Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Viaggio a Hong Kong

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Ci sono dei posti sparsi per il mondo in cui uno prova la sensazione di ricorrente smarrimento, nel senso che non capisce bene dove si trova.

Volti e lingua appartengono chiaramente a un certo Paese, mentre cultura e comportamenti indicano che il riferimento storico e geografico è un altro, del tutto diverso dal primo.

Hong Kong è, in questo senso, un caso emblematico.

La vecchia colonia britannica, restituita alla Cina nel 1997 in base agli accordi stipulati nel 1898 tra il Regno Unito e l’allora Impero cinese, ha rifiutato con una tenacia che rasenta la temerarietà di farsi assimilare.

Salvo poi doversi arrendere alla volontà di Pechino.

Gli abitanti, appena 7 milioni a fronte del miliardo e 400 milioni della Repubblica Popolare, non chiamano mai la Cina col suo nome, preferendo piuttosto riferirsi ad essa con la parola Mainland.

Non si tratta di una semplice questione terminologica, poiché i motivi di un tale slittamento semantico sono in realtà profondi.

I cinesi di Hong Kong – che parlano cantonese e non mandarino – non si sentono cinesi più di tanto, pur riconoscendo i legami storici con il colosso asiatico.

La secolare presenza inglese, come del resto è accaduto a Gibilterra, Malta e in molti altri luoghi, ha modificato profondamente la visione della vita e le abitudini quotidiane non solo della élite politica e culturale, ma anche della gente comune.

 

Ne consegue che un cinese di Hong Kong, quando deve trattare con un cinese che proviene dal “continente”, assume un atteggiamento di diffidenza che non riesce proprio a dissimulare.

Il governo della Repubblica Popolare ha tollerato per parecchi anni questa situazione per motivi essenzialmente pratici.

Dopo tutto il piccolo territorio dell’ex Dominion britannico è un’importantissima piazza finanziaria e bancaria, che permette alla Cina di affacciarsi sul mondo saltando le troppe pastoie burocratiche che caratterizzano la sua vita politica ed economica. Basti dire che vi hanno sede oltre 100 consolati stranieri, un numero superiore a quello che può vantare New York.

Moltissimi sono gli investitori stranieri e l’economia locale è di tipo liberista, assai diversa da quella cinese che è pianificata.

Ovunque si vedono le cabine telefoniche rosse e gli autobus a due piani che fanno pensare di essere a Londra piuttosto che in Asia, e in perfetto stile inglese sono pure le targhe delle automobili.

 È stata mantenuta anche la bandiera nazionale che sventola – ma non sempre – accanto a quella cinese, mentre le transazioni finanziarie vengono condotte usando il dollaro di Hong Kong, quotato come le principali valute del mondo, e non lo yuan cinese.

Ho sperimentato ancora una volta questa impressione di “diversità” nel corso di un recente viaggio – il mio secondo a Hong Kong – per partecipare a una fiera organizzata dalla UE e volta a reclutare studenti locali che desiderano iscriversi alle università europee.

Parlo ovviamente del periodo pre-Covid. Il paragone mi viene facile poiché sono stato spesso a Pechino in occasione di fiere simili.

Analogo l’afflusso dei giovani che vogliono andare all’estero, ma le differenze risultano notevoli. In Cina gli studenti sono disposti a imparare la lingua del Paese che li ospiterà e chiedono per lo più l’offerta formativa del triennio (B.A.).

A Hong Kong domandano subito se ci sono corsi in inglese accorgendosi che, nell’Europa continentale, tali corsi vengono impartiti quasi unicamente nel biennio (Master) e nel dottorato (Ph.D.). Il che rende indubbiamente più difficile il reclutamento: gran parte sceglie Regno Unito, USA, Canada e le non lontane (per loro) Australia e Nuova Zelanda.

Pure il livello culturale è più alto giacché gli atenei locali sono strutturati sul modello britannico, ed esiste anche una “Baptist University”. Non solo. In Cina Google e Facebook sono proibiti, mentre a Hong Kong le connessioni funzionavano perfettamente prima della repressione ordinata da Pechino.

A Hong Kong ogni anno venivano commemorati gli eventi di Piazza Tienanmen del 1989, in cui la presenza della Union Jack era dominante.

Ora non più. Pechino ha dato vita a una campagna di “rieducazione patriottica”, inserendo tra l’altro il marxismo come materia obbligatoria nelle scuole.

Dal punto di vista cinese l’autonomia così ampia non è tollerabile, anche se risulta utile sul piano economico e finanziario per l’intera nazione.

Mi chiedo se in futuro si vedranno ancora nelle strade le innumerevoli colf indonesiane che si riuniscono nei giardini di fronte alla Public Library per pranzare assieme, essendo il permesso di lavoro piuttosto facile da ottenere.

E se rimarranno le grandi colonie di europei e americani che possono entrare senza visto e vivere in loco con un permesso di soggiorno che viene rinnovato senza troppi problemi.

Indubbiamente Hong Kong non è più la città romantica descritta nel film L’amore è una cosa meravigliosa di Henry King (1955).

La sua celebre colonna sonora è soffocata da un’incredibile selva di grattacieli, e anche qui l’inquinamento è a livelli record. Restava tuttavia un esempio di cosmopolitismo e di libertà. Inutile sperare che, anche in futuro, sia possibile ammirare la famosa baia dal Victoria Peak senza sottoporsi a ferrei controlli di polizia.

 

 

 

 

 

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