Napoli, una dolce e pacata tristezza
Son tornato a Napoli, qualche giorno fa. La città mi ha nuovamente mostrato il suo ventre, come faceva quando ero bambino. Mi sono lasciato trasportare dall’andirivieni della sua gente, a Forcella, alla Vicaria Vecchia, alla Sanità, ai Tribunali, ai Quartieri Spagnoli. Sono salito a San Martino, e lì giaceva la città, ai miei piedi, inerme, brulicante, ferita. Sono sceso a Santa Brigida, dove l’antico mercato del pesce – ormai sparito – appariva e spariva alla memoria. Dal mare, con un kajak, ho seguito il tufo giallo della sua costa, dallo Scoglio delle Sirene a Mergellina, fino a Posillipo e alla Gaiola. Sono entrato in profondità nelle sue viscere, in pozzi, cunicoli e cisterne scavati da Greci e Romani per rifornire d’acqua la città. Ho ripercorso a lenti passi il cortile dell’Annunziata, dove giocavano i tanti “figli della Madonna” esposti alla Ruota. Ed è stato lì, in quel cortile, che immagini che credevo sepolte son tornate alla mia mente. Le storielle di improbabili “Munacielli” raccontate da mia madre, i ricordi di mio padre, dei suoi anni alla Federico II, le mani di mia nonna, nata all’Ospedale degli Incurabili nel 1886, due anni dopo il terribile colera narrato da Matilde Serao.
Le pagine del suo libro si sono mescolate con i ricordi del “mio” colera, quello dell’agosto 1973, quando la gente malediva le cozze e chiedeva il vaccino, mentre grosse autobotti imbiancavano di calce e disinfettante i muri e le strade della città. Percorrendo Spaccanapoli mi sembrava ancora di sentirlo, quell’odore. E mi sono tornate alla mente le lancette dell’orologio ferme alle 19.34 di quel 23 novembre 1980, quando il terremoto ha sepolto uomini e ricordi. La mia reazione di allora si è confusa allo stupore e alla rabbia di oggi: hanno ripreso vita le assemblee studentesche di quel lontano novembre, i tazebao nell’atrio di scuola, la raccolta di tende e coperte, i preparativi per partire, per “andare a dare una mano”, come si diceva con gli altri compagni del liceo. A Napoli tutto è azzurro, anche la malinconia. Il suo fascino, il mistero di questa città, è che in ogni angolo che osservi, in ogni cosa che contempli scopri sempre il legame con lo sconfinato orizzonte della malinconia. E a volte è bello sentirsi inseguiti da questa indistinguibile sensazione di dolce e pacata tristezza.
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