Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Il fenomeno della morte

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Abbiamo finora trattato della nascita e dell’esistenza. Ora bisogna trattare dell’ultimo elemento del trinomio dinamico, la morte, che è l’ultimo di questi fenomeni, e quindi ha forse lo stesso senso e la stessa importanza del primo, cioè la nascita.

Pertanto forse è possibile anche per esso porsi il problema che ci siamo posti per il secondo, ossia il problema del «perché?».

Insomma molto probabilmente il «perché sono nato?» è specularmente equivalente al «perché devo morire?».

In primo luogo emerge però qui immediatamente una fondamentale differenza tra le due domande: − la prima riguarda infatti qualcosa che è «già accaduto», ovvero il passato, mentre la seconda riguarda invece qualcosa che «dovrà ancora accadere», ovvero il futuro.

Ma lasciamo questa questione per ora aperta.

In secondo luogo va osservato che – entro uno dei due libri che userò come base per trattare questo tema, quello di Ricoeur dedicato al male, il problema del male stesso si pone (in termini filosofici) esattamente come “perché?” Ed anche rispetto a ciò per il momento mi limiterò a constatare ciò che ho appena detto.1

 

In ogni caso, in termini ontologici, la morte appare essere il momento ultimo dell’esistenza, e quindi il momento più adatto per quell’atto che noi uomini usiamo chiamare «bilancio».

È il momento esistenziale dell’a posteriori, mentre invece la nascita è il momento dell’a priori. Tuttavia sia l’a posteriori che l’a priori costituiscono in qualche modo un importante fondamento di essere, ossia ciò che giustifica ultimamente l’essere.

In termini aristotelici si potrebbe dire che il primo equivale alla causalità efficiente mentre il secondo equivale alla causalità finale.

La causalità efficiente giustifica tutto l’essere che deve venire prodotto, mentre la causalità finale giustifica tutto l’essere che è già stato prodotto.

Ed entrambe giustificano l’essere indicando il senso e scopo del movimento evolutivo e onto-generativo – la causalità efficiente lo fa a partire dall’inizio (a priori), mentre la causalità finale lo fa partendo dalla fine (a posteriori).

Alla luce di tutto questo il fenomeno della morte sembra avere la capacità di «spiegare» l’intera nostra vita (tutto l’essere «già stato» che l’ha costituita) a partire dal momento ultimissimo del dipanarsi di un filo fino ad allora mai spezzatosi, ma che ormai sta decisamente per spezzarsi.

Insomma a partire dal momento della morte sembra che noi potremmo avere finalmente la capacità di una visione di insieme che prima non potevamo affatto avere, la capacità di uno sguardo che abbraccia tutta la nostra esistenza, senza perfino più alcuna differenza tra passato, presente e futuro.

In questo senso la morte appare essere il momento in cui il filo del tempo se ne sta finalmente di nuovo tutto avvolto in sé stesso a mo’ di gomitolo.

Ma questo corrisponde specularmente a quanto avveniva alla nascita. Solo che allora il gomitolo del tempo era ancora da essere svolto, mentre adesso (nell’ora della morte) esso non ha più da essere svolto.

E quindi se ne sta lì nella sua definitiva integrità come qualcosa che è giunto finalmente al suo compimento ultimo. Siamo insomma di fronte ad una sistole (contrazione) che conclude definitivamente una lunga diastole (dilatazione).

È evidente che stiamo qui parlando in termini filosofico-metafisici ed inoltre senz’altro anche metafisico-religiosi.

Non a caso qualche lettore avrà intravisto tra queste righe la ben nota immagine propostaci dalla scienza del paranormale che viene connessa al momento della morte – quella della sequenza di immagini in cui di colpo vediamo scorrere davanti a noi la nostra intera vita come un film.

E pare che (almeno stando ai reports descritti da alcuni Autori) effettivamente questo sia quanto viene raccontato da coloro che hanno vissuto una morte imminente a causa di incidenti o gravi malattie.

Oltre a ciò emerge qui un’immagine mitica che è squisitamente metafisico-religiosa. Infatti la morte come finale sistole, o contrazione (opposta all’iniziale diastole, o dilatazione), richiama molto direttamente la teoria tradizionale (in gran parte orientale) dei grandi cicli cosmici; che in Occidente è stata a lungo esposta e chiarita da studiosi come Guénon e Vallin.2

Il ciclo, infatti, è un’estensione spazio-temporale di essere che sempre sprigiona da un punto per poi venire alla fine di nuovo ridotta ad un punto ed in esso ingoiata. Si tratta quindi della continua alternanza ontologica tra punto (contrazione-sistole) e linea (dilatazione-diastole).

Orbene, sia parlando in termini di immagini paranormali che parlando in termini di immagini mitiche, noi ci collochiamo in tal modo decisamente fuori della più rigorosa filosofia.

Eppure, come si sarà potuto notare, noi siamo approdati a queste immagini solo dopo aver condotto un’analisi genuinamente filosofica del concetto di morte; giungendo così alla conclusione che essa si presenta a noi come un momento finale di essere che appare molto simile ad una causa finale.

Non solo, ma già nel contesto di tale discorso filosofico, è emerso chiaramente il senso che la morte può avere esattamente come lo abbiamo visto per la nascita.

In altre parole, già in termini filosofici è possibile rispondere alla domanda «perché devo morire?», esattamente come è possibile rispondere alla domanda «perché sono nato?».

La risposta relativa alla morte potrebbe essere la seguente: – devo morire soprattutto per avere la possibilità unica di abbracciare con lo sguardo tutti i momenti della mia esistenza, in modo da poter comprendere finalmente cosa ho fatto di essa, e quindi anche di poter attribuire ad essa un ben determinato senso e valore.

In qualche modo qui il momento del giudizio è prevalente, e lo è peraltro in maniera speculare rispetto alla domanda-risposta configuratasi alla nascita.

Nel momento della morte io, infatti, posso (e probabilmente perfino devo) emettere un giudizio di valore su ciò che io ho fatto della possibilità apertesi davanti a me al momento della nascita, e che costituivano nell’insieme il contenuto della domanda circa il «perché sono nato?» ed inoltre anche la risposta ad essa.

Insomma, nel momento della morte, io devo sapere se ho fatto o meno ciò che alla nascita ero stato destinato a fare.

Tuttavia nel momento della morte vi è anche qualcosa di più rispetto a tale momento giudiziale (specie come giudizio di valore), e cioè vi è un momento gnoseologico ed insieme ermeneutico. In altre parole solo a partire dalla fine (a posteriori) io ho la possibilità di comprendere un «perché» che è sovrapposto a quello iniziale (nascita): – non solo il «perché» dovevo nascere per fare qualcosa, ma anche il perché dovevo nascere per fare proprio quel qualcosa e soprattutto per farlo in un determinato modo.

Non sfuggirà che ciò include in sé il «già stato» in una maniera che alla nascita (a priori) sarebbe stata impossibile; dato che lì il ventaglio delle possibilità era ancora totalmente dispiegato e non vi era stata ancora alcuna restrizione nel senso della definitiva determinazione e fissazione.

Io insomma – nell’ambito del ventaglio di possibilità che mi erano state assegnate (apparentemente «per sorte», ma in verità in forza della mia identità animica pre-natale, come abbiamo visto nella dodicesima lezione) – potevo allora fare realmente tutto.

Nel momento della morte invece scopro finalmente ciò che ho davvero fatto; il che mi porta a riconoscere che alcune delle possibilità che avevo alla nascita sono restate irrealizzate.

Tuttavia ciò è avvenuto non solo perché io non abbia voluto e/o non ho saputo farlo, ma è avvenuto anche (e forse soprattutto) perché io non ho potuto; ossia perché le circostanze (spesso così complicate da essere letteralmente soverchianti) non mi hanno permesso di fare ciò che avrei voluto e saputo fare.

Esattamente per questo non solo il giudizio di valore è possibile soltanto alla fine dell’esistenza (a posteriori), ma inoltre esso deve tenere strettamente presente anche il valore e il senso di queste limitazioni e determinazioni.

In altre parole io alla fine della mia esistenza dovrò prendere atto che vi era come un misterioso disegno (reggente le circostanze ed i miei atti) nel quale era già scritto l’estremamente specifico percorso che io avrei seguito nel destreggiarmi tra possibilità e realtà, tra volere e potere, tra essere capace e non esserlo, tra potere e non potere, tra sapere e non sapere.

Ebbene il vero compimento della mia esistenza poteva essere solo e soltanto il momento davvero finale di questo tortuosissimo, penosissimo e molto spesso anche infruttuoso percorso; ossia ciò che poteva divenire realtà solo e soltanto nel momento in cui non poteva esservi più alcun movimento, cioè nel momento in cui il filo della mia vita si sarebbe spezzato.

È insomma su questo che io alla fine vengo chiamato ad esprimere un giudizio di valore. Ed è del tutto ovvio che ciò deve implicare necessariamente una riconciliazione con me stesso, ossia una sorta di auto-perdono per ciò che non sono riuscito a fare.

Pertanto il bilancio finale (quale giudizio di valore su ciò che ho fatto o non fatto) non può avere la forma di una condanna, ma può avere solo quello di una saggia e serena costatazione.

A meno, ovviamente che non ci si sia macchiati di colpe molto gravi. La costatazione potrebbe pertanto essere la seguente: – «È qui che sei arrivato e pertanto era esattamente qui che dovevi arrivare.

Questo e solo questo è dunque il senso, finalmente compiuto, della tua esistenza.

Ecco allora davanti a te il suo vero perché. Tu eri nato per arrivare esattamente qui. E questo lo hai fatto. Bravo!».

Sta proprio qui allora il valore gnoseologico ed epistemologico della morte come momento finale. Solo una volta giunto a questo momento io non soltanto ho il potere di emettere un giudizio finale su quanto ho realizzato delle possibilità a mia disposizione alla nascita, ma ho anche il potere di comprendere il senso di quel determinato percorso nel quale alcune possibilità sono restate irrealizzate in modo che io poi giungessi ad uno ed un solo risultato, ossia quello davvero finale.

Ebbene, non vi è dubbio che i filosofi accademici mi accuserebbero qui di determinismo; e così, in base a questa terribile accusa, demolirebbero l’interpretazione della morte che ho appena esposto.

In ogni caso io penso che essa (sia pure in una maniera filosofica un po’ forzata e fuori dal comune) ci offre almeno la possibilità di cogliere in pieno il senso della morte.

E ciò è ancora più vero se constatiamo che questo genere di discorso sta in piena sintonia con immagini mitiche (ed in parte anche esoteriche) che a loro volta si pongono al di fuori della filosofia proprio in quanto esse rafforzano notevolmente il senso del momento finale dell’esistere (sia individuale che perfino anche cosmico).

Tutto ciò significa insomma che finora ci siamo serviti di una filosofia in qualche modo non ordinaria, non ufficiale, e quindi da collocare (almeno in una certa misura) del tutto al di fuori di certi usuali schemi.

Non a caso si tratta di una filosofia che (diversamente da quasi tutta la filosofia moderna ed ancor più post-moderna) non disdegna affatto l’apporto della metafisica e perfino di quella metafisica religiosa che non esita addirittura a sconfinare nel mitico e nell’esoterico.

Cosa accade invece in altri ambiti di sapere?

Cosa accade ad esempio nel contesto della scienza naturale ed empirica? In tal contesto la morte non ha il benché minimo senso così come non lo ha la stessa nascita.

Infatti, volendo essere estremamente sintetici (e riportando perfino il discorso scientifico a quello metafisico naturalistico), la nascita non è altro che un momento di aggregazione di elementi (in un composto organico e quindi vivente), al quale dovrà inevitabilmente seguire prima o poi un momento di disaggregazione di elementi.

E questo è la morte.

Si tratta insomma di fenomeni che semplicemente accadono (secondo leggi della natura che possono perfino venire considerate eterne) ma sul cui senso è assolutamente ridicolo interrogarsi.

Quella scientifica è quindi la forma più forte di liquidazione della domanda circa il «perché?» della morte (così come della nascita).

Ma, come ho appena accennato, c’è anche la forma filosofica di tale liquidazione.
Ebbene, secondo la filosofia (in qualche modo) ordinaria e ufficiale, cosa significa allora la collocazione finale della morte?

È evidente che proprio qui dobbiamo rivolgerci ad un genere di filosofia moderna che non ha mai costituito il main stream della disciplina. La quale da Cartesio in poi ha preferito sempre occuparsi di gnoseologia e di epistemologia, rivolgendo così al mondo ed all’esistenza uno sguardo sempre fortemente filtrato da queste ultime prese di posizione.

Di certo comunque non pochi pensatori hanno fatto eccezione a questa tendenza dominante della filosofia moderna (sicuramente ben più idealistica che non realistica).

Si tratta dei pensatori che hanno elaborato una filosofia metafisica immanentistica (come Spinoza), oppure si sono occupati direttamente del male mondano (come Malebranche e Leibniz), oppure hanno avuto interessi naturalistici (come gli empiristi), oppure si sono occupati direttamente del male di vivere o male connesso con l’esistenza (come Kirkegaard), oppure infine (con una brusca sterzata) hanno spostato il piano della riflessione filosofica dal trascendente-ideale all’immanente e biologico-vitale (come Nietzsche e Bergson).

E sto qui menzionando appena dei pensatori maggiori.

Va sottolineato comunque che di Leibniz ci occuperemo direttamente nel momento in cui discuteremo alcune parti del libro di Ricoeur.

Tuttavia, sebbene sia difficile non chiamare qui in causa molti degli esponenti del moderno esistenzialismo filosofico (Kirkegaard, Sartre etc.), credo che sia sufficiente tenere presente anche il solo Heidegger.

Sappiamo tutti più o meno bene il significato che il pensatore tedesco ha tentato di attribuire all’esistenza ed anche all’essere stesso in base alla natura «finale» della morte.

La sua fu infatti un’interpretazione radicale dell’essere-in-quanto-esistenza – non si esiste davvero per vivere, ma invece si esiste molto semplicemente per il solo morire!3

Se ciò è vero, allora la natura finale della morte non sarebbe altro che l’espressione dell’essenza ultima stessa dell’esistenza; e precisamente in termini radicalmente negativi.

Lo sarebbe peraltro su un piano filosofico che riesce a fare del tutto a meno della metafisica (specie se religiosa), e quindi ha davvero alte probabilità di costituire un’affermazione filosofica autentica tanto quanto quella della scienza naturale.

Insomma può ben darsi che questa sia per davvero l’affermazione più autentica non solo circa l’esistenza ma anche circa l’essere stesso.

Il che ci riporta poi al secondo dei libri, base di questo articolo, ossia quello dedicato da Raphael all’Orfismo ed in particolare nei suoi riferimenti alla teoria pitagorico-platonica dell’essere.4

Ci riporta però anche all’esame del pessismismo gnostico che viene svolto da Ricoeur.

Tuttavia – visto che stiamo nell’ambito di ciò che si può o non si può fare filosoficamente sul piano del vivere concreto e quotidiano – il problema principale al proposito è il seguente: − noi uomini possiamo davvero rassegnarci ad una visione come quella heideggeriana?

Del resto ricordo ai lettori che abbiamo già constatato come l’esistenzialismo filosofico sia assolutamente insostenibile per l’uomo comune.

E quindi devo qui più che mai ribadire che è proprio così. Esattamente in quanto noi uomini comuni ricorriamo alla filosofia sostanzialmente per «vivere meglio», come possiamo farlo se essa ci getta in faccia che la mortalità (più ancora che la morte) è la vera essenza del nostro esistere?

Sfido chiunque a dire che ciò sia possibile, sebbene poi in Ricoeur troveremo elementi per constatare che forse è proprio ciò che bisogna fare per affrontare a visto aperto il male che ci aggredisce nel corso dell’esistere.

In ogni caso avevamo potuto constatare prima che una filosofia ben diversa da quella appena presa in considerazione (ossia la filosofia non ordinaria che sfocia continuamente nella metafisica religiosa, nel mito e perfino nell’esoterico) appare essere perfettamente in grado di rispondere positivamente alla più radicale delle domande circa la morte, ossia quella circa il suo «perché».

Quindi bisogna chiedersi perché mai allora l’uomo comune dovrebbe rivolgersi ad una filosofia che non solo rifiuta problemi esistenziali come quello della morte (come fa la dominante filosofia incentrata sulla conoscenza) , ma inoltre, quando pure li affronta, lo fa in modo da far totalmente coincidere il senso della morte con il Nulla, e quindi di fatto con il totale non-senso.

Tale genere di pensiero può essere autentico quanto si vuole – può affermare insomma la verità nel modo più sincero possibile −, ma sta di fatto che essa può aiutare l’uomo comune solo a vivere e morire nel modo peggiore possibile.

Del resto testimone autorevolissimo di ciò è il Leopardi nella sua vivace polemica contro la filosofia in quanto distruttrice spietata delle illusioni senza le quali all’uomo è impossibile vivere. Basti leggere il suo Zibaldone per trovare dappertutto tracce di tale polemica.

Ecco allora che – così come abbiamo fatto nell’undicesima lezione (nel giudicare quale sia il genere di filosofia che è davvero applicabile alla vita) – anche qui dobbiamo arrivare alla conclusione che, per poter affrontare un tema come quello della morte, noi non possiamo servirci di alcun genere di filosofia moderna.

E così ci viene inevitabilmente incontro nuovamente la filosofia antica con tutta la serie delle sue tipiche problematiche.

Pertanto è proprio su questo piano che possiamo e dobbiamo esplorare un’altra possibilità (radicalmente diversa da quella prospettataci da Heidegger) di spiegazione della morte come fenomeno ultimo, e cioè quella della speranza (e non invece del disperare) che è intimamente legata alla tremenda domanda «perché devo morire?».

Non vi è dubbio che si tratti con ciò dell’antica e multiforme dottrina dell’immortalità. Proprio di questa parla costantemente Raphael nell’esporre la dottrina orfica.

Ricoeur invece (sebbene indirettamente) sembra voler relegare questa dottrina tra le soluzioni che sono del tutto insufficienti ad affrontare il problema del male, ossia quelle che non prendono atto della sua ineluttabilità mondana.

Su questa base possiamo quindi finalmente addivenire all’analisi dei due libri.

Partiamo da quello di Raphael, che è poi l’illustrazione più positiva e costruttiva possibile del fenomeno della morte.

Anche perché in tale contesto il male non è affatto la morte, ma semmai lo è il corpo (quale non solo “prigione” ma anche autentica “tomba” dell’anima).5

In altre parole, a parità di dottrina con il Cristianesimo quanto agli effetti della Caduta (dal cielo) quale Peccato, l’Orfismo non equipara affatto la morte con la condizione terrena generata da questa colpa originaria.6

Afferma però senz’altro che la corporalità equivale alla mortalità.

E quest’ultima viene vista senz’altro come una condizione ontologica negativa. Positiva quindi è semmai la morte, ma non certo la mortalità.

Comunque Raphael afferma in sintesi che Orfeo fu insieme un sacerdote, un mitografo (il fondatore di una tra le maggiori teogonie greche, oltre quelle di Omero e di Esiodo) ed infine un filosofo.7

E svolse questo molteplice compito allo scopo di indicare all’uomo la via misterico-iniziatica per giungere all’umano-divinità per mezzo dell’identificazione con un Dioniso decisamente celeste.8

Questa via però implica anche un ben preciso giudizio sia circa il mondo e l’esistenza sia circa il vero senso della morte.

Infatti il mondo e l’esistenza rientrano in quell’immanenza che ha sì la sua precisa ragione di essere ma è intanto un luogo di essere decisamente negativo rispetto alla Trascendenza.

Si tratta infatti del luogo dell’essere che è caratterizzato dall’imperfezione propria della realtà terrena decaduta rispetto a quella divino celeste; ed inoltre, per quanto riguarda specificamente l’uomo, si tratta della sua natura e dimensione “titanica” (demoniaca), a sua volta radicalmente opposta a quella “dionisiaca” (divina).9

Da tutto ciò consegue che la morte va considerata per l’Orfismo un fenomeno finale radicalmente positivo, in quanto esso pone fine a tale spregevole condizione predisponendo così al recupero dell’originaria condizione celeste e divina.

E ciò vale tanto per il mondo che per l’uomo. Tuttavia si tratta solo di una potenzialità. Perché, secondo la dottrina orfica, in assenza di un cammino preparatorio almeno l’uomo non riesce affatto ad utilizzare questa possibilità insita nella morte meramente fisica.

E tale cammino non è altro che quello misterico-iniziatico; entro il quale il “miste” è chiamato a vivere una morte certamente non letterale (cioè non fisica) ma sicuramente nemmeno vuotamente formale.10

Egli è chiamato insomma a scendere in quegli “inferi” del suo passato esistenziale (in parte corrispondente all’inconscio stesso) entro il quale le circostanze lo hanno condizionato e determinato fino a farlo diventare ciò che non è; perdendo così la sua identità divina ed acquistando una solo illusoria identità terrena.

Ebbene tutto ciò corrisponde perfettamente a ciò che abbiamo scoperto semplicemente riflettendo sulla morte come momento finale.

A partire dal quale si guadagna finalmente uno sguardo sintetico sulla totalità dei passi da noi compiuti nell’esistenza, ed ancora più precisamente su quell’unicissimo cammino che noi ci siamo aperti nella foresta intricata delle possibilità e delle circostanze.

È quel cammino, puntante all’altrettanto unicisssimo risultato finale (corrispondente al momento in cui la vita si spezza), che poi, una volta giunto alla sua fine, costituisce il più autentico senso e compimento della nostra intera esistenza.

Qui con Orfeo possiamo comunque aggiungere a tutto ciò che quest’estrema comprensione del senso della nostra esistenza (nel suo momento estremo) deve coincidere in qualche modo con la riconquista della nostra natura e identità divina.

Il che corrisponde poi al superamento della morte esattamente in direzione di un’immortalità divino-trascendente alla quale più nulla ci sbarra la strada.

Tuttavia il cammino misterico-iniziatico deve introdurre soprattutto ad una forma di conoscenza (quella in cui l’ente corporeo umano riconosce sé stesso come anima ed anche come divinità), con il corredo della quale alla morte fisica non seguirà più quel deplorevole oblio – lo stesso di cui non a caso parla Platone nella Repubblica (X libro) nella forma di immersione dell’anima nel fiume dal nome Lethe –, in presenza del quale l’anima certamente ricadrà nel ciclo delle nascite e quindi nel corpo.

E questa è un’altra condizione in forza della quale la morte cessa di essere il fenomeno di disgregazione descritto dalla scienza naturale, e che ovviamente non può avere alcun senso.

Come possiamo ben vedere, l’Orfismo è esempio di una dottrina in cui il fenomeno della morte assume un’ultimità che è tanto radicale quanto è anche irrevocabilmente positiva.

Essa costituisce infatti l’estremo limite aldilà del quale la negatività immanente si rovescia di colpo nella positività trascendente. E ciò avviene inoltre in maniera definitiva qualora l’uomo abbia compiuto il cammino di conoscenza misterico-iniziatica.

A fronte di questo dire che l’Orfismo è pessimista è pertanto davvero difficile. Tuttavia è intanto evidente anche la sua visione totalmente pessimistica della corporalità immanente, e quindi allo stesso modo di tutto ciò che è mondo, nascita ed esistenza.

Raphael chiarisce però che si tratta di un pessimismo che (a confronto ad esempio con quello gnostico) è solo relativo.11

E ciò avviene perché l’immanenza corporale viene considerata un fenomeno del tutto necessario entro la dinamica ciclica della Manifestazione del Principio che poi ritornerà a sé stesso in quanto Uno assoluto.

Su questa base, pertanto, l’Orfismo concepisce senz’altro una legittima “fuga dal mondo”, al modo del Platonismo così come anche della Gnosi – e che in qualche modo coincide con la morte stessa (sia fisica che iniziatica) −, ma in un senso affatto distruttivo e nichilistico, bensì invece in un senso unicamente costruttivo e positivo.

Infatti alla necessità dell’immanenza corporea corrisponde precisissimamente la necessità del movimento di Ritorno all’Uno, il quale nel caso dell’uomo assume l’aspetto franco e intelligibile di un vero e proprio ritorno in Patria.

Ecco allora che, pur tenuto conto del suo tendenziale pessimismo, in alcun modo la visione orfica autorizza la dimensione nichilistica dell’ultimità ontologica assoluta della morte, che abbiamo visto delinearsi entro l’esistenzialismo heideggeriano.

Ma ora passiamo al libro di Ricoeur, nel contesto del quale potremo trovare senz’altro una trattazione decisamente negativa e distruttiva del fenomeno della morte.
Ebbene, la domanda in termini di metodo è la seguente: − possiamo o non possiamo servirci anche di una siffatta trattazione filosofica?

Ora, in base alla complessiva visione appena illustrata, appare evidente che presso Orfeo il fenomeno della morte sfugge largamente alla dimensione del male che è connessa all’immanenza terreno-corporale e mondana.

Così avviene di certo anche nel Cristianesimo, sebbene (come abbiamo visto) in esso è sicuramente più accentuata l’identificazione della mortalità con la condizione ontologica causata dalla Caduta e dal Peccato (ossia da quella colpa originaria che anche l’Orfismo concepì in maniera molto esplicita).

In questo senso si può dire allora che nelle due dottrine l’ultimità della morte costituisce una sorta di valvola di sfogo metafisico-religiosa a quella complessiva valutazione negativo-pessimistica dell’essere immanente che è obbligata ad includere anche il fenomeno della mortalità.

E proprio in tal modo possiamo ritrovarci su un confortante piano filosofico entro il quale non siamo affatto obbligati a identificare morte e mortalità, come invece abbiamo visto fare ad Heidegger.

Ora, una volta tradotto tutto questo in una visione etica dell’essere, appare evidente che Orfismo e Cristianesimo predispongono tutti gli strumenti filosofico-metafisici per evitare l’identificazione della morte con il fenomeno del male.

E proprio questo ci permette di attribuire alla morte un senso positivo che essa altrimenti non potrebbe in alcun modo avere. Bene, il libro di Ricoeur non parla affatto della morte (se non incidentalmente).

Però esso parla del male in una maniera così incisiva ed implacabile, da porlo come un’evidenza oggettiva alla quale nessun discorso filosofico-metafisico può sfuggire senza fare la pessima figura di rivelarsi una vuota ed affatto veridica retorica (se non una truffa).

E quale evidenza oggettiva maggiore vi è nel nostro esistere visto che l’adagio popolare la pone addirittura al di sopra della nascita stessa: − “Sicura è solo la morte!”?
Pertanto anche se Ricoeur si limita a identificare il certissimo male terreno-esistenziale appena con la sventura, il dolore, la violenza subita (a qualunque titolo), comunque è come se egli includesse in questo anche la morte.

Se infatti le esperienze menzionate (sventura, dolore e violenza subita) rappresentano in pieno la rovinosa sconfitta e caduta dell’uomo, cosa può essere più simile a questo se non la morte?

Orbene, se accettiamo questa equivalenza, potremo allora confrontare alcune parti del discorso orfico (riportato da Raphael) con alcune parti del discorso ricoeuriano sul male.

In effetti l’Orfismo non manca certo di porre il male, visto che considera la corporalità come effetto di una colpa originaria che fa sprofondare l’anima nella prigione-tomba del corpo.

E lo stesso fa senz’altro anche il Cristianesimo.

Ma il pensiero di Ricoeur si inserisce come un implacabile cuneo proprio entro questa complessiva dottrina, criticandola da svariati punti di vista e identificandola in generale con una razionalizzazione del male (“spiegazione”, o ricognizione del “perché?”) che iniziò già nel mito (quindi anche in pieno Orfismo) per passare poi attraverso la radicalmente ottimistica “onto-teo-logia” agostiniana, la radicalmente pessimistica dottrina gnostica, ed approdando infine alla “teodicea” per eccellenza, e cioè quella di Leibniz.12

L’essenza della teodicea sta quindi per Ricoeur esattamente in un pensare che non ha alcun diritto di tentare di ridurre l’evidenza oggettiva del male attraverso la sua riconduzione ad una necessità razionale o anche etica.

E questo è quello che fanno tutte le dottrine appena citate. Sebbene secondo lui quella più attrezzata filosoficamente (cioè basata su una logica rigorosa) sia stata quella leibniziana.

Ma uno degli aspetti principali di tale critica è proprio il tentativo di equiparare il male con un elemento di tipo etico ed anche infine giuridico, ossia quella colpa che esige inevitabilmente una punizione.

Si tratta insomma di quella dottrina della “retribuzione” che per Ricoeur trovò il suo abbozzo proprio nel mito orfico e che poi sarebbe stata sviluppata appieno dalla Gnosi, specie nel corso della sua polemica contro l’ottimismo assoluto agostiniano.13

Secondo Ricoeur non c’è nulla di più assurdo per due motivi:

1) perché i due elementi posti in relazione (male e colpa-punizione) sono ontologicamente del tutto eterogenei;

2) perché il male più vero non è affatto quello agito (per il quale vi è un responsabile volontario, come nel caso del peccato e della colpa) ma è invece quello subito; e peraltro esso è ancora più eclatante allorquando la vittima è totalmente innocente.

Egli chiama in causa per il giusto-innocente la figura di Giobbe.14

E a quest’ultimo l’autore della postfazione, Paolo de Benedetti, aggiunge molto opportunamente i bambini chiamati in causa entro il famoso discorso di Ivàn nei Karamàzov di Dostoevskij.15

Insomma gli aspetti principali della tesi affermata da Ricoeur rispetto al male possono venire così riassunti:

1) Il vero male è non è affatto quello colto come oggettivo in quanto ontologico nel senso indicato dal mito e dalle dottrine etiche (Gnosi ed onto-teo-logia specie agostiniana), e cioè quello risiedente nelle radici trascendenti della natura umana (Origine);

peraltro nella forma di una responsabilità attiva e volontaria negativa che richiede poi inevitabilmente una retribuzione negativa.

2) Il vero male è invece quello colto come oggettivo in quanto ontologico nel senso riconoscibile (ed effettivamente riconosciuto) entro l’esperienza comune quotidiana, e che in filosofia solo la “fenomenologia” accetta come tale.16

3) Il male così colto è unicamente quello subito (mentre quello agito rientra in un ambito etico-giuridico che travalica ampiamente la realtà nuda e cruda del fenomeno).

4) Il pensiero del male (teodicea) è di certo autorizzato a sforzarsi di concepire sempre “meglio” il male stesso, ma intanto deve comunque ammettere che l’essenza ultima del fenomeno consiste nel fatto che esso è e resta assolutamente inspiegabile.17

5) Dopo secoli e secoli di teodicea (prima mitico-metafisica, poi teologico-metafisica e solo alla fine davvero filosofica), la parola è passata oggi definitivamente ad una “teologia spezzata” (rappresentata specialmente da Karl Barth e Paul Tillich) la quale ha rinunciato definitivamente a qualunque spiegazione del male;

e lo ha fatto uscendo finalmente dalla classica argomentazione della teodicea (Il Dio onnipotente e buono non può essere logicamente conciliabile con l’esistenza oggettiva del male, e quindi di fatto il male non esiste nel mondo creato) e limitandosi così ad affermare che, se Dio è l’Essere (e quindi il Bene), il Male è invece il puro Nulla, e quindi esso non può avere alcunché a che fare con Dio.18

Ebbene, una volta ammesso tutto questo, verrebbe definitivamente spazzato via il criterio che abbiamo creduto di poter riconoscere nel concepire filosoficamente la morte nel modo che ci era sembrato più opportuno, ossia il criterio del “perché?”.

Ricoeur afferma infatti che proprio tale criterio espone alla peggiore delle aporie generate dalla teodicea, ossia quella imposta dall’inoppugnabile esistenza del male nel mondo dell’esperienza.

A questo punto, quindi – una volta equiparata la morte con il male sulla base di Ricoeur –, noi non potremmo più in alcun modo affermare che la morte si lascia ultimamente comprendere (in quanto fenomeno ultimissimo) in forza di un determinato genere di filosofia.

Dovremmo insomma fare come Ricoeur e dire (come hanno fatto i più recenti teologi) che la morte, essendo di fatto riducibile alla mortalità (se davvero vogliamo essere autentici, ossia onesti), è e resta qualcosa di totalmente inspiegabile, e pertanto non perde assolutamente nulla della sua oscurità agghiacciante per mezzo della riflessione filosofica.

Ma in tal modo non ricadremmo forse nella stessa nichilistica e distruttiva visione che è stata inaugurata da Heidegger?

Insomma, è di certo davvero lodevole lo sforzo di Ricoeur di porre gli uomini davanti al fenomeno del male senza cercare da nessuna parte una dottrina che lo giustifichi (riuscendo in tal modo solo ad occultarne colpevolmente l’evidente esistenza).

E ciò vale senz’altro più che mai anche per la morte. Tuttavia, se le conclusioni di tale discorso sono quelle appena accennate, come possiamo noi servirci di un siffatto pensiero della morte senza correre il rischio di fare la fine dei porci evangelici indemoniati, ossia la fine causata dal dover correre tutti verso l’abisso?

Ancora una volta, insomma, appare evidente che una visione negativo-distruttiva non può affatto servirci ad affrontare la morte con l’aiuto della filosofia.

Può servirci sì ad avere della morte una visione estremamente realistica. Ma questo ci aiuta davvero sul piano pratico, ossia ci rende davvero capaci di affrontare la morte in maniera più serena, forte e coraggiosa?

A mio avviso la risposta è decisamente no!

Certamente a questo punto si potrebbe chiamare in aiuto molto direttamente la visione cristiana della morte, che culmina nel davvero possente paolino «Morte dov’è il tuo aculeo?»

E probabilmente questa è l’unica strada per affrontare positivamente un fenomeno così terrorizzante a causa della sua totale portata nullificante. Tuttavia non voglio qui fare apologia cristiana ma invece voglio fare solo filosofia. E quindi mi limiterò a ricordare le soluzioni positive che finora siamo riusciti a trovare insieme in questa dissertazione.

Tuttavia, oltre a ciò, penso che valga la pena di prendere in considerazione la conclusione davvero sublime del commentatore di Ricoeur prima menzionato, cioè Paolo De Benedetti.

«Sì», egli sembra dire «il male è davvero inevitabile in quanto è oggettivamente terreno e quindi è esperienziale.

E pertanto non vi è teodicea che tenga di fronte ad esso.

Quindi dobbiamo avere il coraggio di arrivare in questo davvero alle estreme conseguenze, e cioè ammettere perfino la stessa responsabilità di Dio nel male».

Siamo insomma agli antipodi della teodicea e il discorso potrebbe sembrare a prima vista ancora più negativo e aberrante di quelli negativi che finora abbiamo preso in considerazione (in Heidegger e Ricoeur).

Ma non è così.

Lo studioso sostiene infatti una tesi davvero singolare ed estremamente suggestiva, secondo la quale Dio è fatalmente compromesso nel male del mondo per il semplice fatto di aver troppo amato, e quindi per aver accettato di creare un mondo (in assenza del quale l’uomo nemmeno sarebbe mai esistito) dal quale Egli realmente (ma a torto) si aspettava il meglio.

Si tratta insomma del «vide che era buono» affermato nel Genesi. Ma così non fu, e Dio stesso ne restò sorpreso.

Nel mondo infatti germogliava irresistibile il male. Pertanto non vi sarebbe stata per Dio altra soluzione che ricorrere alla Collera, ossia alla Potenza (rinunciando così all’Amore), e distruggendo così una volta per tutte mondo ed essere.

Ma Dio non ha voluto scegliere questa strada (come ben mostrato nell’episodio biblico di Sodoma e Gomorra).

E tuttavia lo ha fatto ben sapendo che in questo modo avrebbe dovuto dichiarare il suo stesso fallimento.

La teoria cabbalistica della “rottura dei vasi” e del “zimzum”, ossia il collassare di Dio davanti al creato– che giustamente lo stesso De Benedetti ci ricorda –, non fa altro che affermare proprio questo.19

Dio è insomma direttamente coinvolto nel male e nel fallimento della creazione. Ma lo è perché ci ha infinitamente amato ed inoltre perché non ma mai potuto cessare di farlo. Nonostante il male oggettivo!

Ed allora, ci suggerisce l’Autore – nel dover rinunciare per sempre a qualunque teodicea e nel dover ammettere definitivamente che il male del mondo esiste ed è senza rimedio – a noi non resta altro che l’atto d’amore di comprendere le ragioni divine e la loro profonda innocenza.

Il che peraltro (aggiungo io) dovrebbe permetterci anche di capire che non è affatto retorica quando si dice che Dio ci è vicino nel dolore anche se non fa nulla per togliercelo. Ma ammetto anche che affermare questo è la maggior parte delle volte assolutamente impossibile a noi uomini.

Insomma abbiamo detto proprio tutto. Ma mancano ancora delle brevissime conclusioni. Ed il loro punto di partenza può essere costituito proprio dalle stupende considerazioni di De Benedetti.

Abbiamo esplorato (a sufficienza e, credo, anche con successo) la possibilità di attribuire un senso positivo alla morte. Ed abbiamo anche visto che, per raggiungere questo scopo, possiamo effettivamente far uso di un certo tipo di filosofia.

Abbiamo anche scansato gli ostacoli formidabili che, su questa strada, vengono frapposti da poderosissimi pensatori dell’autenticità come sono Heidegger e Ricoeur.

Potremmo dunque affermare che abbiamo raggiunto il nostro scopo e così «chiudere il libro» prima di cadere in qualche altro formidabile agguato filosofico.

E tuttavia un’argomentazione come quella di De Benedetti ci mostra come l’autenticità non è poi sempre una facoltà che debba venire impiegata solo in modo negativo, e quindi non è necessariamente un vizio.

Essa può invece essere anche una virtù, e pertanto può venire impiegata anche positivamente. Quindi, proprio come tale, io vorrei provare ad impiegarla in queste conclusioni.

Ecco come.

La valenza positiva che abbiamo attribuito dalla morte è certamente pensante, e quindi è per definizione qualcosa che può avvenire solo al di fuori dell’esperienza concreta e personale del morire.

È infatti assurdo pensare che nel momento dell’agonia, noi possiamo sentirci in qualche modo confortati dall’essere riusciti prima a sapere «perché devo morire?».

Pertanto quella che sembra un’esperienza finale, una volta trasposta sul piano filosofico, si rivela invece non esserlo affatto. Essa cioè non sarà a priori, ma certamente non è nemmeno per davvero a posteriori.

Insomma è qualcosa che può avvenire solo prima della morte, ossia molto prima che noi entriamo nel territorio agghiacciante della sua concreta esperienza.

Ebbene, forse è proprio qui che ci viene incontro l’autenticismo di De Benedetti.

Noi stiamo ora nel pieno dell’esperienza della morte, e sappiamo bene che a nulla possono valerci le elaborazioni filosofiche che tempo prima avevamo fatto di essa. Sappiamo insomma più che mai che ora, in questo estremo momento, a nulla ci varrà il sapere «perché devo morire?».

Noi sappiamo infatti ora una sola cosa: − «Io devo morire!». È ormai un imperativo e, come tale esso non può in alcun modo aggradarci.

Pertanto abbiamo le nostre buone ragioni se in questo momento esatto noi imprechiamo contro Dio accusandolo di essere inevitabilmente coinvolto nel male, nella morte ed infine nel male come morte.

Ci troviamo insomma nel pieno di quella “doglianza” che giustissimamente Ricoeur ritiene essere la risposta più giustificata dell’uomo al male.20

Tuttavia De Benedetti ci viene qui incontro permettendoci di comprendere che questo «dover morire» non ci obbliga affatto ad odiare Dio. Anzi al contrario dovrebbe motivarci ad amarlo ancora di più.

Non a caso è proprio in questa circostanza che ci può apparire meno retorica che mai l’affermazione secondo la quale, nel momento in cui noi soffriamo, Dio è lì con noi soffrendo nel mentre occupa il nostro stesso posto (e così quasi ambisce a sostituirci nella sofferenza).

Nessuno come Lui infatti ha vissuto in pieno l’esperienza del «dover morire» − era un dio e non un uomo, eppure ha dovuto morire esattamente come un uomo!

Eccoci insomma davvero al dunque – sì certo è necessario comprendere «perché» devo morire, ma è anche necessario comprendere «che» devo morire.

E chissà se il vero «perché» del morire non stia proprio in questa estrema cancellazione di ogni perché, che solo il «devo» può determinare?

Sta dunque forse proprio qui l’ultimità più ultima – essa sta forse nel «devo» una volta intimamente connesso al «morire».

Può essere solo questo il vero ultimo atto, ossia quello a partire dal quale io posso davvero comprendere tutto, tutta la mia esistenza.

Ed è evidente che esso si trova già ben aldilà del pensare sensibile, ossia quello legato al mio solo apparente Io. Si tratta insomma evidentemente del pensare di quel mio vero Io che abbiamo constatato essere la vera forza causale determinante la mia stessa nascita.

Ecco allora che la pienezza dell’autenticità (quella virtuosa e quindi costruttiva) può stare forse solo nella (finale ed insieme totale) congiunzione tra «Io» «devo» e «morire», ossia nell’«Io devo morire».

Ed è evidente che nessuno di noi potrà divenire consapevole di questo se non nel davvero ultimo attimo della propria vita. Prima ciò è del tutto impossibile. Anzi è insostenibile.

Pertanto questo «Io devo morire» fa decisamente impallidire anche la stessa risposta alla domanda circa il «perché devo morire?».

E dunque deve stare esattamente qui il vero nucleo della trattazione appropriatamente filosofica del fenomeno e tema della morte.

La famosa preparazione filosofica alla morte deve evidentemente essere capace di edificare proprio questo – la capacità di stare metaforicamente per davvero in piedi davanti al momento terribile dell’«Io devo morire».

Si tratta infatti più precisamente dell’ «Ora! È ora, proprio ora, che io devo morire!».
Molto probabilmente è proprio a questo che Orfeo si riferiva in quella preparazione misterico-iniziatica che non a caso includeva un’esperienza fattiva di morte.

Ecco, queste riflessioni cadono in un’epoca storica in cui di colpo, e senza che nessuno di noi se lo aspettasse, l’«Io devo morire» è diventato qualcosa di non solo concreto ma anche comune.

Il che non è avvenuto solo nell’esperienza effettiva ma anche (e soprattutto) nella fantasia eretta su questa esperienza da parte di moltissime persone.

Sto parlando dell’esperienza storica della crisi Covid-19, estremamente attuale.

Eravamo tutti cresciuti in una società nella quale la lunga pace e la potenza tecnologica avevano reso la morte un intoccabile tabù; qualcosa che non si doveva né menzionare né nemmeno pensare, qualcosa di assolutamente impossibile ed impensabile.

Ed ecco che uno stupidissimo virus – ma soprattutto l’assolutamente sproporzionata enfasi mediatica eretta inspiegabilmente intorno ad esso – ha gettato il totale scompiglio in questa certezza, o meglio l’ha distrutta totalmente. Ed il bello (o meglio il brutto) è che ciò sta accadendo molto più nella fantasia che non nella realtà.

Accade insomma che una legione di ipocondriaci e maniaci ossessivo-compulsivi è venuta alla ribalta e ha assunto il comando della società.

E lo ha fatto esigendo imperiosamente una ed una sola cosa: − che tutto e tutti si pieghino alla loro insopprimibile aspettativa di non venire uccisi dal virus, cioè di non dover morire in alcun caso e secondo nemmeno la più infinitesima probabilità.

E si badi bene che si tratta non tanto del virus reale, quanto invece molto più del virus fantasioso.

Ebbene, quale maggiore e più possente contraddizione dell’«Io devo morire!» vi può essere se non questa?

E quindi, per tutto quello che abbiamo finora detto, quale maggiore e più possente negazione dell’attribuzione di senso alla morte vi può essere se non questa?
Abbiamo detto che l’attribuzione di senso alla morte è pienamente possibile.

Ma la storia attuale ci sta dimostrando che la sua forma più estrema, in quanto più autentica, ci viene di fatto preclusa dalla patologia sociale profondissima della quale tutti poco a poco ci siamo ammalati.

Insomma la filosofia (almeno di un certo genere) potrebbe non poco aiutarci ad affrontare il momento terribile della morte.

Ma le circostanze degenerative in cui viviamo ci rendono impossibile perfino questo.
E quindi a noi poveri moderni restano solo quattro alternative:

1) rinunciare totalmente a dare un senso alla morte, continuando così miserevolmente a tentare di occultarla quanto più a lungo possibile;

2) opporci tenacemente al valore della conoscenza-esperienza dell’«Io devo morire!», invocando altrettanto miserevolmente la potenza tecnologica che intanto truffaldinamente ci offre l’immunità da tale esperienza;

3) ricorrere alle false trattazioni filosofiche della morte che ci vengono offerte dai moderni retori-divulgatori;

4) arrenderci alla moderna trattazione nichilistico-filosofica della morte e fare ad essa seguire i fatti (con il suicidio) oppure progettare di farlo prima o poi.

Io non pretendo certo di possedere la verità, ma, con questa riflessione mi sono sforzato perlomeno di offrire una qualche alternativa ad un siffatto totale sfacelo.

 

 

 

Note

1. Cfr. P. Ricoeur, Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia, Morcelliana, Brescia 2015.

2. Cfr. R. Guénon, Il Regno della Qualità ed i segni dei tempi, Adelphi, Milano 2006; G. Vallin, Via di gnosi e via d’amore, Victrix, Forlì 2012.

3. M. Heidegger, Essere e Tempo, Longanesi, Milano 1976, I, II, I, 45-53, pp. 283-324.

4. Cfr. Raphael, Orfismo e Tradizione iniziatica, Āśrām Vidyā, Roma 2004.

5. Ivi, pp.35-46.

6. Ivi, pp.47-55.

7. Ivi, pp.78-84.

8. Ivi, pp.21-30.

9. Ivi, pp. 57-63.

10. Ivi, pp.85-112.

11. Ibidem

12. Ricoeur, cit., I-II pp.11-46.

13. Ivi, II, 1-3, pp. 17-38.

14. Ivi, pp. 7-9, I pp. 11-15, I, 2 pp. 20-23.

15. Ivi,  pp. 59-76.

16. Ivi, pp.7-9.

17. Ivi, III pp. 47-56.

18. Ivi, II, 5 pp. 41-46.

19.Crf. J. D. Dunn, Window of the Soul.The Kabbalah of Rabbi Isaac Luria, Weiser Books, San Francisco 2008; G. Scholem, La cabbala, Mediterranee, Roma 1982.

20. Ricoeur, cit.,I pp. 11-15, II pp. 17-46.

 

 

 

 

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