Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

I rapporti tra pragmatismo e filosofia analitica

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Molti autori oggi reagiscono alle ristrettezze concettuali della tradizione analitica ritornando alla filosofia americana per eccellenza: il pragmatismo.

L’antesignano di questa tendenza nella seconda metà del secolo scorso fu Willard Quine, anche se egli non è mai stato un pragmatista a pieno titolo: la sua posizione si può descrivere dicendo che ha inserito elementi pragmatisti in una cornice analitica e neopositivista.

Dopo Quine troviamo Nicholas Rescher, che iniziò a rivalutare il pragmatismo negli anni ’60. Il lavoro di Rescher, tuttavia, è meno popolare di altre e più recenti prese di posizione pragmatiste, dovute essenzialmente a Richard Rorty e Hilary Putnam. La ragione risiede nel fatto che il pragmatismo di Rescher ha forti connotazioni idealistiche.

L’idealismo non è mai stato popolare all’interno della filosofia analitica nonostante le note connessioni tra l’idealismo britannico e gli esordi della tradizione analitica, e l’idealismo linguistico – spesso inconsapevole – adottato da esponenti di primo piano di tale tradizione.

Prescindendo dalla cattiva reputazione di cui l’idealismo tuttora gode nel mondo anglofono, si può anche notare che Rorty (la cui attuale distanza dalla filosofia analitica è assai maggiore di quella di Putnam) approfittò delle crescenti sfide poste al paradigma analitico nei tardi anni ’70 per lanciare le sue critiche di sapore ermeneutico.

Il revival del pragmatismo è stato per molti anni un fenomeno tipicamente americano. Nell’Europa continentale coloro che abbandonavano la tradizione analitica erano in genere più interessati all’epistemologia della complessità e alla svolta naturalistica. Soltanto negli ultimi decenni il neopragmatismo è diventato popolare in Europa, soprattutto grazie agli scritti di Rorty che sono stati ampiamente tradotti.

Senza dubbio il neopragmatismo che va di moda oggi è più vicino a James (e al primo Dewey) piuttosto che a Peirce, C.I. Lewis e alle opere più mature dello stesso Dewey.

La tesi centrale del pragmatismo è quindi vista in termini jamesiani: il metodo pragmatico serve in primo luogo a risolvere dispute metafisiche che risulterebbero altrimenti interminabili, e ad interpretare le nozioni filosofiche verificando le loro conseguenze pratiche. Se non esiste alcun metodo pratico per risolvere le controversie tra diversi sistemi filosofici, allora le alternative generano le medesime conseguenze e il dibattito è inutile.

Il pragmatismo di Rescher è distante da tesi di questo genere. Se affermiamo che siamo giustificati a credere solo ciò che ci è utile, e se aggiungiamo che alla filosofia spetta soltanto il compito di migliorare le condizioni del genere umano, avremo problemi seri nel determinare in cosa tali miglioramenti debbano consistere.

Altrimenti detto, se rinunciamo a qualsiasi tipo di criterio oggettivo, diventerà impossibile sapere quali teorie sono utili per ottenere i summenzionati miglioramenti della vita umana. Abbiamo bisogno di qualche criterio, pur ammettendo che la “verità” è un prodotto umano, e non un’idea metafisica collocata in un mondo platonico di forme eterne.

Prima di questo recente revival, il pragmatismo non è mai stato popolare in Europa; la maggior parte dei filosofi europei, infatti, riteneva che fosse una tipica espressione dello spirito utilitaristico americano (attribuendo all’aggettivo “utilitaristico” un significato negativo). Il pragmatismo veniva identificato con una delle massime più celebri di William James: “vero è ciò che è appropriato nel senso della credenza”, al che si accompagnava una versione parodistica nei libri di testo. Soltanto ora gli europei hanno compreso che il pragmatismo ha anticipato molte tesi rese popolari dalla svolta post-empirista.

Per esempio, si sono trovate molte affinità con il pensiero del secondo Wittgenstein e con il fallibilismo popperiano. Hilary Putnam ha scritto un libro intitolato Il pragmatismo: una questione aperta. Perchè mai – vien da chiedersi – il pragmatismo dovrebbe essere una “questione aperta” per un filosofo americano come Putnam?

Ha senso parlare di rivalutazione del pragmatismo in Europa, meno negli Stati Uniti, visto che si tratta della tipica filosofia americana. Per rispondere a questa domanda dobbiamo fare un po’ di storia.

A partire dai tardi anni ’30, gli Stati Uniti divennero il maggior centro di attività della filosofia analitica e del positivismo logico. Sino ad allora il pragmatismo era la tradizione filosofica largamente maggioritaria nelle università americane.

Dopo la presa del potere da parte dei nazisti in Germania, l’annessione dell’Austria e l’occupazione della Polonia, quasi tutti i rappresentanti del positivismo logico – e in genere della filosofia orientata scientificamente – emigrarono negli USA. (alcuni, tra i quali Karl Popper, scelsero invece la Gran Bretagna). Rudolf Carnap, Alfred Tarski, Hans Reichenbach, Carl Gustav Hempel, Herbert Feigl e molti altri ottennero cattedre nelle università americane.

I motivi di questa diaspora filosofica sono chiari. Anche prescindendo dall’antisemitismo, nessuno di questi pensatori poteva sopportare l’anti-intellettualismo e l’irrazionalismo dei nazisti. I pragmatisti americani favorirono questo esodo, ed un ruolo essenziale fu svolto da Willard Quine, allora giovane docente a Harvard. Aveva infatti incontrato personalmente molti filosofi analitici – inclusi i maggiori rappresentanti del Circolo di Vienna e della Scuola di Varsavia-Leopoli – durante un viaggio in Europa nel 1933.

Sostenuto da C.I. Lewis, un pragmatista particolarmente interessato a problemi logici e linguistici, Quine si impegnò a fondo per portare i pensatori europei nel continente americano.

A questo punto si possono notare due fatti. In primo luogo empirismo logico e pragmatismo possiedono certamente visioni del mondo compatibili, e questo aiutò molto gli europei ad insediarsi nel nuovo ambiente. In secondo luogo, la filosofia analitica americana era, nel suo primo periodo, molto più vicina al neopositivismo che alla filosofia del linguaggio ordinario a quel tempo imperante nelle università britanniche.

Il Tractatus Logico-philosophicus era ben conosciuto, mentre saranno necessari parecchi anni prima di veder crescere l’interesse degli americani per il secondo Wittgenstein. Pragmatismo da un lato, e filosofia analitica dall’altro (particolarmente nella sua versione neopositivista) presentano molte somiglianze: entrambi sono interessate ai risultati e alle metodologie scientifiche; entrambi hanno fiducia nella ragione umana e nella sua capacità di comprendere la natura; entrambi chiedono che i filosofi forniscano ragioni serie e rigorose a sostegno delle loro asserzioni.

L’intersoggettività gioca insomma un grande ruolo nelle due tradizioni, e questo le separa da tutte le tendenze di pensiero che esaltano, invece, l’intuizione e la pura soggettività.

Tuttavia, i neopositivisti attribuiscono un ruolo fondamentale alla logica formale e, ad un certo punto, essi cominciarono ad attaccare una presunta mancanza di rigore da parte dei pragmatisti. Oggi possiamo sintetizzare così la situazione: i neopositivisti erano scientisti, i pragmatisti no.

Secondo il pragmatismo la conoscenza scientifica è davvero centrale, ma non è affatto l’unico tipo di conoscenza importante per il genere umano.Secondo il neopositivismo, invece, tutti i generi di conoscenza devono essere ridotti a quella scientifica. Da un lato abbiamo monismo e riduzionismo (neopositivisti), dall’altro pluralismo e anti-riduzionismo (pragmatisti).

Come sempre accade, i giovani studiosi furono affascinati dal nuovo e più radicale approccio del neopositivismo, cosicchè l’egemonia pragmatista nelle istituzioni accademiche americane ben presto svanì. Nonostante le apparenze, tuttavia, i neopositivisti non ottennero una vittoria totale.

Le idee pragmatiste continuarono ad influenzare, come un fiume carsico, gli esponenti più brillanti della filosofia analitica americana. Lo stesso Carnap adottò una linea pragmatista nei suoi ultimi lavori, mentre il pensiero di Quine può essere considerato una sintesi originale di istanze analitiche e pragmatiste (si pensi al suo celebre saggio “Due dogmi dell’empirismo”).

Ai nostri giorni il neopragmatismo può essere ricondotto a questa permanente – anche se non sempre visibile - influenza del pragmatismo tradizionale nella filosofia americana. Il rifiuto quineano di fissare una precisa linea di confine tra proposizioni analitiche e sintetiche, e la sua immagine del “campo di forza” dove tutte le proposizioni sono soggette a revisione, sono elementi adottati dai neopragmatisti negli ultimi decenni.

Il pensiero di Quine divenne, quindi, una sorta di ponte tra il vecchio e il nuovo. Ma mentre il filosofo di Harvard non rinunciò mai al neopositivismo, alcuni dei suoi allievi - Donald Davidson, per esempio – vanno ben oltre le sue tiepide critiche adottando posizioni più radicali.

Nel libro dianzi menzionato, Hilary Putnam sottolinea giustamente l’importanza di alcune considerazioni di William James circa i rapporti tra teoria ed osservazione. Secondo James, infatti, “il soggetto conoscente non è un semplice specchio fluttuante senza alcun appiglio, riflettente passivamente un ordine in cui si imbatte e che trova semplicemente esistente. Il soggetto conoscente è un attore, il quale da un lato codetermina la verità, e dall’altro registra la verità che aiuta a creare.” Se riconosciamo che la dimensione teorica e quella osservativa non possono essere separate nettamente, non siamo più all’interno di una visione neopositivista del funzionamento della mente, ma adottiamo una posizione resa popolare dagli autori post-empiristi. Si potrebbe anche dire - a posteriori – che a dispetto delle apparenze il pragmatismo era più “moderno” del neopositivismo, anche se ogni concetto di “modernità” è legato a un particolare periodo storico.

Il principio del primato della pratica conduce i pragmatisti a negare la pietra angolare dell’empirismo logico, cioè l’esistenza del vero metodo da adottare tanto nella scienza che nella filosofia, un metodo ovviamente basato sugli strumenti offerti dalla logica matematica. John Dewey comprese – ben prima della svolta post-empirista – che un tale metodo unificato, concepito come un algoritmo in grado di risolvere ogni problema, è soltanto un’utopia filosofica. E anche le intuizioni del pragmatismo circa i rapporti tra scienza ed etica meritano di essere menzionate a questo punto.

Questo tema è, oggi, al centro del dibattito filosofico, mentre i positivisti logici non lo giudicavano realmente importante. Dewey, per esempio, sostiene che lo scopo primario della scienza non è creare modelli formali ed astratti, ma risolvere i problemi umani. A suo avviso ogni dicotomia rigida tra scienza pura e scienza applicata è priva di significato: si tratta di attività interdipendenti. La ricerca scientifica deve essere “democratizzata” per consentire alla comunità umana di controllarne fini ed applicazioni.

Si deve infine notare che il pragmatismo, grazie alla sua prospettiva speculativa più ampia, favorisce una maggiore influenza dei filosofi nelle questioni politiche, sociali ed etiche. Il miglior esempio è fornito proprio da John Dewey, che divenne un ideologo del New Deal di Franklin D. Roosevelt. Ma il pragmatismo in generale è certamente distante dalla tradizione analitica, la cui iperspecializzazione ha quasi isolato tale corrente dal resto della società. L’enfasi quasi esclusiva sulla logica formale e sull’analisi del linguaggio ha causato l’isolamento della filosofia analitica dagli altri settori della cultura.

 

 

 

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