7 dicembre 1799. L’ultima lettera di Francesco Conforti
E per provvedere allo scandalo che forse al alcuno si è arrecato per la mala interpretazione delle mie lezioni e delle mie dottrine sparse nei miei scritti, protesto che sempre ho riconosciuto, come in questo punto riconosco, il primato del Ven. Sommo Pontefice perché fondato nel diritto divino, primato non solo d’ordine, ma di potere giurisdizionale; e ho rispettato e rispetto tutti li diritti che la chiesa grande universale attribuisce al primato, significando a chicchessia, che non ho mai inteso abrogarli e diminuirli nella menoma parte. E prego perciò i miei leggitori, e coloro che furono miei uditori, che tutti li sentimenti a me attribuiti, colle conseguenze che possono trarsi dai medesimi contrarii e differenti a questa confessione, li detesto e li condanno. Iddio per la sua infinita misericordia e per gl’infiniti meriti di Gesù Cristo, accolga nel suo seno lo spirito mio». 7 dicembre 1799, dalla Cappella del Carmine Neanche una parola smentisce o contraddice le idee politiche e repubblicane di Francesco Confortiche, prossimo all’esecuzione, concentrò tutta la sua attenzione a ricucire lo strappo con la Chiesa, per salvarsi l’anima. Si tratta di un documento spurio, una ritrattazione, nella quale egli rinnegando il suo costante insegnamento avrebbe dovuto riconoscere "il primato del venerando Sommo Pontefice fondato nel Diritto Divino, primato non solo d'ordine, ma di potere giurisdizionale. Era il supremo oltraggio alle sue profonde convinzioni, abbia egli firmato o respinto quel documento.
Questa lettera fu scritta e distribuita alla vigilia della sua ascesa al patibolo, avvenuta in piazza Mercato il 7 dicembre 1799, e rappresenta una di quelle manovre subdole esercitate dal governo borbonico al fine di screditare l'operato di coloro che presero parte alla Repubblica del 1799. Cinquantasei anni, dotto sacerdote originario di Calvanico in provincia di Salerno, il Conforti aveva pubblicato opere contro le pretese territoriali del Vaticano che gli costarono il carcere nel 1794. Ne uscì alla fine del 1798, poco prima della proclamazione della Repubblica Napoletana del 1799 durante la quale ebbe incarichi di Governo. Durante il mese dell’anarchia, la sua casa napoletana di via Fonseca, fu saccheggiata dalla plebe inferocita e molti sui scritti furono dati alle fiamme o dispersi. Fu tra i 25 rappresentanti del Governo Provvisorio adoperandosi delle diffusione tra il clero del nuovo catechismo repubblicano. Con il ritorno del Borbone fu tra i primi ad essere ricercato e condannato alla pena capitale. Dopo essere stato degradato e sconsacrato dal vescovo di Napoli Torrusio, nonostante fosse stato suo discepolo, ascese al patibolo il 7 dicembre 1799. Nel tracciare la sua biografia Mariano D’Ayala lo ricordò usando le parole commemorative espresse ventiquattro anni dopo dallo storico Carlo Botta: «Niuna cosa è più inesorabile delle rabbia civile; la gratitudine non ha luogo fra gli sdegni politici; il beneficio si dimentica più presto dell’ingiuria».
La onesta fortuna diventa titolo di nobiltà, e si diventa nobile per virtù ed ingegno. (F. Conforti)
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