Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Scienza e anti-scienza

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Tutti possono constatare che, nel corso degli ultimi decenni, siamo passati dalla fiducia pressoché illimitata nelle conquiste della scienza a un clima generalizzato di diffidenza e di sospetto, che spesso si traduce in veri e propri atteggiamenti anti-scientifici.

A una fiducia totale nelle capacità e nelle scoperte della scienza, si è insomma sostituito un atteggiamento di diffidenza più o mena aperta, che porta a prendere in considerazione soltanto gli aspetti negativi dello sviluppo scientifico. A cosa si deve un simile mutamento di atteggiamento culturale?

Notiamo allora che per scientismo si intende quell’atteggiamento, tipico dei positivisti degli ultimi due secoli, secondo il quale soltanto in ambito scientifico si ottiene vera conoscenza, mentre tutti gli altri campi del sapere umano debbono appunto assumere la scienza quale punto di riferimento imprescindibile.

L’anti-scienza, viceversa, è riconducibile all’atteggiamento per cui il progresso scientifico viene considerato come minaccia sia a una corretta organizzazione della società, sia a uno sviluppo armonico - e, quindi, non unilaterale - dell’individuo. Il fatto è che entrambi questi approcci, come spesso accade alle posizioni di tipo estremista, sono essenzialmente irragionevoli.

 

Quando noi analizziamo una situazione complessa, bisogna essere coscienti della complessità dei fattori che la determinano, delle molte variabili che entrano in gioco.

Ne consegue che, se di una situazione molto polarizzata si prendono in considerazione soltanto gli estremi, ci si pregiudica l’opportunità di una visione complessiva del quadro.

Ecco, quindi, che l’atteggiamento scientista tende ad attribuire a presunti agenti “esterni” le conseguenze negative che talora (ma non sempre, e non automaticamente) accompagnano il progresso scientifico e tecnologico. L’atteggiamento anti-scientifico procede in direzione specularmente opposta, scaricando su scienza e tecnica tutte le colpe degli eventuali effetti negativi. Entrambe le visioni appena delineate sono fondamentalmente scorrette.

Scienza e tecnica, infatti, sono utili per lo sviluppo dell’umanità, ma non sono utili senza condizioni. Esse non vanno né incoraggiate con spirito partigiano e fanatico (come fanno gli scientisti), né bloccate (come vorrebbero fare tutti coloro che aderiscono a un atteggiamento anti-scientifico). Vanno, piuttosto, regolamentate, anche se è difficile trovare la strada per giungere a una regolamentazione che sia, al contempo, giusta e non penalizzante.

Ma che cos’è la scienza? Per rispondere non si deve scordare un fatto fondamentale: qualunque sia l’accezione del termine “scienza” che abbiamo in mente, essa è in primo luogo un’attività di carattere pratico.

Ciò significa che la scienza non è un’entità astratta, bensì il risultato di un insieme complesso di azioni specificamente umane, che mirano: (1) a conoscere il mondo (realtà), e (2) a modificarlo.

Lo scopo essenziale della scienza pura, che è “attività teorica”, è dunque quello di conoscere il mondo.

La scienza pura ricerca la verità; tuttavia non stiamo parlando di verità in senso platonico (e cioé come entità astratta in qualche modo separata dalla realtà), bensì di verità nel senso di scoperta di come stanno le cose. Allo scienziato interessa scoprire come la realtà è fatta, tanto al livello dell’infinitamente piccolo (microcosmo), quanto a quello dell’infinitamente grande (macrocosmo).

Da tutto ciò segue che ogni regolamentazione della scienza pura è contraria agli interessi più vitali dell’umanità, nello spirito dell’Ulisse dantesco. In altre parole, l’uomo è per natura desideroso di conoscere la realtà che lo circonda, ivi incluso se stesso come parte di tale realtà.

Regolamentare la scienza pura significa semplicemente voler regolamentare la verità, e ciò non si può fare. Molti regimi totalitari lo hanno tentato nel corso della storia, ma senza riuscirvi, poiché la verità si prende sempre, prima o poi, la rivincita.

Diverso è, ovviamente, il discorso per quanto riguarda la scienza applicata. Le scoperte scientifiche sono in sé buone, in quanto ci consentono di giungere ad una migliore comprensione della realtà. Tuttavia le conseguenze che da tali scoperte derivano, mediante le applicazioni tecnologiche, possono invece essere buone o cattive: dipende da chi le mette in atto, e con quale spirito.

Ma attribuire caratteristiche negative in assoluto alle applicazioni tecnologiche delle scoperte scientifiche è parimenti errato. Anch’esse sono azioni pratiche, ed è pertanto all’essere umano che le compie che la patente di bontà o cattiveria va riferita.

Ed è proprio in questa dimensione che il discorso sulla regolamentazione della scienza deve essere impostato, con serenità e senza dogmatismi o giudizi aprioristici.

Regolamentare la scienza applicata significa, in sostanza, comprendere che la scienza non ha quale scopo primario l’elaborazione di astratti modelli formali, bensì la risoluzione dei problemi umani. La dicotomia scienza pura/scienza applicata non è rigida: si tratta in realtà di attività interdipendenti e compenetranti. Occorre tuttavia far sì che la regolamentazione non finisca di fatto per ostacolare il progresso scientifico.

In altri termini, non possiamo regolamentare con vincoli troppo rigidi la ricerca in fisica atomica per il fatto che le sue eventuali applicazioni - sia civili che belliche - possono essere pericolose. Analogamente, non possiamo regolamentare con vincoli troppo rigidi la ricerca nel campo dell’ingegneria genetica per il fatto che essa può condurre a effetti perversi.

E’ insito nella stessa impresa scientifica il fattore del rischio: conoscere in modo più approfondito la realtà aumenta da un lato il nostro potere sulla natura, e dall’altro può far sì che tale accresciuto potere dia vita a conseguenze indesiderate. Ma la dimensione del rischio fa parte della costituzione dell’uomo e della sua storia.

Si pensi a cosa saremmo oggi se i nostri antenati non avessero voluto correre rischi, preferendo la tranquillità al dinamismo. Solo gli utopisti pensano che un ritorno al passato ci farebbe rivivere una mitica “età dell’oro” la quale, probabilmente, non è mai esistita.

Alcuni filosofi (anche della scienza) hanno assunto, su questo tema, posizioni che appaiono addirittura specularmente opposte a quelle scientiste del positivismo.

Si pensi a quanto afferma Paul Feyerabend, uno degli epistemologi più popolari dei nostri giorni. In una delle sue ultime opere, Dialogo sul metodo, leggiamo tra l’altro che la conquista della Luna non ha affatto un valore scientifico oggettivo e condivisibile da tutti gli esseri umani, ma ne acquista uno per noi in quanto, nelle nostre società occidentali dominate dalla scienza e dalla tecnologia, siamo stati educati sin dall’infanzia a ritenere importanti le imprese scientifiche. 

Ecco le sue parole:

«Ti riesce di immaginare un profeta o uno dei primi cristiani o anche un medio appartenente alla tribù dei Dogon tanto colpiti da un paio di uomini che incespicano qua e là su una roccia inaridita, quando egli può parlare addirittura con il Creatore? Oppure pensa agli gnostici, ai seguaci della filosofia ermetica o al rabbino Akiba, che potevano indurre le loro anime ad abbandonare il corpo per salire di sfera in sfera, distanziando di gran lunga la Luna, fino a trovarsi di fronte a Dio in tutto il suo splendore. Diamine, gente così sorriderebbe con sufficienza di questa strana impresa, in cui una tremenda quantità di macchinari, migliaia di assistenti, anni di preparazione sono necessari per ottenere che cosa? Qualche salto goffo e disagevole in un luogo che nessun uomo sano di mente vorrebbe vedere da vicino».

Ne consegue, tra l’altro, che tra ciò che noi conosciamo della realtà che ci circonda grazie ai risultati raggiunti della scienza moderna, e ciò che di questa stessa realtà pensa di conoscere una qualsiasi tribù primitiva in base alle proprie credenze magico-animistiche, non sussiste in effetti alcuna differenza sostanziale.

Si tratterebbe di visioni del mondo egualmente legittime e praticabili. Incamminandosi lungo questo sentiero, la nozione di progresso scientifico perde qualsiasi valore.

Ognuno può conoscere il mondo come vuole: se egli decide che la magia è più utile della scienza a questo fine, non spetta a noi convincerlo del contrario. Anzi, bisogna prepararsi all’eventualità che sia lui a convincere noi della superiorità della magia in quanto strumento di conoscenza della realtà.

Ma lo stesso Feyerabend pronuncia alcune parole che ci fanno capire come la sua concezione, al di là delle battute di spirito, alla lunga non regga. Afferma, infatti, che “alcune azioni hanno trovato riscontro, altre non sono mai decollate”.

Ed esattamente questo è il punto in discussione poiché, se prendiamo seriamente queste frasi, allora diventa necessario ammettere che la realtà non reagisce nello stesso modo a tutti i tentativi di sollecitazione.

Alcuni tentativi riescono per il semplice fatto che trovano riscontro nella realtà stessa, mentre altri falliscono perché quel riscontro non lo ottengono affatto. Feyerabend era un relativista, ma il suo relativismo si scontra con il fatto innegabile che alcune tradizioni culturali hanno conseguito risultati nell’indagine del mondo, mentre altre non ci sono riuscite.

Per dirla in modo diverso, ciò significa che sono i vincoli strutturali posti dalla stessa realtà a giudicare la bontà o meno dei vari tentativi che vengono posti in atto per indagarla, e negare tale evidenza significa, puramente e semplicemente, rinchiudersi nel solipsismo.

Applicando i ragionamenti di cui sopra alla diffusa controversia sui vaccini, chi è contrario alle vaccinazioni di solito argomenta le sue posizioni in base alla lettura di blog e di notizie desunte da Internet, trascurando il valore pratico che gli stessi vaccini hanno dimostrato di avere con l’abbattimento, per esempio, della mortalità infantile.

Ed è pure interessante notare che tali posizioni non tengono conto del parere degli esperti – in questo caso i medici – i quali sono in grado di dimostrare con le statistiche i risultati ottenuti. Certo, le controversie di cui sopra rispecchiano stati d’animo e tendenze culturali che sono oggi assai comuni nel grande pubblico.

Chiunque segua con una certa attenzione la stampa e i programmi televisivi più diffusi sa che, oggi, tutto ciò che attiene alla sfera del magico conosce un successo crescente, mentre non è raro ascoltare o leggere esaltazioni di vie alternative alla scienza per conoscere e valutare la realtà. La popolarità di simili tesi è insomma il classico “segno” del nostro tempo.

Eppure v’è chi interpreta simili posizioni alla stregua di una reazione necessaria e inevitabile ai dogmi scientisti, nel senso che un eccesso suscita sempre l’eccesso opposto.

Quando si riduce tutta la razionalità a razionalità scientifica, non è poi così strano che a un certo punto emergano autori i quali sostengono che l’abbattimento della mortalità infantile o la conquista della Luna non hanno alcun valore oggettivo e condivisibile.

Tuttavia, a mio avviso, questa tesi della inevitabilità e della automaticità è troppo forte e difficilmente difendibile.

E’ assai più plausibile sostenere che i dogmi scientisti hanno creato un clima culturale adatto al diffondersi dell’irrazionalismo e, di conseguenza, al passaggio da una concezione in cui la scienza era tutto a un’altra in cui la scienza stessa diventa, in pratica, niente.

Sono in realtà le troppe aspettative concentrate sulla scienza ad aver prodotto un simile clima, giacché è naturale che l’uomo della strada, quando si accorge che la scienza non è in grado di risolvere ogni problema, si rivolga a chi gli garantisce delle scorciatoie.

 

 

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