Il suffeudo di S. Pietro in Bevagna dalle origini all’Ottocento (2)
Ho illustrato altrove le ragioni per cui le decime feudali non erano ancora scomparse, nonostante le leggi di eversione della feudalità emanate nei primi anni del secolo XIX.1 La legge di abolizione della feudalità del 2 Agosto 1806, voluta da re Giuseppe Bonaparte sull’onda delle riforme napoleoniche, non aveva molto scalfito le decime e le altre prestazioni economiche legate al feudo. Tra queste, soprattutto quelle per le quali l’ex feudatario era riuscito a dimostrare un possesso antico (ab immemorabili) o l’esistenza di titoli costitutivi, continuavano ad esistere ed erano state oggetto di accertamento in decisioni di alcuni tribunali speciali (le cosiddette Commissioni Feudali, costituite, appunto, per dirimere le controversie fra le Università–Comuni o i privati proprietari, da una parte e, dall’altra, gli ex feudatari). La rivendicazione dei diritti di decima per l’ex suffeudo di San Pietro è collegato proprio ad uno di questi provvedimenti di accertamento emessi dalle commissioni feudali (decisione del 21 Luglio 1810). Il decurione manduriano Domenico Ciracì, nelle note petizioni inviate al Parlamento napoletano nel 1811, riferiva sul punto: «Vi esistono in Manduria i suffeudi denominati San Pietro in Bevagna, Bagnolo, Sant’Anastasio e Comunale, i di cui possessori obligano i proprietarj a pagare la decima di qualunque sorta di derrate. La Commissione exfeudale, con sentenza del dì 21 Luglio 1810, abbolì tutte le decime, all’infuori del grano, fave, biade, e bambagia, sul pretesto, che nella liquidazione fatta, moltissimi anni dietro col fu Signor Principe di Francavilla dalla Camera della Summaria, tali prestazioni vi erano.
Fu questo un errore, perché in queste materie il solo inveterato possesso non forma titolo nel petitorio, ma bensì un prosieguo della violenza, e del Baronale dispotismo. Per li suffeudi però la sentenza non interloquì, ed è perciò, che si prosegue il duro servaggio, e l’abbuso.»2 Quindi, dopo oltre mezzo secolo di storia, trascorso dalla legge eversiva del 1806 al 1867, venivano ancora riscosse decime e vigesime sui raccolti, come se, nel frattempo, nulla fosse accaduto. Riporto uno stralcio della sentenza definitiva emessa dalla Commissione feudale il dì 21 Luglio 1810, provvedimento sul quale (avendone rinvenuto il testo integrale) mi propongo di tornare più dettagliatamente in un prossimo articolo: «…Quindi autorizzata dalla legge di sua costituzione a decider le controversie feudali, sola facti veritate inspecta, e per esecuzione della legge e de' reali decreti abolitivi dalla feudalità, intese le parti contendenti e 'l regio procuratore generale, [la Commissione, n.d.a.] ha definitivamente deciso e dichiara. 1. Continui l' ex-barone ad esiger ne' fondi soliti a terraggiare, le decime soltanto del grano, dell'orzo, dell'avena , delle fave, del lino e della bambagia. Continui altresì ad esiger la decima del vino mosto ne' fondi conceduti con pubblici istrumenti, e si astenga di esiger qualunque prestazione sopra gli olivi ed ogni altro prodotto. [omissis].”.3 Dunque, l’unico risultato prodotto dalla causa intentata dal Comune di Manduria (insieme a quello di Uggiano, all’epoca dei fatti non ancora soppresso) contro l’ex-barone principe di Francavilla (titolo nel quale erano subentrati gli Imperiale di Latiano) fu l’aver limitato l’esazione delle decime ad un numero minore di prodotti della terra. Ma per i suffeudi, come spiega chiaramente Ciracì, il balzello colpiva ancora ogni genere di derrata agricola (grano, lino, avena, orzo, fave, ed altre vettovaglie vino mosto ed olive), la cui decima parte doveva essere conferita, in naturta, dai contadini e dai proprietari ai magazzini dell’ex feudatario. Ciò perché la sentenza del tribunale speciale emessa per Manduria (oltre che per la sua futura frazione), aveva statuito e deciso solo per il “feudo grande” della città, ma non anche per i primi (i feudi minori), per i quali niente era cambiato. Alla fine la sola novità fu che ad esigere la decima erano, molto spesso, gli esponenti di quella borghesia liberale che aveva aderito alla causa dell’unità nazionale, fornendo ad essa, in qualche caso, i suoi figli più illustri: era questa classe sociale, adesso, ad essere subentrata alla aristocrazia terriera nell’esazione dell’anacronistico tributo. Circa sei anni dopo, la legge 8 Giugno 1873 n.1389 (emanata specificamente con riferimento alla ex Provincia d’Otranto, su iniziativa di alcuni parlamentari salentini), avrebbe definitivamente imposto la commutazione (obbligatoria) in denaro dei diritti di decima e vigesima, disponendo che non fossero più corrisposti in natura. La legge avrebbe anche previsto forme di affrancazione definitiva dei fondi soggetti al diritto di decimare dell’ex feudatario, stabilendo (un pò come avverrà, ed avviene ancora, per le enfiteusi) il versamento di un capitale di riscatto in denaro, da pagarsi un volta per tutte. Già prima però, in virtù di normative precedenti, le prestazioni in natura potevano essere convertite in un canone annuo in denaro. Ciò sebbene gli ex baroni non fossero, in genere, favorevoli a questa soluzione, ritenendo che solo l’esazione in natura dei prodotti agricoli, li ponesse al riparo dal rischio della svalutazione monetaria.4 Come già anticipato nel suffeudo rientrava il territorio ed il bosco denominato “Cuturi” o di “Felline”, citato in alcuni atti notarili del ‘500 come «nemus vulgariter nuncupatum Lo Bosco di Fillini, situm in territorio et feudo Santi Petri Bavanee.» Negli atti notarili anzidetti, il compendio immobilare risulta di proprietà di Giovan Battista Staivano che lo aveva ceduto in enfiteusi perpetua, per il canone annuo di 8,5 ducati al Monastero di San Lorenzo di Aversa.5 Con l’arrivo degli Imperiali, la Masseria Cuturi e il vicino bosco diventano di proprietà della famiglia feudataria di Casalnuovo-Manduria, rientrando tra i beni burgensatici o allodiali della stessa. Successivamente, dopo il passaggio al demanio regio nel 1782 (seguito all’estinzione del casato francavillese-casalnovetano), viene riacquistato dagli Imperiali del ramo di Latiano e da questi rivenduto, nel 1827, alla famiglia Schiavoni di Manduria. Il titolo di acquisto è stato interamente pubblicato alcuni anni addietro: è un atto di compravendita, datato 17 luglio 1827, rep. n.176, rogato in Manduria dal notaio Giovanni Boffa.6 Con detto atto, il signor don Giovanni Schiavoni (“del fu Tommaso” ), nonno di Raffaele, veniva ad acquistare dal marchese don Lorenzo Imperiale “figlio del fu Don Vincenzo, Principe di Francavilla, venditore domiciliato in Napoli”, il complesso immobilare della considerevole estensione di tomoli ottocentotrentaquattro, stoppelli sette ed un sesto, costituito dalla masseria "Cuturi", in cui il bosco era ricompreso, e dalla difesa "Scalella" per il complessivo prezzo di dodicimila ducati. L’atto, benché rogato in un centro di provincia, ha un contenuto particolare e denota una certa padronanza nell'uso e nel governo di istituti giuridici piuttosto complessi, sui quali, a chiusura del discorso, mi soffermo brevemente. Una prima particolarità degna di nota é l'uso dello strumento della "subprocura". Nel rogito notarile, infatti, si costituiva, in luogo dell'alienante marchese don Lorenzo Imperiale, il signor don Raffaele Filotico, domiciliato in Manduria, il quale agiva come subprocuratore del venditore (o "procuratore sostituito", secondo la terminologia del rogito), in forza di mandato di subrappresentanza conferitogli dal procuratore generale del Marchese Imperiale, don Gennaro Cacciapuoti, di professione contabile, residente in Napoli. Il ricorso a questo istituto, evidentemente, avveniva per evitare all'aristocratico venditore, come pure al suo amministratore-procuratore generale, entrambi domiciliati in Napoli, i disagi di un lungo viaggio a Manduria. Il primo (l’Imperiale), pertanto, aveva delegato il suo procuratore generale (Cacciapuoti) che, a sua, volta delegava il Filotico a comparire dinanzi al notaio manduriano. Altra particolarità, che denota una particolare perizia nella materia giuridica, é data dal fatto che, accanto alle parti principali (venditore ed acquirente), nell’atto intervengono i signori don Francesco Antonio Veneri, don Carlo Arnò e don Vincenzo Filotico, tutti di Manduria, creditori del Marchese Imperiale in virtù dei tre rispettivi contratti di mutuo ipotecario che vengono citati nel rogito. A tacitazione di detti creditori, che avevano prestato al venditore la complessiva somma di quattromila ducati, é devoluta contestualmente una parte del prezzo pagato dal compratore. La tecnica contrattuale, alquanto elaborata, consentiva alle parti contraenti di conseguire contestualmente più effetti, e più precisamente: l'estinzione delle obbligazioni rivenienti dai contratti di mutuo al momento stesso della vendita e l'autorizzazione alla cancellazione delle ipoteche gravanti sugli immobili compravenduti. E’ ipotizzabile che i creditori tacitati possano aver fornito al venditore (o al genitore suo dante causa) parte dei mezzi monetari impiegati per riacquistare le due masserie dal Regio Fisco, nelle transazioni intercorse, dopo l’estinzione degli ex feudatari di Manduria, tra questo e gli Imperiale di Latiano. Da segnalare, infine, la partecipazione di Arcangelo Massari, affittuario delle masserie vendute (in forza di contratto già stipulato con il venditore Lorenzo Imperiale), intervenuto nella compravendita per consentire il trasferimento (o, giuridicamente, la cessione) del contratto di affitto in corso, dall'alienante all'acquirente. Partecipando all’atto notarile, il massaro-fittavolo veniva a riconoscere i diritti del nuovo proprietario-concedente Tommaso Schiavoni, riassumendo, nei confronti di questi, tutti gli obblighi nascenti dall’originario contratto di affitto. Tutto ciò, sempre, senza bisogno di ricorrere ad un rogito separato.
Note: 1. G. P. Capogrosso, Sopravvivenza delle decime e di altri diritti feudali a Manduria in un esclusivo documento del 1873, Manduria Oggi, giornale online, edizione del 18.11.2015; ripubblicato il 20.9.2018 su Nuovo Monitore Napoletano con il titolo Un documento inedito del 1873 sulla sopravivenza delle decime feudali a Manduria. 2. Ibidem 3. Sentenza della Commissione feudale del 21 luglio 1810 tra' Comuni di Manduria e di Uggiano Montefuscoli, patrocinati dal sig. Pietro Natale e 'l loro ex-barone principe di Francavilla, patrocinato da' sig. Giovanni Lotti e Raimondo d' Emilio. 4. D. Ciracì, Indirizzo, petizioni, e pensieri del Comune di Manduria ai Signori Deputati del Parlamento napoletano, Napoli, presso Vincenzo Orsini, 1821, p.8. Il volumetto è stato ripubblicato in ristampa anastatica, con introduzione di Giuseppe Sirisi, dall’editore Antonio Marzo di Manduria. 5. Atto 5 novembre 1589 per notar S. Durante denominato “Cessio”. 6. Istituto Tecnico “L.Einaudi di Manduria, I boschi Cuturi e Rosa Marina, Manduria, 2004, sezione «Le vicende della Foresta Oritana» curata dalla docente prof.ssa Clelia Nigro e dalla classe 3^B I.G.E.A., pp.49-93.
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