Negli Usa la “cancel culture” vuole eliminare gli studi classici
È ormai noto a tutti che gli atenei americani, come del resto l’intera società Usa, sono sempre più dominati dai paradigmi del politically correct e della cancel culture. Tali paradigmi hanno preso piede ai massimi livelli, nel senso che ad essere coinvolte sono le università più celebri, e le autorità accademiche non sembrano comprendere che, superati certi limiti, resta solo il ridicolo. L’ultimo – e clamoroso - esempio giunge dalla prestigiosa università di Princeton nel New Jersey, che fa parte della Ivy League. Già protagonista negli ultimi tempi di molti episodi ispirati, per l’appunto, dalla filosofia della correttezza politica. Protagonisti, questa volta, sono gli studi classici intesi come apprendimento della cultura greco-romana e riflessione su di essa. Dopo molte discussioni, Princeton ha infatti deliberato di cancellare lo studio obbligatorio del greco e del latino nei corsi in cui prima erano ritenuti indispensabili. Per esempio gli studi religiosi e di letteratura antica. Quale il motivo? Secondo i paladini del politically correct, la cultura classica sarebbe responsabile della diffusione di un “razzismo sistemico”, inculcando negli studenti l’idea della superiorità della cultura greco-romana, che ha in sostanza fondato il mondo occidentale come noi lo conosciamo. Sono state avanzate proposte di sostituire le due lingue della classicità con idiomi africani e amerindi, al fine di facilitare la diffusione di un clima multiculturale, multietnico e scevro dal razzismo. Nel frattempo, agli studenti di Scienze Politiche di Princeton saranno tassativamente obbligati a seguire un corso intitolato “Razza e politica”, il cui scopo è dimostrare come la politica razziale abbia sempre dominato la storia degli Stati Uniti.
Ovviamente uno si chiede cos’abbiano a che fare Omero, Eschilo, Senofonte, Virgilio, Tacito e Cicerone con il razzismo. La risposta – piuttosto bizzarra – è che la cultura classica greco-romana è legata a filo doppio all’idea della supremazia bianca. Non più messaggera, quindi, di idee e valori universali, bensì portatrice di idee e valori ristretti, non in grado di mettere in luce la diversità, o addirittura la superiorità, di tradizioni culturali diverse e antitetiche a quella che noi definiamo “classica”. Non solo. Essa sarebbe anche all’origine del mito della whiteness, ovvero la “bianchezza”, e porterebbe pertanto sulle spalle la responsabilità della diffusione del “suprematismo bianco”. Il tutto, ovviamente, trascurando il fatto che, in realtà, la cultura greco-latina è nata dalla quella orientale, e con essa è sempre rimasta intrecciata in modo molto stretto. Alla cultura greco-romana viene pure addebitato il colonialismo razzista, il che giustificherebbe l’abbattimento delle statue di Cristoforo Colombo (e di molti altri), nonché la definitiva radiazione dei classici dagli scaffali delle biblioteche. Persino l’indebita appropriazione alcuni di simboli della classicità da parte della destra Usa viene citata per dimostrare la validità dell’operazione di “pulizia culturale”. Senza pensare che, forse, tali simboli sono stati usati senza conoscerne il vero significato. Conta poco, a questo punto, che le autorità accademiche concedano la possibilità, a chi lo vuole, di continuare lo studio del greco e del latino. E’ facile prevedere che, visto il clima di intimidazione generale, ben pochi studenti oseranno farsi vedere in giro con i volumi dei classici sotto il braccio. Dulcis in fundo, si è pure stabilito che è inutile studiare i classici nella lingua originale, greco o latino che sia. Secondo gli “innovatori”, bastano e avanzano le traduzioni. Qualcuno ha osservato che, agendo in questo modo, si toglie agli studenti la capacità di riconoscere i moltissimi termini di derivazione greco-romana presenti nella lingua inglese. L’obiezione, tuttavia, non è stata accolta. Tutto ciò potrebbe sembrare un episodio tutto sommato irrilevante. Eppure non lo è. Dimostra infatti, una volta di più, che gli Stati Uniti stanno perdendo il proprio baricentro, trasformandosi in un Paese che potrebbe presto perdere posizioni a livello internazionale, e non soltanto sul piano accademico.
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