Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Il Coronavirus e la peste del 1656

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Corsi e ricorsi storici avrebbe scritto Giambattista Vico. La storia del Coronavirus sembra riportarci indietro di secoli, cancellando esperienze che avrebbero dovuto insegnare tanto. Ma non è stato così.

Per dieci giorni cruciali durante i quali l’epidemia era già in atto, le autorità di Pechino hanno sottovalutato e nascosto informazioni.

Gli scienziati avevano già identificato la natura del virus, ma i funzionari continuavano a tenere banchetti per il capodanno e arrestavano chiunque tentasse di allertare la popolazione.

Risultati ad oggi: dodicimila contagiati e 259 morti, ma sono numeri destinati a salire.

L’epidemia è divenuta pandemia, diffondendosi velocemente dall’Europa all’America, Italia compresa, dove il virus non ha tardato ad arrivare con conseguenze se non allarmanti, certamente preoccupanti.

Da Wuhan in Cina, epicentro del contagio, sono stati evacuati i cittadini stranieri tra cui 69 italiani che saranno sottoposti ad un periodo di osservazione sanitaria e isolamento di 14 giorni, affidati alle cure del personale medico militare.

 

Insomma, tutto il mondo è in emergenza sanitaria: quarantene, voli sospesi, caccia ai contagiati. Crescono allarmismo e fake news. Numeri e informazioni discordanti rimbalzano in rete, alimentando preoccupazione e forme di razzismo nei confronti degli asiatici  ritenuti pericolosi “untori”.

In effetti, se di colpevoli vogliamo parlare, essi vanno ricercati nelle autorità cinesi che hanno indugiato per oltre dieci giorni a mettere in quarantena l’epicentro del contagio. Dieci giorni, cruciali, nel corso dei quali l’epidemia era già in atto, ma durante cui Xi Jinping e gli altri esponenti del partito comunista hanno pensato bene di arrestare chi diffondeva "false voci" sull'epidemia e ciò ha permesso al contagio di espandersi a macchia d’olio.

A questo punto la storia si ripete. Si, perché a distanza di ben quattro secoli, le autorità cinesi hanno ripetuto scene già vissute a Napoli durante la peste del 1656.

Fu quello  per Napoli un anno terribile. Secondo alcuni testimoni di quel tempo, furono dei soldati spagnoli provenienti dalla Sardegna a portare il morbo nella città ai primi giorni di gennaio.

Uno di essi fu ricoverato nell’ospedale dell’Annunziata, dove gli venne diagnosticata la peste dal medico Giuseppe Bozzuto, ma quando costui diede l’allarme, fu imprigionato e messo a tacere perché, a parere del vicerè García de Avellaneda y Haro, Conte di Castrillo, il medico aveva diffuso notizie false.

Bozzuto morì di peste in carcere, ma i suoi colleghi, onde evitare di finire anch'essi imprigionati, non denunciarono la malattia, tantomeno provvidero a distruggere tutto ciò che era appartenuto ai deceduti.

E così il morbo si diffuse rapidamente  e con esso le credenze sulla sua origine: secondo alcuni erano stati gli spagnoli a portare la peste in città per punire i napoletani per la sommossa del ’47 capeggiata da Masaniello. Secondo altri la punizione era divina, ed a questa si aggiungeva la profezia di un nuovo diluvio universale e della fine del mondo con il passaggio della cometa del 1653.

Grave colpa delle autorità vicereali fu quella di permettere un massiccio esodo da Napoli verso le province. Almeno una terza parte della popolazione era fuggita, contribuendo al diffondersi dell’epidemia in ogni terra del Regno.

Solo negli ultimi dieci giorni di maggio l’epidemia fu ufficialmente riconosciuta e fu costituita una Deputazione della Salute.

Tra i primi provvedimenti  fu istituito un cordone sanitario con la proibizione per chiunque di entrare o uscire da Napoli senza i “bollettini di sanità” firmati dai Deputati della salute.

Risultato: quattrocentosessantamila vittime.

Spostiamoci adesso di quattro secoli e ripensiamo a quanto sta avvenendo oggi. E’ difficile non cogliere similitudini e scorgere tra i virologi la maschera del medico della peste.

Gli errori del passato avrebbero dovuto insegnare qualcosa, ma invece continuano a ripetersi a dispetto del progresso e della scienza.

 

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