La guerra per il Mezzogiorno. Italiani, borbonici e briganti 1860-1870
La storiografia in senso e proprio e la letteratura divulgativa sul brigantaggio postunitario hanno raggiunto dimensioni sterminate, nell’ordine delle molte migliaia di titoli, tuttavia larga parte di questa produzione è di scarsa, talora addirittura nulla, qualità, perché formata da una pubblicistica dilettantesca. Esistono beninteso anche numerosissimi studi d’indubbio valore: monografie su determinati episodi; biografie di singoli briganti; ricerche su specifiche aree geografiche, come la Calabria o l’Abruzzo; analisi statistiche quantitative sulle vittime del brigantaggio, sul numero di briganti od altro; saggi sulla mobilitazione legittimista contro il regno d’Italia; testi giuridici sulla legislazione contro il banditismo; ricerche sociologiche sulla composizione sociale delle bande etc. Nonostante una produzione torrenziale, scarseggiano però i saggi d’insieme sul brigantaggio dopo l’Unità, che sono decisamente rari.
L’opera di Franco Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, pubblicata a Milano nel 1964, è rimasta per più di mezzo secolo la migliore sintesi sul tema per ampiezza d’indagine e quantità di fonti d’ogni sorta esaminate (archivistiche, memorialistiche, cronache locali etc.), abilità nell’analisi della politica italiana di quegli anni. È invece discutibile l’interpretazione del brigantaggio. A detta di questo autore, studioso marxista, il brigantaggio postunitario sarebbe stato fondamentalmente una manifestazione di lotta di classe dei contadini contro i proprietari terrieri e la borghesia in generale, sebbene una fazione del ceto dominante d’idee legittimistiche avrebbe cercato di controllare e sfruttare il fenomeno per una restaurazione borbonica. I connotati propriamente politici del banditismo, dovuti alla sua strumentalizzazione dalla vecchia classe dirigente borbonica, durarono però poco, all’incirca per il 1861 potendosi prendere la morte di José Borjes avvenuta l’8 dicembre di quell’anno quale data simbolica della sua conclusione, e furono superficiali. L’azione delle bande si sarebbe tradotta quindi per lo più in criminalità e terrorismo anarcoide. Nonostante il saggio del Molfese rimanga a tutt’oggi, a 55 anni dalla sua pubblicazione, uno studio notevolissimo, esso risulta essere inevitabilmente invecchiato. Sebbene i dati fattuali e la ricostruzione evenemenziale permangano sostanzialmente validi, l’analisi e l’interpretazione evidenziano talora errori e limiti anche gravi. È in particolare l’ipotesi del brigantaggio quale rivolta contadina ad essere stato duramente contestato a partire dagli anni ’80 dello scorso secolo ed ad essere smontato e confutato da un’ampia messe di studi, in contemporanea alla critica dell’analogo paradigma di social bandit formulato da Eric Hobsbawm. È altamente apprezzabile pertanto che il 2 maggio di questo 2019 sia uscito un saggio sul brigantaggio, La guerra per il Mezzogiorno. Italiani, borbonici e briganti 1860-1870 (C. Pinto, Bari-Roma 2019) che si propone di ricostruire un quadro complessivo del banditismo postunitario e che è capace per livello qualitativo e dovizia documentaria di rimpiazzare l’ottimo ma invecchiato Molfese. Il suo autore, il professor Carmine Pinto dell’università di Salerno, ha dedicato buona parte della sua più che ventennale attività accademica alle problematiche del brigantaggio e di questioni ad esso collegate. La sua ponderosa e complessa monografia sul brigantaggio ha richiesto da sola nove anni di lavoro. Si tratta quindi della sintesi di un ventennio di ricerca storica sul tema. La guerra per il Mezzogiorno. Italiani, borbonici e briganti 1860-1870 è un grande affresco d’insieme del brigantaggio dopo l’Unità, di cui ricostruisce tutte le componenti fondamentali, ordinandole ed inserendole in un contesto innervato alla storia politica e della mentalità. Il saggio interpreta il banditismo postunitario in un quadro allargato socialmente, geograficamente e cronologicamente. Il professor Pinto giustamente ricorda che il brigantaggio nel Meridione era un fenomeno plurisecolare e largamente diffuso, che nonostante la sua natura essenzialmente criminale poteva anche assumere una qualche coloritura politica ed essere impiegato come proprio braccio armato da fazioni rivali. Questo accadeva fin dal secolo XVI e dal feudalesimo (il “banditismo nobiliare”), per cui la formazione di un esercito come quello della Santa Fede del cardinale Ruffo, reclutato attingendo a carcerati, briganti, emarginati sociali etc. non fu una novità assoluta. Gli eventi del 1798-1799 lacerarono la società meridionale e la divisero in due parti tra “reazionari” e “rivoluzionari”, in un conflitto che durò per quasi un secolo in forma endemica e che periodicamente si acutizzò, come avvenne nel Decennio francese, nel 1820-1821, nel 1848-1849 e naturalmente nel 1860 e negli anni successivi. La guerra fra il regno delle Due Sicilie e quello di Sardegna non fu soltanto fra due stati, ma fra due modelli politici ed universi culturali e simbolici ambedue radicati nel Meridione, per cui il rapido collasso dello stato borbonico non la concluse. Francesco II e la sua corte in esilio, l’alto clero del Mezzogiorno, l’aristocrazia legata ai Borboni cercarono una rivincita appoggiando il tradizionale banditismo rurale. I manovratori occulti dei briganti furono difatti i vecchi borbonici con loro comitati segreti, che si prefiggevano d’abbattere lo stato costituzionale, liberale e nazionale. Le bande vennero adoperate strumentalmente dai borbonici e dal loro reticolo cospirativo nello sforzo illusorio di riuscire a ripetere l’impresa del cardinale Ruffo. Questo determinò un conflitto, che oggigiorno sarebbe detto di tipo asimmetrico, fra lo stato italiano e le bande. Un ruolo importante o proprio decisivo nella lotta al brigantaggio fu però svolto dalla Guardia nazionale e dalle squadriglie di volontari, ambedue formate da civili meridionali che prestavano servizio volontariamente e che affiancarono i reparti dell’esercito regolare italiano. La lotta contrappose pertanto per un’ultima volta reazionari e rivoluzionari nella società del Mezzogiorno, per cui non fu soltanto quella fra l’organismo statale italiano ed i banditi. Entrambi i contendenti poi erano appoggiati politicamente da stati e gruppi politici esteri, la cui azione fu rilevante specie nel sostegno al legittimismo borbonico con l’arrivo di volontari nell’esercito di ventura arruolato da Francesco II al riparo della Roma pontificia, protetta dalle armi francesi. Confluirono pertanto negli anni del “grande brigantaggio” una serie di linee storiche e di conflittualità: il conflitto tra legittimismo e liberalismo a livello europeo; la lotta fra autonomisti napoletani e nazionalisti italiani; la dicotomia fra borbonici e rivoluzionari creatasi nel Sud dalla fine del ‘700; rivalità di fazione, di famiglia, individuali nei singoli paesi. Lo scontro aveva quindi una dimensione internazionale, nazionale, sezionale e locale tutte assieme, che interagivano reciprocamente. Questo però determinò lo scenario in cui le bande agirono, mentre i briganti considerati come tali solitamente erano definibili quali criminali, essendo principalmente una mescolanza di banditi di professione, carcerati evasi dalle prigioni, sbandati ed avventurieri in cerca di bottino. Il fenomeno brigantesco dopo il 1860 accompagnò pertanto caratteristiche assieme politiche e delinquenziali, giacché esso era manipolato e sostenuto da occulti comitati legittimistici, ma costituito da persone, autentica manovalanza della violenza, che avevano loro motivazioni individuali ed apolitiche, anzitutto economiche. La politicizzazione del brigantaggio fu quindi anzitutto esterna ad esso, ovvero dovuta al suo utilizzo come longa manus dei comitati borbonici, convisse con pratiche puramente criminali ed ebbe anche breve durata, perché già a partire dal 1863 il banditismo riprese sempre di più la sua natura delinquenziale tradizionale. È da scartarsi invece la veneranda ma obsoleta ipotesi del brigantaggio quale guerra di classe o rivolta contadina, accettata da una lunga schiera di autori come il già citato Molfese, Tommaso Pedio, Aldo De Jaco e molti altri, però mai provata e sempre sostenuta su base ipotetica e con elucubrazioni ideologiche. Osserva ineccepibilmente Pinto al riguardo, sulla scorta d’una amplissima documentazione: «Il sistema di sostegno di cui beneficiarono fu trasversale ai ceti sociali e ai gruppi territoriali e largamente ispirato da nobili, religiosi e notabili borbonici, ma non furono mai capaci di provocare una grande rivolta […] per non parlare di una guerriglia contadina a sfondo sociale. […] in nessun caso emerse un conflitto più ampio, in cui i briganti si presentarono in un qualche modo come rappresentanti di ceti bassi contro gruppi dominanti. La guerra che scatenarono alla nazione coinvolse i contadini come collaboratori, o come vittime, mai come rivoluzionari. Anzi, gran parte delle loro azioni colpivano proprio i contadini più di altri ceti […] . Le masse contadine non furono protagoniste di sommosse sociali.» La guerra al brigantaggio fu, dunque, un conflitto di entità relativamente limitata, poiché il numero di briganti in tutto si aggirò attorno ai ventimila circa ed inoltre le bande erano abbastanza inefficienti sul piano propriamente militare. La repressione fu resa difficile dal fatto che le bande abitualmente non cercavano affatto lo scontro con i reparti del Regio esercito e tendevano a nascondersi ed evitarli, preferendo invece assalire la popolazione civile di sorpresa. Fu determinante nella sua sconfitta l’adesione della maggioranza della popolazione meridionale al nuovo stato, alla monarchia sabauda ed al patriottismo italiano. Un ruolo cruciale fu svolto quindi dal conflitto culturale fra due opposti discorsi politici, che contrappose l’assolutismo legittimista e l’autonomismo del regno di Napoli al liberalismo costituzionale ed allo stato nazionale italiano. Mentre la propaganda borbonica ebbe scarso successo nella sua riproposizione d’ideali d’Antico regime, quella liberale si conquistò la maggior parte della popolazione del Meridione. Un ruolo indiretto ma importante in negativo fu giocato in ciò dai briganti, che con le loro azioni violente e criminali contro i civili se li resero sempre più invisi. Il brigantaggio considerato in quanto tale è giudicato in La guerra per il Mezzogiorno un fenomeno anzitutto criminale e mercenario, in cui bande di delinquenti erano disposte assieme a perseguire loro fini propri d’arricchimento personale ed a porsi occasionalmente al servizio altrui. Scrive Pinto: «Il brigante si considerava una specie di paramilitare a servizio temporaneo, capace di passare indifferentemente dall’attività criminale alle bandiere del re, per scopi politici e di rapina, […] funzionali nel breve periodo alla sua sopravvivenza, ma del tutto controproducenti […] al momento di costruire una legittimazione alla sua azione.» Molti dati statistici sono riportati nel testo riguardo ai crimini briganteschi. Con la necessaria prudenza imposta da un giudizio storiografico, il saggio del professor Carmine Pinto può essere valutato quale la migliore monografia di sintesi sul brigantaggio postunitario, superiore financo ad un lavoro molto buono come quello del Molfese. Sarebbe d’altronde limitante considerare questo libro come una semplice monografia del brigantaggio, poiché esso approfondisce e collega fra loro anche altri temi, come le cause del crollo del regno delle Due Sicilie, il processo di formazione dello stato nazionale italiano, la mentalità e cultura della popolazione del Meridione, la genesi delle riflessioni sulla questione meridionale. La sua ricchezza di dati evenemenziali, la varietà di argomenti affrontati, la raffinatezza metodologica ed interpretativa, la capacità orchestrale d’armonizzare il tutto in un impianto organico e coerente fanno di La guerra per il Mezzogiorno. Italiani, borbonici e briganti 1860-1870 uno studio di grande rilevanza per la comprensione del Risorgimento al Sud e sotto diversi aspetti imprescindibile. |
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