I Cappellani militari a Cefalonia nel settembre ‘43

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Quando l’8 settembre del ’43 arrivò l’annuncio di Badoglio di cessare le ostilità verso gli alleati, nell’isola di Cefalonia, la più grande delle isole Ionie, era distaccata la maggior parte degli effettivi della   divisione italiana Acqui ad eccezione di alcuni dislocati nelle isole più piccole di Cor e Santa Maura, per un totale di 11.500 soldati e 525 ufficiali.  

 I cappellani militari erano sette, due di loro, don Luigi Ghilardini e don Romualdo Formato hanno lasciato testimonianze scritte dei tragici avvenimenti che seguirono l’annuncio.

 La prima edizione del libro I martiri di Cefalonia di don Luigi Ghilardini fu pubblicata nel 1952 dalla casa editrice Rizzoli.

 Di una terza edizione del 1955 (Scuola Tipografica Derelitti, Genova), conservo ancora nella mia biblioteca una fotocopia ricevuta in dono da un superstite dell’eccidio, ricoverato nel reparto ospedaliero che dirigevo circa 30 anni fa.

Mi raccontò che al termine della battaglia era riuscito a fuggire, ad unirsi ai partigiani greci e tornare in Italia. Nel libro è riportata la generale incertezza di fronte alla decisione se cedere le armi o combattere.

Il generale Gandin, comandante in capo, convocò anche i cappellani: il loro parere, con l’eccezione di don Luigi Ghilardini, fu quello di arrendersi; gran parte degli ufficiali furono d’accordo.

 

Nel volume sono descritte accuratamente le fasi della battaglia contro i tedeschi presenti nell’isola, la resa, i massacri, la esumazione dei caduti, le motivazioni delle medaglie d’oro alla memoria.

La battaglia, aspra e sanguinosa, dal 15 al 22 settembre, terminò con la resa incondizionata.

Fu determinante l’intervento massivo dell’aviazione tedesca, in particolare degli Stuka, micidiali aerei da caccia che si gettavano incessantemente in picchiata sugli obbiettivi per centrarli con bombe o raffiche di mitraglia.

Il paziente che mi aveva donato il libro ricordava cosi l’“incontro” con uno di questi aerei:

«Ero accanto alla mitragliatrice nella mia postazione quando vidi lo Stuka dirigersi verso di me, mi gettai da un lato e riuscii ad evitare la scarica della mitraglia, l’aereo virò e ripeté la manovra, ma anche questa volta riuscii ad evitare i colpi; l’aereo per fortuna desistette». 

Durante la battaglia i prigionieri italiani, considerati “traditori” furono immediatamente fucilati; le esecuzioni proseguirono dopo la resa finale per un totale di circa 2000 soldati e 324 ufficiali; altri 1300 morirono per l’affondamento delle navi che li trasportavano in Germania.

Il cappellano don Luigi Ghilardini, s’impegnò fin dall’autunno del 1944 e negli anni 1950-52 per il recupero dei resti mortali dei caduti di Cefalonia e degli altri territori della Grecia.

“Terrificante” fu lo spettacolo dell’esumazione dalle fosse comuni di centinaia di corpi. I resti furono portati in patria e tumulati nell’Ossario dei Caduti d’oltremare di Bari.

Il libro I martiri di Cefalonia è stato un fondamentale riferimento per le famiglie dei Caduti, grazie alla costante ed affettuosa presenza dell’autore, alla sua opera di sostegno per mantenere vivo il ricordo della gloriosa Divisione Acqui.

L’altro cappellano, Padre Romualdo Formato, scrisse la sua testimonianza L’eccidio di Cefalonia, nel 1946, subito dopo la fine del conflitto, con il sottotitolo La tragica testimonianza dell’isola della morte (ed. De Luigi).

L’edizione fu riprodotta integralmente dopo la sua morte in una seconda edizione nel 1968 (Mursia), curata dal fratello Edoardo, anch’egli missionario del Sacro Cuore.  

Circa cinquanta pagine del libro, da pagina 97 a pagina 151, sono dedicate all’eccidio di San Teodoro durante il quale il cappellano fu testimone oculare.

Il mattino del 24 settembre, 137 ufficiali furono portati in una raduna declinante verso il mare davanti ad una villetta abbandonata, indicata in seguito come la “casetta rossa” e fucilati a gruppi di quattro, otto, dodici per volta, per quattro ore consecutive.

È una lettura emotivamente coinvolgente, non facile da riassumere: prima che iniziasse il massacro padre Romualdo gridò inutilmente ai tedeschi:

«E’ contro tutte le norme internazionali che vogliate sottoporci cosi infamemente alla morte dopo che il vostro Comando ha ufficialmente stipulato la resa, e dopo che ci ha tutti disarmati!».

Ma le sue parole caddero nel vuoto e il sacerdote non poté far altro che impartire l’assoluzione, farsi custode di quelle strazianti ultime volontà e ricordare anni dopo nel suo libro ogni istante di quei terribili momenti.

«Segue una scena quanto mai commovente, che mi fa pensare ai primi tempi del cristianesimo, quando i fedeli che venivano uccisi in odio alla fede, prima di essere dati in pasto alle belve nell’anfiteatro si raccoglievano in preghiera, intorno al sacerdote benedicente. Tutti infatti si gettano in ginocchio. Molti hanno le mani levate al cielo. […]

Ognuno, prima di andare al plotone di esecuzione, passa da me a consegnarmi o l’anello della fede per la consorte lontana o la catenina d’oro o l’orologetto o qualunque altro ricordo, tutti mi consegnano il portafoglio, tutti mi fanno scrivere l’indirizzo della propria famiglia ed alcuni mi dettano le ultime volontà o delicatissime commissioni. […] Cosi, per oltre quattro ore, si prolunga lo strazio di quel nostro martirio, di quegli addii, di quegli abbracci interminabili, di quei baci che fanno vicendevolmente inzuppare di lacrime i nostri volti».

Riassunse poi la sua sofferenza:

«Chi può scandagliare la profondità dell'angoscia e della pena che soffrì il mio animo nell'abbracciare e nel baciare ciascuno di essi mentre si avvicendavano, a piccoli gruppi, per ore e ore, al crudele supplizio?»

 Avendo intravisto un segnale di stanchezza in un ufficiale tedesco dopo quattro ore consecutive di fucilazioni Padre Romualdo implorò ed ottenne almeno la salvezza per i rimanenti 17 superstiti.

 Con rare eccezioni il comportamento degli ufficiali fu esemplare, alcuni morirono al grido di «Viva l’Italia», altri cantando la canzone del Piave.

Le salme dei fucilati a San Teodoro non sono mai state mai trovate; testimoni oculari affermano che furono portate su barconi e disperse in mare, evidentemente per nascondere le prove del massacro.

Le terribili scene sono state riproposte anche nella miniserie Cefalonia andata in onda nel 2005 su Raiuno.

Padre Romualdo morì nel 1961 a soli cinquantacinque anni.

Tutta la sua vita fu dominata dal ricordo angoscioso di quelle fatali giornate, e dedicata ai contatti con le famiglie dei caduti.

E’ noto come nei 50 anni successivi le azioni dei nostri soldati a Cefalonia non ebbero il meritato riconoscimento per motivazioni di ordine politico e ideologico: da una parte non si volevano turbare i rapporti con la Germania, un “avamposto” verso i Paesi al di là della cortina di ferro, dall’altra i combattenti non erano considerati partigiani perché avevano combattuto per la Patria e non per liberare l’Italia dal nazifascismo.

La stessa valutazione per i 600mila soldati prigionieri internati nei lager nazisti, che avevano rifiutato di aderire alla repubblica di Salò fu combattere con i tedeschi e dei quali 50mila non fecero ritorno.

Il presidente della repubblica Azelio Ciampi è stato il primo testimone “ufficiale” recatosi a Cefalonia nel 2001, sottolineando nel suo discorso come la scelta consapevole della divisione Acqui di combattere fosse il primo atto della Resistenza di un’Italia libera dal fascismo.

Nel 2007, sempre a Cefalonia, Giorgio Napolitano, Presidente della Repubblica, commemorò nuovamente i caduti scegliendo il 25 Aprile come data per sottolineare il loro contributo alla Liberazione del nostro Paese.

I tentativi d’insabbiare le responsabilità del massacro di Cefalonia, un terribile crimine di guerra, sono stati numerosi e rare le condanne.

Il generale Hubert Lanz, capo del XII Corpo d’Armata della Wehrmacht è stato condannato a 12 anni di reclusione, ridotti poi a tre, dal tribunale di Norimberga nel 1947; il caporale della divisione Edelweiss Alfred Stork all’ergastolo dal Tribunale militare di Roma nel 2013.

 

 

 

 

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