Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Può il mondo funzionare come Internet?

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Come si configurano politica e filosofia nell’era di Internet? È impossibile sottovalutare l’impatto che il suo avvento ha avuto sulla vita quotidiana. Non siamo certo lontani dal vero dicendo che ha prodotto sia una nuova visione del mondo, sia un modo diverso di sviluppare i rapporti tra gli esseri umani.

Potente elemento propulsivo della globalizzazione, Internet ha letteralmente cambiato la realtà circostante, e non solo gli schemi concettuali che elaboriamo per interpretarla.

È in un certo senso diventato esso stesso realtà, dando così ragione – a posteriori – a Jacques Ellul, Marshall McLuhan, e a tutti coloro che nel secolo scorso avevano delineato le caratteristiche della cosiddetta “società tecnologica”.

Era naturale attendersi che gli effetti si sarebbero manifestati in maniera pervasiva anche nella sfera della politica.

Cos’è in fondo, quest’ultima, se non comunicazione destinata a convincere gli altri circa la bontà di un progetto volto a governare la società nel suo complesso?

L’abilità comunicativa gioca in tale contesto un ruolo davvero essenziale.

Anche gli antichi lo sapevano. Senza tuttavia immaginare che, in un futuro che è poi la nostra epoca, sarebbe stato possibile automatizzare i processi comunicativi sino al punto di eliminare o quasi le barriere poste dallo spazio e dal tempo.

 

Le possibili conseguenze politiche e filosofiche di questo processo, che si è sviluppato in maniera molto rapida (se confrontato con i tempi della storia), in Italia sono divenute particolarmente visibili grazie al successo di alcuni movimenti politici.

Ci colpiscono senza scampo perché essi non sarebbero ciò che sono in assenza della Rete, e se i loro seguaci non considerassero la Rete stessa quale giudice supremo dell’agire pubblico. Può tuttavia il mondo funzionare come Internet?

Secondo i sostenitori dell’Internet-centrismo sì, poiché essi concepiscono la Rete come una forza stabile e monolitica che domina qualsiasi ambito della società contemporanea, forgiando addirittura la realtà a propria immagine e somiglianza.

Da ciò consegue il “soluzionismo”, secondo il quale i problemi politici e quelli della vita quotidiana si possono risolvere al meglio pensando a cosa Internet ci chiederebbe in certe circostanze.

Dal momento che il Web funziona (bene) in un certo modo e possiede regole precise, bisogna adeguarsi e far sì che ogni altra cosa si comporti alla stessa stregua.

Il risultato è la nascita di una sorta di religione o di mistica del Web, che porta gli adepti a credere con incredibile sicurezza di essere giunti alla “fine della Storia” nel momento di massima espansione della tecnologia.

Si può però notare che le tecnologie digitali non contengono soluzioni già pronte ai problemi sociali e politici che esse creano. Di qui l’invito a non pensare che la complessità della politica si possa superare con lo streaming continuo o con un semplice “click” sulla tastiera del computer.

Non è detto che, per riflettere sui rapporti sempre più stretti tra Web da un lato, e politica e filosofia dall’altro, occorra essere specialisti del tema (oppure – il che accade spesso – fingere di esserlo).

Il vecchio buon senso aiuta sempre, anche in questo caso, e ragionamenti terra terra possono risultare utili al pari di volumi e articoli che il mondo accademico continua a sfornare con ritmo incessante.

Vorrei quindi proporre un quesito delicato e senza dubbio impopolare. Fino a che punto è possibile rinunciare a qualsiasi controllo dei social network?

Chi pone domande simili rischia subito il pubblico vituperio passando ipso facto per nemico della democrazia liberale (anche se i nemici veri della democrazia e del liberalismo usano a piene mani la Rete per screditarli e propagandare modelli politici e sociali basati proprio su una distinzione rigida tra giusto e ingiusto). Guardiamoci, dunque, da coloro che utilizzano la libertà per offrire soluzioni in cui la Verità è fissata una volta per tutte.

Nessuno dimentichi che, alla fine del secolo scorso, un esponente del liberalismo come Karl Popper chiese in un celebre pamphlet di istituire commissioni di controllo per impedire la diffusione di tesi e immagini violente mediante la televisione. Non se ne fece nulla, e il filosofo fu aspramente criticato con il pretesto che a un liberale non è consentito favorire una qualsiasi forma di censura.

Da allora la situazione è ulteriormente peggiorata. In fondo la televisione si guarda e basta, mentre con i nuovi strumenti è possibile intervenire in prima persona nel dibattito pubblico, e gli unici limiti possibili sono quelli imposti dal buongusto individuale.

Non mi pare, tuttavia, che tale situazione rispecchi i principi del liberalismo. Non li rispecchia nella sfera politica, dove occorre tempo per consentire ai governi di attuare i loro programmi senza essere continuamente incalzati da un flusso caotico di opinioni spesso espresse senza cognizione di causa. Né li rispecchia nell’ambito del privato.

Ha ragione chi afferma che i commenti frettolosi su Facebook non aiutano certamente a risolvere il problema della violenza domestica.

Non occorre un controllo totale dei social network come quello praticato in molti Paesi a regime dittatoriale. È invece sufficiente concordare su alcuni principi di base la cui violazione condurrebbe in modo automatico a sanzioni.

Mi rendo conto che è difficile. Ma se non s’inizia a lavorare in questa direzione diverrà sempre più concreto il rischio di attribuire ai social network il compito di determinare il nostro destino pubblico e personale.

 

 

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