Trent’anni di misteri

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23 maggio 1992. A Capaci, sull’autostrada che collega l’aeroporto di Punta Raisi con Palermo, un’esplosione aprì un grande cratere: sotto all’asfalto era stata piazzata mezza tonnellata di esplosivo, fatta saltare dal sicario della mafia Giovanni Brusca, acquattato sulla collina sovrastante.

Nello scoppio morirono il magistrato Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.

Fu l’”Attentatuni”, il più importante della storia di Cosa Nostra. Nel 1987, con la sentenza del “maxiprocesso” di Palermo, ci eravamo illusi che Cosa Nostra fosse stata sconfitta. “Abbiamo vinto: la gente fa il tifo per noi!”, disse Giovanni Falcone a Paolo Borsellino. Ma si sbagliava. Certamente la gente onesta e comune stava al fianco di Falcone e Borsellino, ma non così molti apparati dello Stato collusi con la mafia.

Quando l’interesse di Falcone si spostò dagli esecutori di Cosa Nostra ai livelli superiori, i cosiddetti colletti bianchi, l’atmosfera cambiò in fretta. La grande stampa, quella che quasi unanime fa quadrato nei momenti fondamentali per il potere, come oggi con la guerra in Ucraina, cominciò a definire Falcone il “giudice sceriffo”.

Il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, lo accusò di nascondere le prove nei cassetti. Leonardo Sciascia diede il suo perfido contributo con il celebre articolo sul Corriere della Sera intitolato “I professionisti dell’antimafia”, nel quale insinuava come nella magistratura aver combattuto la mafia potesse essere un modo per far carriera.

Fu questa l’atmosfera che portò alla strage di Capaci. Oggi, ancora una volta e a maggior ragione per il trentennale, innumerevoli rievocazioni celebreranno la memoria del magistrato palermitano, in un susseguirsi di commozione e di retorica.


Una celebrazione offuscata, tuttavia, dai troppi misteri che ancora avvolgono l’evento.

Poniamoci qualche domanda. Perché Falcone non è stato ucciso pochi mesi prima a Roma, dove spesso camminava senza neppure la scorta?

Riina aveva inviato a Roma, non a caso, un commando omicida composto dai più qualificati killer mafiosi, salvo poi richiamare gli uomini a Palermo a seguito di un nuovo progetto. Perché? Secondo il pentito Spatuzza, Riina pronunciò queste parole:

“Cambia tutto. Non c’è più solo la mafia!”. Chi altro partecipò al progetto? Perché le motivazioni della strage di Capaci erano note solo ai massimi vertici di Cosa Nostra e neppure ai più fidati luogotenenti? Perché l’esplosivo utilizzato, oltre a quello consueto da cava, conteneva tracce di “Semtex” prodotto nella Repubblica Ceca e utilizzato solo in ambito militare?

Perché una tecnica di realizzazione così spettacolare ma di difficile esecuzione? Non si è trattato di un’esplosione che ha coinvolto obiettivi fermi, ma auto lanciate ad oltre 170 chilometri orari, con precisione perfetta. Un’operazione alla portata di esperti appartenenti a squadre speciali militari perfettamente addestrate, non di picciotti della mafia!

Nei pressi del cratere furono trovati guanti in lattice. Allora non era possibile, ma oggi si sono potute determinare sugli stessi le tracce genetiche, che appartengono a una donna. Una donna sul luogo della strage? Impossibile che Cosa Nostra utilizzasse una donna nelle sue operazioni. Chi era? Perché era sul posto?
Tanti misteri, quindi, rimasti tutti senza risposta.

La mafia non è stata sconfitta dalle battaglie di Falcone e Borsellino. Certamente ha cambiato strategia, si è per così dire “inabissata”, rinunciando a gesti spettacolari a favore della ben più proficua politica di infiltrazione nella società civile.

Illuminante è senz’altro l’ultima Relazione semestrale al Parlamento della Direzione investigativa antimafia.
Nella relazione si sottolinea come la mafia degli ultimi anni utilizzi meno la violenza e si concentri invece più sul business.

Da un lato meno azioni cruente e comportamenti in grado di provocare allarme sociale, dall’altro la tendenza dei sodalizi mafiosi a una progressiva occupazione del mercato legale.

Si evidenzia anche la crisi di Cosa Nostra, meno “culturalmente elastica” rispetto ad altre mafie, dove è in corso uno scontro tra i vecchi uomini d’onore, portabandiera di una ortodossia difficile da ripristinare, e le nuove leve con la loro visione più fluida del potere mafioso, declinato in chiave moderna.

Inoltre la presenza nel territorio siciliano di gruppi criminali di etnia nigeriana operanti con diffusione ormai capillare ha reso necessario per Cosa Nostra scendere a patti con la mafia della Nigeria, ancor più efferata di quella autoctona.

Oggi è molto più potente la ‘ndrangheta, definita dalla DIA leader mondiale nell’ambito del narcotraffico, e vera e propria holding criminale di rilevantissimo spessore internazionale.

Secondo l’organo antimafia, va tenuta in conto anche la capacità delle consorterie criminali calabresi di relazionarsi con quell’area grigia di professionisti e dipendenti pubblici infedeli che costituiscono il volano per l’aggiudicazione indebita di appalti pubblici e la diffusa corruttela che interverrebbe sulle dinamiche relazionali con gli enti locali, sino a poterne condizionare le scelte ed inquinare le competizioni elettorali.

Secondo gli ultimi dati, le mafie godrebbero di ricavi annui per quasi 200 miliardi di euro. Pensate che le aziende italiane con il fatturato più alto nel 2021 sono Enel, con 77,3 miliardi, e ENI con 69,8.

Di gran lunga inferiore a quello delle mafie. Inoltre il margine di “utile” sui ricavi è per le mafie molto maggiore che per le imprese “regolari”, non foss’altro per la totale evasione fiscale! Si parla di un “utile netto” di 125 miliardi.

Qui le distanze con le società italiane con il maggior profitto si fa abissale: ENEL ha chiuso il bilancio 2021 con un utile di 4,76 miliardi, ENI con 7,67 e Intesa Sanpaolo con 4,2. In sostanza gli utili delle principali aziende italiane sono circa il 4% di quelli delle mafie!

Grazie ai fondi europei del Piano nazionale ripresa resilienza si offrono ora alle mafie immensi spazi di infiltrazione. Gli investigatori dei Carabinieri hanno già verificato che per dare l’assalto agli enormi flussi di denaro pubblico nei settori finanziati dal Pnrr, ’Ndrangheta, Cosa nostra e Camorra hanno costituito una cabina di regia per realizzare progetti capaci di intercettare i contributi europei, consentire ingenti guadagni e assicurare il riciclaggio del denaro sporco.

Oltre ai tradizionali mercati degli idrocarburi e della sanità, l’area nella quale si è assistito a un vero “assalto” da parte delle mafie è quella del “superbonus 110%”, ormai infiltrata in misura massiccia.

Ricordiamoci tuttavia che tutto questo non sarebbe possibile senza il contributo di uno stuolo complice di commercialisti, avvocati, imprenditori, pubblici funzionari e rappresentanti delle istituzioni.

Dobbiamo comprendere che la mafia non è più il “picciotto” con la lupara. Ma un insieme articolato di professionalità in grado di prosciugare la ricchezza pubblica.
Significa che la mentalità mafiosa si è ormai estesa come un tumore nella società civile, ben più che ai tempi di Falcone e Borsellino.

Da qui è necessario partire.

Si deve innanzitutto perseguire la mafia con mano ferma e con norme legate all’emergenza. Come diceva nel 1926 Cesare Mori, chiamato il Prefetto di ferro, “Se la mafia fa paura, lo Stato deve farne di più”.

Affiancando a tale azione una altrettanto intransigente verso quel mondo variegato di complici e fiancheggiatori in giacca e cravatta, i cosiddetti colletti bianchi, che rappresentanto il vero capitale umano della malavita organizzata.

Dipende da tutto questo la rinascita morale ed economica italiana e il conseguimento del sogno atavico di fare dell’Italia un Paese normale.
Senza queste necessarie azioni la celebrazione del sacrificio di Giovanni Falcone sarà solo un mero esercizio di vuota retorica.

 

 

 

 

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