Morire in ospedale
La pandemia da COVID-19, la solitudine dei pazienti deceduti in ospedale, la disperazione dei familiari, la visione dei camion militari che nella notte trasportano le salme all’obitorio, hanno riportato l’attenzione sulle modalità del morire nella società moderna. Nel secolo scorso la trasformazione delle società da agricola a industriale ha determinato un cambiamento profondo nel modo di morire. Nel periodo precedente la seconda guerra mondiale si moriva a casa, nel proprio ambiente, circondati da familiari ed amici di tutte le età. Adesso si muore quasi sempre in ospedale, spesso in un reparto di terapia intensiva o di rianimazione, talvolta, come nel caso dell’attuale pandemia, del tutto isolati. Quando ero un giovane medico ospedaliero negli anni ’50 ricordo che i familiari chiedevano molto spesso di portare a morire a casa il proprio congiunto, quando ogni speranza di cura era preclusa. Negli anni successivi le richieste avevano motivazione opposte, la più frequente: «non abbiamo competenza tecnica e psicologica per assistere un moribondo.»
La centralizzazione delle cure nelle aziende ospedaliere e la mancanza di una medicina territoriale adeguata, le visite domiciliari dei medici, infermieri e/o di équipe attrezzate, giustifica la preoccupazione dei familiari. Inoltre, se la morte avviene esclusivamente in ospedale, di fatto nessuno più impara come si muore, nessuno ne acquisisce più “il mestiere”, e riconoscere le varie fasi che il paziente attraversa prima di morire non è facile. Le ha descritte Elisabeth Kubler-Ross, psichiatra e psicanalista svizzera (1926-2004) circa mezzo secolo fa . Riportate nel libro, On death and dying, McMillan-New York, 1969; La morte e il morire, sono il risultato di una prolungata ascoltazione dei malati con prognosi infausta ricoverati nell’ospedale Billings di Chicago. Iniziano con la ‘negazione’ della diagnosi, segue la ‘rabbia’ (perché proprio a me ?); successivamente si assiste alla ‘contrattazione’ (cosa posso ancora fare, quali progetti realizzare); subentra la fase della ‘depressione’, il paziente si rende conto che sta per lasciare tutti quelli che ha amato; superata questa fase può arrivare l’‘accettazione’ della morte. Queste fasi sono sempre identificabili, ma non sempre si succedono regolarmente e possono sovrapporsi. E’importante sottolineare che le attraversano anche operatori sanitari, familiari o amici e, se non riconosciute, il dialogo col paziente può essere arduo o impossibile. La fase della depressione è la più difficile da affrontare: modi banali non servono, mentre la costante presenza fisica, anche silenziosa, accanto al paziente, è di grande aiuto. E’ necessario, quindi, che vi sia tempo sufficiente non solo da parte dei familiari, ma anche degli operatori sanitari per fornire un adeguato supporto emozionale a chi muore ed alle loro famiglie. Personalmente riconoscere queste fasi mi è stato di grande aiuto e nella professione e in occasione di eventi dolorosi familiari. Due fattori impediscono l’accettazione della morte nella società moderna. Il primo è rappresentato dal mito del trionfo della scienza e della tecnica sulla malattia e sulla morte; ne consegue l’eccesso di tecnologia volto a prolungare la vita ad ogni costo e talora l’accanimento terapeutico. A parte i discutibili tentativi d’ibernare il proprio corpo in capsule di acciaio in attesa di esser risuscitati, colpisce l’eccesso di ricorso alle terapie intensive nella fase terminale della vita. Uno studio pubblicato sul Journal of the American Geriatric Society nel 2016 ha mostrato come negli Stati Uniti i medici vi ricorrono in percentuali addirittura superiori a quelle della popolazione generale. Il secondo fattore è l’assenza di familiari e amici al momento della morte: il dolore per la rottura dei rapporti interpersonali può essere superiore alla tristezza della propria morte. E stato sicuramente dominante nei pazienti deceduti in ospedale durante la pandemia da COVID-19. Per i familiari al dolore per la perdita della persona amata si è aggiunto quello di non di non essere presenti nel momento nel quale dal morente viene un messaggio profondo, ineludibile: la richiesta di trasmettere, in una staffetta ideale, il testimone della vita alle persone amate che rimangono. Thomas Mann in “Lettera sul matrimonio, 1959” così si rivolse alla moglie: «quando un giorno le ombre caleranno e sentirò l’angoscia di quanto fu errato, mancato o non fatto, mi conceda il cielo d’averla vicina, la mano nella mia mano, per consolarmi, come cento volte mi ha confortato e sorretto nelle crisi di lavoro o di vita e per dirmi; sta contento, sei stato bravo, hai fatto quel che potevi.» La fine dell’attuale pandemia non è facilmente prevedibile, ma non deve mancare la certezza di una ‘ripartenza’, termine proveniente dall’attività sportiva, quando una squadra esce da una fase negativa. E’ necessario, tuttavia, specificare quale tipo di ‘ripartenza’ si vuole. Per quanto riguarda la sanità sarà opportuno evitare l’attuale eccessiva centralizzazione del sistema ospedaliero, riorganizzare la medicina sul territorio, rivalutare l’importanza della casa del paziente come primo luogo di cura e del ruolo del medico di famiglia in questa direzione. Dovrà esser determinante la scelta del paziente come morire e sarà indispensabile dedicare tempo sufficiente alle sue emozioni ed ai suoi sentimenti per evitare la morte in solitudine. |
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