Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Sul ponte della corazzata Vittorio Veneto

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«Alle 15:20, durante una serie di attacchi aerei, la corazzata fu colpita da un aerosilurante britannico in prossimità dell’elica esterna sinistra. La nave si appoppò, imbarcando circa 4000 tonnellate d’acqua, e rimase ferma per sei minuti, poi fu possibile rimettere in funzione le macchine di dritta, mantenendo una velocità piuttosto ridotta, compresa fra 16 e 19 nodi.»

La corazzata era italiana e si chiamava “Vittorio Veneto”.

L’episodio descritto su wikipedia, si riferisce alla battaglia di capo Matapan svoltasi nel Mediterraneo durante la seconda guerra mondiale il 26 marzo 1941 tra la nostra flotta e quella aereonavale inglese, ma la descrizione di un testimone oculare che si trovava sul ponte della corazzata è lievemente diversa:

«Vidi l’aereo silurante inglese che, superato il fuoco di sbarramento, sganciò il siluro prima di inabissarsi a poche decine di metri dalla nave; fu come se la corazzata fosse stata colpita dal pugno di un gigante; dallo squarcio di poppa, grande come la parete di una stanza, iniziò ad entrare acqua; il comandante dette ordine di chiudere i compartimenti stagni per evitare ulteriori allagamenti…»

 

Quel testimone era mio padre, tecnico specializzato addetto al controllo delle punterie dei cannoni; era libero di muoversi sulla nave, il funzionamento del sistema di punterie era indispensabile per orientare la traiettoria di sparo. Si era imbarcato sulle navi da guerra provenendo dalle officine Galileo di Firenze dove era stato realizzato quel sistema di puntamento.

Dopo il siluramento la “Vittorio Veneto” rientrò lentamente nel porto di Taranto, non subì ulteriori assalti che avrebbero potuto facilmente affondarla. Altre navi le furono disposte attorno durante la ritirata, un incrociatore fu subito affondato e la decisione di mandare altre unità in soccorso causò il disastro di Capo Matapan, con altri due incrociatori e due cacciatorpediniere affondati dalle corazzate inglesi.

Nel giugno 1940 al momento dell’entrata in guerra la Regia Marina italiana si collocava quinta nella classifica delle marine più grandi al mondo per numero di unità e dislocamento in tonnellate di navi da guerra, la “Vittorio Veneto” rappresentava il meglio della produzione navale bellica italiana: lunga oltre duecento metri, superava le 40mila tonnellate, aveva spesse corazze, cannoni potenti, era veloce; l’equipaggio consisteva in circa duemila unità.

In agosto era ormeggiata nel porto di Taranto, sarebbe partita alla fine del mese per la prima missione di guerra; mio padre voleva che l’ammirassi da vicino; avevo 8 anni e descrissi quel giorno nel mio diario; nella data il numero romano è riferito alla 18ma era fascista.

Il regime fascista faceva grande affidamento sulla flotta: doveva superare la storica supremazia di quella inglese soprattutto nel Mediterraneo, il Mare Nostrum, in contrapposizione con la “Perfida Albione”, l’epiteto spregiativo allora utilizzato per definire la Gran Bretagna; in realtà Albione era l’antico nome di questo Paese, oggi usato in modo poetico.

Mussolini si era intestato il comando supremo delle forze armate, ma mancava completamente il coordinamento tra le varie armi in particolare tra quella navale ed aerea come fu tragicamente evidente della battaglia di Capo Matapan, nella quale le nostre navi furono lasciate isolate, senza protezione aerea.

Da un punto di vista bellico le navi da guerra incluse le corazzate, erano ormai superate. Se aerei dotati di bombe o di siluri le avvistavano la loro sorte era di solito segnata. Nella seconda guerra mondiale gli inglesi disponevano non solo di un efficace coordinamento tra aereosiluranti e navi da guerra, ma anche di portaerei e di un sistema di radar.

La “Vittorio Veneto” partecipò a oltre 50 missioni di guerra, ma la supremazia italiana nel Mare Nostrum rimase uno slogan non realizzato durante tutto il conflitto. Con l’armistizio dell’8 settembre 1943 la marina non aderì alla repubblica di Salò e anche la Vittorio Veneto raggiunse Malta consegnandosi agli inglesi.

Al ritorno dal congedo mio padre tornò aggiunse un terribile particolare all’episodio del siluramento: diversi marinai erano rimasti nei compartimenti stagni chiusi rapidamente per evitare l’affondamento; le loro telefonate al ponte di comando divenivano sempre più angosciose: «comandante l’acqua sale, l’acqua sale».

Quando la nave arrivò in porto li trovarono aggrappati agli ultimi gradini delle scalette di uscita nell’estremo tentativo di salvarsi.

Nei documentari o nelle descrizioni delle battaglie navali le conseguenze sulle vite umane sono spesso, oscurate dagli aspetti tecnici: la disposizione dei mezzi, il lancio dei siluri, i bersagli colpiti, i tempi di affondamento, etc.

Dal momento in cui la nave veniva colpita, la morte dell’equipaggio avveniva o per le fiamme che si sviluppavano a bordo o per annegamento se la nave affondava; con essa periva di solito l’intero equipaggio, il recupero dei superstiti era molto difficile.

Durante la seconda guerra mondiale i sommergibili tedeschi, italiani e giapponesi affondarono negli oceani quasi tremila navi; al termine del conflitto circa 8000 navi militari e civili giacevano sul fondo dei mari.

La corazzata “Roma”, gemella della “Vittorio Veneto”, mentre si recava a Malta dopo l’armistizio, il 9 settembre del ‘43, per non consegnarsi ai tedeschi, fu colpita da bombe sganciate da aerei tedeschi e affondò in pochi minuti.

L’equipaggio era di circa 2000 uomini. Prima che la nave si capovolgesse molti avvolti dalle fiamme si gettarono in acqua, le vittime furono oltre 1300. I marinai italiani deceduti durante il conflitto furono circa trentamila.

In quegli anni di guerra ignari ragazzi, come chi scrive, giocavano alla “battaglia navale”: i partecipanti avevano davanti un foglio quadrettato nel quale riportavano le posizioni delle navi; l’antagonista che aveva una flotta uguale doveva indovinare le posizioni di quella nemica ed esultava quando veniva colpita la corazzata.

Lo spirito guerriero del regime era filtrato in tutte le fasce di età. Dopo il racconto di mio padre la “battaglia navale” acquistò per me un significato molto diverso.

 

 

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