Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Vita biologica tra scienza e religione

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Il problema del rapporto tra scienza e religione rappresenta uno dei problemi più dibattuti all’interno del panorama culturale contemporaneo.

Albert Einstein sosteneva che «La scienza senza religione è zoppa, la religione senza la scienza è cieca», per mettere in luce che la “meraviglia” provata da ognuno di noi nei confronti della bellezza e complessità del mondo circostante non può ridursi a una semplice questione di calcolo.

C’è ancora spazio per questo rapporto tra scienza e religione e in quale misura rispetto alla vita biologica?

Chi scrive è convinto che, oggi, lo spazio per un confronto tra scienza e religione sia apertissimo.

Chi sostiene che il progresso scientifico ci ha liberato dal bisogno di fede e religione è prigioniero di una mentalità non tanto scientifica quanto, piuttosto, “scientista”. Considera, in altri termini, la scienza quale unico terreno della nostra attività cognitiva, senza rendersi conto che la ricerca religiosa è, in fondo, il tentativo di scoprire “il senso del tutto”.

E scordando, al contempo, che la conoscenza umana non si esaurisce affatto nell’ambito di una dimensione esclusivamente empirica. In realtà questa presa di posizione nasce da presupposti metafisici molto forti e – spesso – inconsapevoli.

Trattando di Einstein, occorre tuttavia notare che egli non parlava di una religione in particolare, ma di un atteggiamento generale che tutti gli esseri umani condividono, e che li spinge a trascendere i dati sensoriali per ricercare qualcosa che si colloca al di là di essi, e il suo non è certo un caso isolato.

 

Se poi si prende in considerazione la vita biologica, è un campo in cui le considerazioni di cui sopra risultano ancor più giustificate. Basti rammentare che – non a caso - la scienza non è in grado di fornire una definizione esaustiva del termine “vita”.

Molti sostengono che oggi si assiste sempre di più a quanto Friedrich Nietzsche, nel 1882, aveva affermato nella Gaia scienza, vale a dire alla vittoria non tanto della scienza, ma a quella del metodo scientifico sulla scienza. Friedrich Nietzsche, tuttavia, non è un pensatore che ha tematizzato in modo sistematico le tematiche scientifiche e le loro implicazioni filosofiche.

Le sue riflessioni al riguardo sono frammentarie e assumono spesso la forma dell’aforisma. Cosa significa, infatti, parlare di “vittoria del metodo scientifico sulla scienza”?

Gli scienziati (e un buon esempio è proprio Albert Einstein) non parlano volentieri di “metodo”. Nella scienza, più del metodo, contano intuizione, creatività e fantasia. Sempre Einstein scriveva che gli scienziati sono “opportunisti”, nel senso di non avere preferenze metodologiche.

Qualsiasi regola va bene, a patto che conduca al risultato desiderato. In realtà la questione del metodo è stata privilegiata da alcune correnti della filosofia, a partire da Bacone per giungere al neopositivismo logico del secolo scorso.

Già nella seconda metà del ’900 divenne obsoleta quando Popper affermò senza mezzi termini che non esiste un metodo scientifico standard in grado di fornirci l’output quando inseriamo l’input corretto.

Tale impostazione viene accettata dai più all’interno dell’epistemologia contemporanea, e l’impostazione neopositivista è ora minoritaria.

La società attuale è dominata, per dirla con termini heideggeriani, dal mondo della tecnica (Gestell). Se da un lato la tecnologia ha consentito e consente all’uomo di migliorare e progredire, dall’altro essa ha offerto e fornisce all’uomo strumenti per annientarsi totalmente (ad esempio le armi di distruzione di massa).

Vale per Heidegger, mutatis mutandis, ciò che ho detto prima a proposito di Nietzsche. Entrambi i filosofi appartengono a tradizioni di pensiero che, su scienza e tecnica, conducono riflessioni negative in senso aprioristico.

La tecnica è un prodotto umano e, proprio in quanto tale, è positiva o negativa in base al modo in cui viene sviluppata e utilizzata.

Se è vero che fornisce strumenti di annientamento, è altrettanto corretto osservare che un rapporto fecondo tra tecnica e umanesimo è possibile e si è verificato.

Si pensi al modo in cui l’informatica ha cambiato, per esempio, il metodo di lavoro dei filosofi.

Oppure alla sempre maggiore conoscenza del mondo circostante che i suoi strumenti hanno consentito, tanto sul piano del microcosmo quanto su quello del macrocosmo.

E tutto ciò ha conseguenze importantissime anche per la filosofia, dal momento che ci consente di riflettere sui nostri limiti e, spesso, anche sul fatto che escludere la presenza di un’Intelligenza superiore risulta difficile.

Non dobbiamo mai considerare “la tecnica” e “la scienza” quali ipostatizzazioni che nulla hanno a che fare con noi. Sono gli esseri umani ad averle inventate e sviluppate.

Il problema vero è un altro. Entrambe hanno implicazioni etiche di enorme portata e sulle quali, a mio avviso, non si riflette abbastanza. Di qui la necessità di un lavoro comune tra tecnologi, scienziati e filosofi, più avanzato in altre nazioni rispetto all’Italia.

In questo senso i limiti della scienza sono conseguenza dei limiti stessi dell’uomo, soprattutto sul piano cognitivo.

Noi siamo esseri limitati poiché abbiamo accesso solo a una parte esigua di una realtà – enormemente estesa – che ci circonda.

Negli ultimi secoli scienza e tecnica ci hanno permesso di conoscere, quasi sempre in modo “mediato”, porzioni della realtà che prima erano per noi ignote.

Dubito però che si possa arrivare a una “teoria finale” (di cui parecchi scienziati e alcuni filosofi parlano) in grado di spiegare in maniera esaustiva la realtà nella sua interezza.

I limiti delle nostre capacità cognitive, che ho sopra menzionato, inducono piuttosto a sostenere una “inesauribilità cognitiva” del reale.

Anche la religione ha ovviamente dei limiti, sia pure diversi poiché in questo caso è essenziale trascendere la dimensione della mera empiria.

Direi che, per quanto riguarda la religione, il limite consiste nell’impossibilità di imporre – soprattutto con la forza – la propria fede agli altri.

Nel campo religioso il dialogo è fondamentale, ed è necessario se vogliamo convincere i nostri simili circa la bontà delle credenze che abbiamo.

Oggi, purtroppo, siamo in presenza di tendenze opposte, che mirano per l’appunto a conversioni forzate e, in quanto tali, non sincere. Coloro che agiscono in questo modo dimenticano che la fede è un dono che si ottiene soltanto attraverso un percorso di conversione interiore.

A livello di formazione europea nel panorama attuale le scienze naturali sembrano prendere il sopravvento sulle scienze umane.

Ciò accade perché le scienze naturali hanno compiuto progressi che, invece, non si sono verificati in quelle umane.

Siamo sicuri che sociologia, psicologia, politologia etc. debbano adottare gli stessi modelli d’indagine in uso nella fisica, nella chimica, nella biologia etc.?

Alcuni pensano di sì, rifacendosi all’epistemologia tipica del neopositivismo. Altri, partendo dai testi di grandi autori come Max Weber, ritengono al contrario che i due ambiti debbano essere separati.

L’ontologia delle scienze naturali è diversa da quella delle scienze umane e sociali.

Le prime si occupano del mondo della natura, le seconde del mondo umano che è, al contempo, linguistico e sociale. Hanno insomma a che fare con “enti” diversi, e sembra davvero arduo porli sullo stesso piano.

I riduzionisti vogliono ricondurre tutto al piano strettamente empirico, gli anti-riduzionisti sostengono l’impossibilità di una tale operazione.

Il dibattito al riguardo è tuttora in corso. Senza dimenticare che esistono anche “casi di frontiera” come la medicina, che per alcuni aspetti è una scienza naturale e per altri una scienza umana.

 

 

 

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