La responsabilità della scienza
Mentre negli ultimi secoli la scienza è stata considerata una forma di conoscenza in grado di fornirci una rappresentazione del mondo neutrale e oggettiva, in tempi più recenti si è compreso che la fiducia nella possibilità di determinare un punto di vista “privilegiato” in base al quale effettuare le osservazioni era mal riposta. Considerati i limiti delle nostre capacità cognitive le prospettive sono, inevitabilmente, più d’una, e occorre pertanto passare a una visione funzionale della ricerca scientifica. L’abbandono del punto di vista privilegiato e assoluto comporta altresì l’introduzione del pluralismo all’interno dell’edificio scientifico, e le conseguenze di questo stato di cose sono ovviamente fondamentali ai fini dei rapporti tra scienza e società nel suo complesso. Partendo da tali premesse, si deve notare che la scienza (e la riflessione epistemologica che a essa si accompagna) non può isolarsi dal contesto più vasto della cultura in quanto tale; se è vero che la scienza rappresenta lo strumento migliore per indagare il mondo naturale e quello sociale, è pure legittimo affermare che essa non vive in isolamento rispetto alla società nel suo complesso. La scienza altro non è che una delle più importanti pratiche umane, e in quanto tale va giudicata sia in riferimento alla storia, sia avendo presenti le altre pratiche umane che con essa interagiscono.
Vi è dunque qualcosa di errato nella razionalità semplificatrice che positivismo e neopositivismo hanno attribuito alla conoscenza scientifica: occorre tener conto della complessità del reale e delle interrelazioni che ne formano il tessuto connettivo. Il tema della libertà della scienza è tornato alla ribalta con la richiesta rivolta a Science e Nature, da parte di un comitato del Ministero della Salute americano, di non pubblicare alcune parti di una ricerca dedicata alla trasformazione del virus dell’influenza aviaria – già pericoloso di per sé – in un altro virus che potrebbe comportare conseguenze ancora più tragiche per la vita degli esseri umani. Naturalmente il fine è buono: si punta a trovare antidoti in grado di porci al riparo dalle conseguenze anzidette. D’altra parte il governo degli Stati Uniti è giustamente preoccupato dalla possibilità che la pubblicazione integrale dello studio venga sfruttata da gruppi terroristici, ipotesi tutt’altro che remota. Science e Nature sono, come tutti sanno, riviste che godono di un enorme prestigio internazionale. Gli scienziati che vi pubblicano articoli possano contare su un grande impact factor e, se sono giovani, su un sicuro avanzamento di carriera. Ne consegue che imporre a simili mostri sacri di non divulgare i risultati di una ricerca può essere agli occhi della comunità scientifica una vera e propria eresia. Eppure risulta del tutto plausibile, anche per chi si colloca da un punto di vista liberale, richiamare gli scienziati al loro senso di responsabilità. Gli strumenti di cui oggi dispone il terrorismo pongono in pericolo la vita dei singoli individui e sono in grado di minare le basi stesse sulle quali si fondano gli ordinamenti democratici. Se, dunque, si consente la pubblicazione integrale di risultati altamente pericolosi per il loro potenziale sfruttamento tecnico, le porte restano aperte a chiunque si proponga di distruggere l’Occidente. Qualcuno può replicare che quegli stessi terroristi hanno pure i mezzi per violare i segreti. Ma un conto è lasciare che li leggano “in chiaro”, un altro frapporre ostacoli destinati comunque a metterli in difficoltà. John Dewey aveva certamente ragione nel ribadire che la scienza non ha quale compito primario l’elaborazione di modelli formali, bensì la risoluzione dei problemi umani. Ne consegue a suo avviso che, per svilupparsi, essa deve perseguire senza stancarsi la democratizzazione della ricerca. Non esiste una rigida dicotomia scienza pura / scienza applicata: si tratta, in realtà, di attività interdipendenti e compenetranti, e soltanto democratizzando la ricerca possiamo essere sicuri che la scienza stessa diventi un’attività orientata verso scopi socialmente condivisi. Tuttavia i sistemi democratici hanno il diritto e il dovere di difendersi da chi punta alla loro distruzione. Il liberale non può essere un imbelle che, concependo tolleranza e multiculturalismo come idoli da adorare, si lascia sedurre da chi vuole abolire il suo sistema di valori. La società aperta ha sempre avuto nemici, e li ha ancor oggi. E i nemici, proprio in quanto tali, vanno combattuti. Senza tale consapevolezza i grandi sistemi totalitari del XX secolo avrebbero indubbiamente vinto. |
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