Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Un triste otto marzo

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Sono giorni tristi questi.

Una pandemia tragica è ancora lontana dalla conclusione. Nelle scorse ore si sono registrati oltre 60 mila casi: gli stessi del novembre 2020, anche se, grazie alla campagna vaccinale, i morti sono diminuiti.

A questo dramma, che certamente non è poco, si sono aggiunte le azioni di guerra che scuotono in questi giorni l’Ucraina.

Un quadro fosco, un connubio inquietante che diffonde una sensazione diffusa di paura.

Al timore per una pandemia mai sperimentata da chi oggi vive si è aggiunta l’angoscia per un conflitto nel nostro continente, che ormai consideravamo indenne da tali flagelli.

In tale contesto si è celebrato l’8 marzo.

Credo sia evidente a tutti come tale giornata, quest’anno, abbia assunto una dimensione diversa e, certamente, più ampia, laddove ogni aspetto di futile celebrazione floreale ha lasciato il campo a riflessioni articolate e più esaustive.

I principali mezzi di comunicazione hanno dedicato l’odierna ricorrenza alle “donne ucraine”.

 

Ineccepibile rivolgere loro un pensiero in giornate così dolorose e drammatiche.

Ineccepibile ma limitativo, frutto forse di una giustificata onda emotiva e di una narrazione in verità piuttosto standardizzata.

Credo che un pensiero debba essere rivolto anche alle donne russe, perché se è terribile essere coinvolte in un conflitto lo è anche veder partire i propri figli per una guerra che, magari, neppure si comprende né si condivide.

Così come dobbiamo ricordare le donne afghane. Dimenticate prima dalle forze militari occidentali, in primis da quelle della Nato, in una vergognosa quanto disordinata fuga e oggi del tutto scordate dai mezzi di informazione, che hanno steso su di loro un velo di imperdonabile oblio.

Essere frustate per una passeggiata in solitudine, allontanate dallo studio, impedite nell’igiene personale svolta negli hammam, costrette a matrimoni con i guerriglieri talebani e talora costrette alla vendita dei loro figli per sopravvivere non è certo scenario migliore. Anche se non accade in Europa.

Dovremmo inoltre dimenticare duecento milioni di ragazze africane sottoposte a mutilazioni genitali femminili?

O le donne curde, siriane, libanesi, yemenite, haitiane o del Myanmar che da anni combattono, soffrono e convivono con inesplicabili guerre divenendo spesso profughe prive di soccorso? Forse perché tali conflitti avvengono lontano dal nostro continente?

La lezione che dobbiamo trarre da questi giorni difficili e tragici è che l’8 marzo non è una serata in compagnia o un mazzo di mimose.

Mai come quest’anno deve essere un’occasione per scorgere nel mondo il dramma delle donne private dei loro diritti e la necessità di un profondo cambiamento.

Guardando anche, come ovvio, al nostro Paese.

Perché anche in Italia molto rimane da fare per l’universo femminile.

Ci sono le 119 donne vittime di femminicidio nel 2021, con un collaterale aumento dei casi di stalking, maltrattamenti e violenza sessuale, cresciuti del 30%.

Ma ci sono anche situazioni meno eclatanti, che non godono delle luci della cronaca, ma che costituiscono uno stillicidio di prepotenza e ingiustizia.

Persistono purtroppo ingiustificabili divari, per esempio, nel lavoro e a livello di retribuzioni, nelle posizioni dirigenziali e nella partecipazione alla vita politica e istituzionale.

Secondo un recente studio, rispetto agli uomini più donne concludono gli studi universitari, con voti migliori e prendono parte a esperienze di tirocinio curriculare, nonché di lavoro durante gli studi e di formazione all’estero. Ma tutto questo non sana le inique differenze: il tasso di occupazione dei laureati di secondo livello, a cinque anni dal titolo, è dell'85,2 per cento per le donne e del 91,2 per cento per gli uomini.

A cinque anni dalla laurea gli uomini percepiscono, in media, circa il 20 per cento in più e svolgono professioni maggiormente qualificate. E il divario si amplifica in presenza di figli, perché la maternità e il lavoro continuano a essere inconciliabili per troppe madri.

Esiste poi l’intramontabile – e immarcescibile – repertorio di luoghi comuni e di stereotipi sulle donne. Espressioni che feriscono, segnano confini di genere e costringono le donne in ruoli prestabiliti, imprigionandole in una gabbia invisibile e inviolabile.

Luoghi comuni che troppo spesso tendiamo a cogliere con un sorriso di imbarazzo o, al più, con un senso di fastidio, anziché con l’indignazione che dovrebbero suscitare.

L’8 marzo di quest’anno, come sempre dovrebbe essere, ma stavolta ancor più, non è pertanto una “festa”, bensì una celebrazione dedicata ai diritti delle donne.

Di ogni parte del mondo e di ogni età.

Perché un mondo senza le donne sarebbe solo un malinconico errore.

 

 

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