione a spingerla a operare quella scelta.

Al padre, vicino alla fine, aveva promesso di indossare la corona dopo di lui, consentendogli, così, di morire sollevato dal peso della preoccupazione di lasciare un vuoto di potere e il caos conseguente. Eppure, le esitazioni erano state tante.

Dal momento in cui accettò di onorare la promessa fatta, Elisabetta avvertiva un profondo senso di inadeguatezza di fronte a quel compito enorme che le era stato assegnato.

Inoltre, prese consapevolezza di aver perso ogni libertà di scelta e che la sua vita, in ogni dettaglio, sarebbe stata strettamente programmata e conforme alle inflessibili regole dell’etichetta e dei cerimoniali, ma soprattutto della Costituzione che le dava enormi poteri simbolici, dunque di rappresentanza e garanzia, ma pochissimi poteri politici, perlopiù consultivi.

Ciò significava, dunque, responsabilità enormi di salvaguardia della democrazia. Il destino della monarchia, inoltre, sarebbe dipeso da lei e dalla sua capacità di giudizio. Una missione gravosa e impegnativa, forse troppo per una giovane donna poco avvezza alle grandi questioni della politica.

L’istituzione monarchica iniziava ad essere vista come una zavorra per le casse dello Stato, un groviglio di privilegi anacronistico ed eccessivamente oneroso per il paese. Elisabetta sapeva di avere nelle proprie mani il futuro della corona e la presa di coscienza di tutto ciò, originò in lei una vera tempesta emotiva a causa delle preoccupazioni derivanti dall’enorme mole di responsabilità, come raccontano le cronache del tempo.

La storia avrebbe poi dimostrato che non sarebbe mai venuta meno alla parola data al padre, nonostante tutto.

Quando Elisabetta diventò sovrana, nei primi anni Cinquanta, da ogni parte ci si aspettava ormai che i monarchi del ventesimo secolo svolgessero sì compiti cerimoniali e lo facessero con la solennità richiesta, ma l’opinione pubblica, di fronte ai rapidi cambiamenti socioculturali in atto, sperava anche che la corona li alleggerisse giusto quel necessario per condividerli con la gente comune e accorciare, così, le distanze con   il popolo che desiderava sempre più che la famiglia reale si mostrasse in tutta la sua fallibile umanità.

L'elaborata incoronazione della regina nel 1953, pur rivelandosi molto pomposa e solenne, raggiunse tale scopo. La cerimonia ricalcò il cerimoniale delle antiche incoronazioni sassoni, quelle delle origini della monarchia, ma la decisione di consentirne la trasmissione televisiva permise alla nuova sovrana di entrare nei salotti della gente comune e mostrarsi senza filtri.

Questa esposizione fu una storica e impetuosa rottura col passato. Per volere di Elisabetta, infatti, il cerimoniale reale fu democraticamente visibile a tutti e la regina avrebbe continuato a rivoluzionare la percezione pubblica della monarchia quando, su sollecitazione di Lord Mountbatten e di suo genero, il produttore televisivo Lord Brabourne, acconsentì alle riprese del film della BBC del 1969 “Royal Family”.

Fu un ritratto straordinariamente intimo della sua vita familiare che la mostrava a colazione, mentre faceva un barbecue a Balmoral e faceva shopping nei negozi locali. L'investitura del principe Carlo a Principe di Galles lo stesso anno, fu un altro evento televisivo reale che fu seguito, nel 1970, dalla decisione della regina, durante una visita in Australia e Nuova Zelanda, di rompere con il protocollo e mescolarsi direttamente con la folla che era andata a vederla. Queste "passeggiate" divennero presto una parte centrale di qualsiasi visita reale.

Il culmine della popolarità a metà del regno della regina arrivò con le celebrazioni del Giubileo d'argento del 1977, che videro il paese addobbato in rosso, bianco e blu alle feste di strada. Fu seguito nel 1981 dall'enorme popolarità del matrimonio nella Cattedrale di St Paul del principe Carlo con Lady Diana Spencer.

I decenni successivi si sono rivelati molto più impegnativi. La controversia all'inizio degli anni '90 sull'esenzione della regina dall'imposta sul reddito indusse la Corona a cambiare le proprie disposizioni finanziarie in modo da pagare come tutti gli altri comuni cittadini. 

I pettegolezzi e gli scandali che circondavano i reali più giovani si trasformarono in divorzi per il principe Andrea, la principessa Anna e, cosa più dannosa di tutte, il principe Carlo.

La regina definì il 1992, anno culmine degli scandali, il suo annus horribilis.

Le rivelazioni dei patimenti che la principessa Diana aveva sopportato nel suo forzato matrimonio con un uomo che amava da sempre un’altra (Camilla Parker Bowls) ma che era stato costretto dalla ragion di stato a sposarla, crearono delle crepe nella fiducia che il popolo nutriva per la famiglia reale.

Alla regina spettò il compito di tamponare l’emorragia di consensi e di simpatia popolare.

Uno dei suoi grandi meriti è stato anche questo. In ogni momento critico durante il quale la corona iniziava a vacillare pericolosamente sotto i colpi degli scandali e della percezione sempre più diffusa che si trattasse di un’istituzione superata e inadeguata a gestire i grandi cambiamenti epocali (il che rendeva i sudditi sempre meno disposti a perdonare alla famiglia reale la mole enorme di privilegi dei quali godeva), la sovrana era l’unica che riusciva sempre a ricompattare il popolo e a infondere fiducia nella monarchia.

Si può affermare che Elisabetta diventò l’incarnazione dell’unità nazionale, della Gran Bretagna, la simbiosi tra popolo e corona.

Oltre alla sua incredibile devozione, ciò che colpisce è stata la capacità di questa donna minuta e modesta, istruita giusto il necessario da un precettore casalingo, di diventare un personaggio storico di enorme rilevanza, un’icona del ‘900, proprio grazie alla propria innata straordinaria tempra e alle proprie incredibili doti persuasive.

In ogni momento storico drammatico, lei c’era, c’era sempre stata, lì, al suo posto a fare da parafulmine per il regno e per i sudditi. Era sempre lì, a tenere compatti i ranghi e a rassicurare che tutto sarebbe andato per il meglio.

E il popolo, fondamentalmente, le ha creduto e l’ha amata per questo. I suoi 70 anni di regno, infatti, hanno dimostrato che Elisabetta è stata all’altezza dell’enorme responsabilità che le era stata affidata, suo malgrado, in circostanze eccezionali e abbastanza casuali.

La sua vita avrebbe potuto essere quella di una donna sì privilegiata, appartenente alla casata dei Windsor, ma ben più semplice e leggera.

La sua esistenza sarebbe ruotata intorno a quel ruolo di moglie e di madre già scritto per lei dalle consuetudini. Una donna istruita giusto il necessario, dedita alla campagna, ai cavalli e ai suoi adorati cani piuttosto che alla politica e ai cerimoniali.

Il suo regno ha attraversato tempeste terribili, durante le quali il paese sembrava poter deflagrare da un momento all’altro. Crisi economiche, guerra civile, Guerra fredda, divisioni e beghe famigliari interne. Nonostante la corona vivesse il momento più basso di popolarità dopo la morte di Diana, Elizabeth riuscì, con un commosso e sincero discorso in diretta televisiva, a tenere ancora in piedi la nazione, la cui unità riusciva a incarnare in modo impareggiabile.

Rispetto ad Andrea, che si diceva essere suo figlio prediletto, decise di dare un forte segnale di rottura nei confronti di una condotta scellerata (accusato negli Usa di reati penali gravissimi di matrice sessuale): lo privò di tutti i titoli reali e militari e lasciò che si difendesse da solo come un privato cittadino, senza alcun aiuto e supporto della famiglia.

Quello di cui, tuttavia, non si parla forse abbastanza, riguarda l’audace spirito d’iniziativa di Elisabetta rispetto a questioni politiche rilevanti e ciò nonostante i risicati poteri che la Costituzione le concedeva.

Fece ricorso al suo carisma e all’appoggio quasi incondizionato di larga parte del popolo che l’aveva ormai eletta a difensore della nazione e degli interessi dei sudditi, al fine di esercitare forti pressioni sulle azioni di governo.

Nota è la profonda avversione della sovrana nei confronti delle inique politiche socio-economiche di Margaret Thatcher. Quando, dal marzo del 1984 al marzo 1985 fu messo in atto, da parte dei minatori britannici, uno degli scioperi più lunghi della storia, duramente represso dal premier di Downing Street, la Regina manifestò apertamente solidarietà e simpatia nei confronti delle mogli dei minatori che avevano deciso di manifestare al fianco dei propri mariti.

Le pressioni di Elisabetta sulla Thatcher furono insistenti per quanto riguardava la questione dell’apartheid in Sud Africa.

La sovrana lamentava la necessità di sanzioni nei confronti del governo sudafricano poiché riteneva inaccettabile il persistere di politiche razziste e divisive e, seppur con enormi difficoltà, riuscì ad ottenere se non altro che fosse manifestato il forte dissenso della corona nei confronti della politica del regime segregazionista di de Klerk che, come sappiamo, successivamente procedette a importanti riforme e alla liberazione di Nelson Mandela, leader storico degli anti-apartheid.

Proprio con Mandela, Elizabeth strinse un rapporto di calda amicizia, come racconta la segretaria privata del leader sudafricano Zelda La Grange. Con Mandela, l’unico al di fuori della famiglia reale a poterla chiamare con il suo nome di battesimo e a darle del “tu”, nonché l’unico autorizzato a poter scherzare con lei, aveva un rapporto di profonda stima e sincera amicizia con Elizabeth, sorto e sviluppatosi anche a causa delle tante pressioni esercitate dalla sovrana, al confine dei propri poteri istituzionali, nei confronti della Thatcher.

Elisabetta c’era sempre stata, dunque, a rassicurare il popolo e specialmente nei passaggi politici interni più delicati, come quello seguente alla morte di Churchill, bussola politica del Regno Unito durante il secondo conflitto mondiale o quello, graduale, ma inesorabile e non privo di rischi della disgregazione sistematica dell’Impero che lei non osteggiò, ma che anzi incoraggiò, consapevole che le spinte indipendentistiche erano ormai troppo forti e inarrestabili e giustificate dai nuovi equilibri geopolitici mondiali.

La Guerra fredda, divideva il mondo in due blocchi contrapposti e bisognava fare una scelta di campo. Il mondo cambiava velocemente e colonialismo e imperialismo si mostravano sempre più concetti anacronistici. Idee romantiche solo per i più conservatori che mal si adattavano al rapido cambiamento dei tempi.

La sovrana sapeva che insistere sull’idea imperiale sarebbe stato molto pericoloso per la sopravvivenza di tutto il Commonwealth e per l’integrità dello stesso Regno Unito, nell’ambito del quale persistevano mai sopite spinte indipendentistiche, soprattutto in Scozia.

La questione irlandese e i conseguenti terribili anni della guerra civile, hanno anche essi scosso impetuosamente il paese e messo a rischio la credibilità della corona. Eppure, Elisabetta fu la voce, una delle poche, che auspicava giudizio, misura, dialogo.

Le tremende crisi economiche, la caduta del muro di Berlino con tutte le altisonanti conseguenze di portata storica, la Brexit, la pandemia da covid-19 e i mediocri e sempre più confusi governi insediatisi a Downing Street, hanno profondamente scosso il paese, quasi mortalmente.

Lillibeth, però, era sempre lì, a difesa strenua dell’unità nazionale, unica costante in un settantennio di alterne vicende profondamente divisive e dolorose per il regno.

Unico e costante punto di riferimento, Elisabetta ha il merito di aver impedito più volte il tracollo di una nazione con tutte le imprevedibili e catastrofiche conseguenze che avrebbero messo a rischio la stabilità di tutta l’Europa e non solo.

Non grandi menti, non abili, scaltri ed eruditi professionisti della politica, ma una donna di campagna, regina suo malgrado, ha compiuto questo miracolo laico.

Alcuni commettono l’errore di credere che il sovrano del Regno Unito abbia un potere politico ben più ampio di quanto la costituzione conceda. Per tale motivo, la regina Elizabeth, in 70 anni, è stata vista da alcuni come l’incarnazione di tutti i mali scaturiti dalla condotta politica di Westminster.

Eppure, bisogna comprendere che mai l’agenda politica del Regno potrebbe essere stata dettata da Buckingham Palace.

La miopia, dunque, di quelli che considerano Elisabetta II la mente delle discutibili azioni dei governi britannici degli ultimi settanta anni è a dir poco stucchevole e, soprattutto, distoglie parecchio dal nocciolo del problema: la politica ha smarrito da qualche tempo la propria missione e le azioni delle democrazie spesso sono state, e ancor oggi lo sono, ottusamente condizionate da ragion di Stato miopi o mal gestite.

Le azioni di molti governi britannici succedutisi nel tempo si sono certamente rivelate errate, egoistiche, a volte ottuse, ma fare del sovrano il capro espiatorio di esse, significa cercare un bersaglio facile da stigmatizzare, mentre sarebbe molto più logico e utile scovare e stanare i registi di esse che, spesso, hanno fatto della corona il parafulmine la propria della propria ignavia e incompetenza.

In questi giorni di lutto, una delle frasi più significative è stata quella pronunciata da un suddito di Sua Maestà di terza generazione di origine bangladese.

Alla domanda se la Regina Elisabetta II fosse stata per lui il simbolo dell’oppressione coloniale britannica, ha risposto che semmai era il contrario: “Elisabetta II per noi rappresenta la decolonizzazione, colei che ha contribuito in modo fondamentale a spezzare le catene”.

Mai analisi storico-politica fu più esatta. Benché le monarchie possano oggi essere giustamente percepite come barocchi carrozzoni anacronistici e vetusti, non si può attribuire alla Regina appena deceduta le responsabilità del persistere di un’istituzione arcaica inadeguata ad accogliere le istanze delle moderne democrazie.

Nonostante non fosse previsto, dunque, Elisabetta non si rifiutò di indossare la corona della monarchia più potente del mondo. Lo fece, suo malgrado, per onorare la promessa fatta al padre.

La promessa è stata mantenuta con autorevolezza e passione e la corona è stata da lei portata con fierezza e dedizione fino al suo ultimo giorno di vita su questa terra, sempre a difesa del proprio popolo. Elisabetta, incarnazione dell’unità del Regno, dunque, è già il passato.

Ora resta l’erede Carlo (re Carlo III) cha ha un compito altrettanto gravoso da svolgere: tenere unito un paese che ha sempre meno voglia di monarchia e spinge verso una modernizzazione che passa anche attraverso l’abolizione di un’istituzione considerata ormai vetusta e costosa.

Le spinte indipendentistiche interne al paese e interne al Commonwealth sono sempre più incessanti, così come tutti i nodi connessi alla Brexit, all’instabilità politica di governi sempre più traballanti e divisi, alla crisi economica, alla guerra in Ucraina con tutto il suo fardello di conseguenze, quali spese militari non previste, rincari del prezzo dell’energia e del gas, perdita di senso di sicurezza.

Saprà Carlo III ergersi, come ha fatto sua madre per settant’anni, a difensore dell’unità nazionale e riuscirà a ridare fiducia a un popolo sempre più smarrito?

Oppure, la dipartita di Elisabetta segnerà anche il tramonto della monarchia con tutte le imprevedibili conseguenze che ne verranno?

Staremo a vedere, ma qualsiasi sarà lo scenario che si presenterà, non si può non omaggiare le gesta di quella minuta donna di campagna che ha assolto egregiamente, con i suoi mezzi ed i suoi limiti, ad un compito enorme che ha rischiato più volte di schiacciarla: tenere insieme il Regno Unito e persuadere alla lealtà un popolo sempre più stanco della politica, delle promesse e di un’istituzione monarchica che è apparsa, nel tempo, sempre meno consona agli scenari storici in sempre più rapido mutamento, a supportarla e ad amarla fino alla fine.

 

 

 

 

 

 

 

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