Un paese che non ama la storia
In ogni Paese la Festa nazionale è un evento di importanza assoluta: pensate al 14 luglio nella vicina Francia, oppure al 4 luglio per gli statunitensi. In Italia, al contrario, il 2 giugno non è mai diventato un momento di celebrazione e coinvolgimento popolare, al punto che dal 1977 al 2001, per ben ventiquattro anni, la festività fu soppressa, riservando qualche modesta celebrazione, perlopiù di impronta militare, alla prima domenica di giugno. Una specie di festa della mamma o dei nonni, insomma. Facendo del nostro Paese l’unico privo di una celebrazione nazionale, dato che con la stessa legge del 1977 fu abolita anche la Festa dell’Unità Nazionale, che si celebrava il 4 novembre a memoria della vittoria nella Prima Guerra mondiale. Nulla avviene a caso. In molti avevano pensato, in quel lontano 1946, che l’Italia potesse iniziare un inarrestabile cammino di crescita morale e culturale. Approfittando di quello che Piero Calamandrei definì un autentico “miracolo della ragione”: una Repubblica proclamata per libera scelta di popolo mentre era ancora sul trono il re. Al contrario tale momento di gioia e di festa fu ben presto offuscato, o forse deliberatamente emarginato.
Il nostro è un Paese che non ama la storia, men che meno la sua. Ancora oggi i testi scolastici poco si occupano della nascita della Repubblica e, comunque, in modo superficiale e anacronistico. Generalmente liquidano il 2 giugno in cinque righe e restituiscono una visione molto semplificata dell’origine della Repubblica, nata malamente in un’Italia spaccata in due e con una debole legittimazione popolare. Visione che una banale analisi da “rotocalco” dei dati sarebbe sufficiente a smontare. Lo storico Maurizio Ridolfi ha osservato che bastano solo due cifre per scardinare l’immagine di un’Italia settentrionale interamente proiettata verso la Repubblica e un’Italia meridionale interamente monarchica: il 40 per cento degli italiani che votarono per il re viveva tra Torino, Milano e Padova. E il 20 per cento dei voti repubblicani era concentrato nel Meridione, e fu decisivo! Neppure i partiti usciti dal secondo dopoguerra amavano fino in fondo il 2 giugno. Le forze moderate e centriste per il timore di un nazionalismo che potesse ricordare alcuni aspetti del “ventennio”. Il mondo cattolico per una diffusa e per certi versi inconscia ostilità verso lo Stato seguita a Porta Pia, al Sillabo e al celebre non expedit. La sinistra per la sua diffidenza verso le manifestazioni di patriottismo e le esibizioni militari. Allora, perlomeno, quando era impensabile che il leader del principale partito di sinistra fosse candidato alla segreteria generale della NATO. Venne così meno la risorsa identitaria del patriottismo costituzionale, ossia quella che meglio qualifica e protegge il carattere democratico-pluralistico della res publica attraverso il principio del riconoscimento reciproco dell’identità culturale e della legittimità politica delle parti in competizione democratica, principio in base al quale ciascuna parte interpreta sulla scena la propria legittima versione della patria repubblicana, dalla posizione di maggioranza vincitrice o da quella di minoranza all’opposizione. Abbiamo scordato che la Repubblica, e con lei la Costituzione, sono una grande vittoria, in un Paese che non è più capace di raccontare vittorie ma preferisce celebrare vittime. I nostri costituenti non sono morti per la Repubblica, ma sono rimasti vivi per costruirla e difenderla. Calamandrei diceva ai ragazzi che la Carta non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé: perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile, ossia l’impegno e la responsabilità. Della nostra legge fondamentale rimane oggi il mito (la costituzione più bella del mondo) ma non la consapevolezza di un sentimento collettivo. Occorre ristabilire il primato del 2 giugno quale Festa fondante del nostro Paese. E’ necessaria una festa nazionale che ci induca a riflettere sul nostro Paese, sui suoi tanti problemi ma anche sulle sue infinite potenzialità. Per raccoglierci intorno a un denominatore comune che ci porti a uno slancio di rinascita. Dobbiamo liberarci di molte zavorre che rallentano l’Italia e la portano a essere una realtà di cui talora, confessiamolo, ci vergogniamo un po’. Della corruzione, della “furbizia”, di quell’individualismo meschino che ammorba la società. Da quel “particolarismo” che da geografico si è mutato in difesa degli interessi di singole categorie che ambiscono a essere caste. Di una classe politica ormai palesemente inidonea a governare il Paese. Diceva De Gasperi, citando a sua volta il predicatore unitariano James Freeman Clarke, che mentre un politico pensa alle prossime elezioni, un uomo di Stato deve avere a cuore la prossima generazione. Noi abbiamo una classe politica che guarda ai sondaggi e ha come termine ultimo la prossima consultazione elettorale! Ci occorre una autentica Festa Nazionale, che ci ricordi anche le meraviglie del nostro Paese, la sua storia, la sua cultura, l’arte e le lettere. La cultura che ha unificato il Paese, che ha saputo esprimere Svevo e Pirandello, D’Annunzio e Pascoli, Pavese e Vittorini. Che ha dato vita a forme d’arte inimitabili. Che ci renda fieri della nostra appartenenza. Non con un sentimento di arido nazionalismo, ma con una feconda consapevolezza che ci induca a combattere i troppi mali che affliggono l’Italia. E’ compito della cultura agevolare questo. E’ compito della scuola. Cessiamo di penalizzare la scuola con investimenti vergognosi. L’Italia è all’ultimo posto nell’Europa per gli investimenti nell’istruzione, con il 7.9% della spesa contro una media superiore al 10%. Germania e Francia sono sopra il 10%, addirittura la Svizzera e l’Islanda al 16%. Persino la Grecia ci supera con l’8,5%. Dobbiamo vivere di un patriottismo che non sfoci nel nazionalismo, ma che si apra ad un respiro europeo, con l’ambizione di essere protagonista. Di un Europa diversa però, che non sia né un mero e arcigno revisore di conti altrui né un asettico bancomat a cui attingere nei periodi di crisi. Bensì una cassa di risonanza di valori e cultura. Forse l’Europa si è estesa troppo negli ultimi anni, accogliendo Paesi che non ne condividono appieno i valori fondanti. Molti Paesi dell’Est Europa sono forse stati accolti con eccessivo slancio, in quanto portatori di una propria interpretazione dei principi democratici che sono alla base della idea fondante dell’Unione Europea. Si tratta di un contrasto che mette in evidenza una profonda diversità sulla visione dell’Unione e sul suo futuro. Mettere in discussione i principi legati allo Stato di Diritto significa prospettare un diverso ruolo dell’UE nel rispetto dei diritti dell’uomo basati sulla Carta dei diritti fondamentali. Neppure in una bocciofila si entra senza condividere integralmente lo statuto! Festeggiamo dunque la nostra Festa Nazionale, con la discrezione della consapevolezza. Rammentiamo che la nostra Repubblica, la Costituzione e le nostre istituzioni sono ciò che ci siamo dati nel momento in cui eravamo sobri, a valere per i momenti in cui siamo sbronzi.
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