Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Neuroscienza e filosofia scientifica. I segni di un rinnovamento della Conoscenza

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Franco FabbroLa lettura del libro del Prof. Fabbro dal titolo “Neuroscienze e spiritualità” offre la possibilità di gettare uno sguardo davvero molto ampio sull’attuale scenario di quella scienza della mente, che ormai procede di pari passo con il suo corrispettivo filosofico, ossia la cosiddetta Filosofia della Mente (FM).1

Dato che però qui l’oggetto di ricerca è proprio la mente, allora è inevitabile che in tale contesto emergano alcune tra le questioni più genuinamente filosofiche che da sempre hanno tenuta occupata l’attenzione dei pensatori; ossia questioni tradizionalmente filosofiche, più che non scientifiche. In grandi linee si tratta della relazione esistente tra il polo soggettuale (mente, ragione, intelletto, coscienza, percezione) ed il polo oggettuale dell’essere (mondo, corpo, materia, cose).

E di conseguenza si tratta anche dello speciale statuto di realtà (o onticità) che spetta di diritto ad ognuno di questi due poli dell’essere. In particolare la questione è quale dei due sia più o meno «reale».

In termini specificamente metafisici si tratta ovviamente dell’ancora più generale tra Spirito e Materia. Pertanto l’amplissima disamina delle attuali ricerche (e relative riflessioni scientifico-filosofiche), che viene svolta in questo libro, ci offre anche una preziosa occasione di esaminare il rapporto che esiste oggi tra Filosofia e Scienza; intendendo con quest’ultima specificamente la scienza empirica ed in gran parte sperimentale.

 

Come abbiamo appena constatato, però, la disciplina chiamata in causa in tale contesto non è solo la filosofia nel suo assetto attuale ma anche la filosofia nel suo assetto eterno ed essenziale. Andremo progressivamente chiarendo come ciò può venire inteso.

Già qui salta all’occhio un elemento molto generale dell’intero scenario, e cioè il fatto che la definizione di «scienza» sfugge ormai completamente all’area di sapere e studi che è propria della Filosofia. Il che è abbastanza paradossale almeno per due motivi:

1) la Filosofia ha sempre teso (fin da Platone) a definire sé stessa come «scienza» (e precisamente quella fondamentale e per eccellenza), e tale aspirazione è inoltre divenuta poi nel pensiero moderno la rivendicazione a sé stessa della cosiddetta «scientificità» del filosofare;

2) l’attuale Filosofia ha sviluppato ulteriormente tale aspirazione fino ad auspicare la propria totale fusione con quella Scienza che intanto si era posta da tempo del tutto al di fuori dei suoi limiti. In altre parole (in relazione a questo secondo punto) attualmente la disciplina non ambisce più nemmeno ad un filosofare «scientifico», ma ambisce invece ad un agire che non è più affatto un filosofare ma è invece autentica conoscenza scientifica.

Quest’ultima, insomma, vuole essere una prassi scientifica a tutti gli effetti. Incluso l’obbligo, al quale oggi il filosofo si sottomette pienamente, di restare vincolato allo stato attuale dei dati sperimentali intanto progressivamente acculati dalla scienza empirica.

Ecco allora che la Filosofia non si pone più affatto al di sopra della Scienza come conoscenza di ampio respiro ed astratta dall’esperienza; ossia come conoscenza affatto analitica, ed anzi per molti versi addirittura contemplativa.

A noi sembra ovvio che questo assetto non può essere altro che l’estremo effetto della presa di posizione divenuta dominante nel pensiero entro gli ultimi sessanta anni sotto la spinta della Filosofia Analitica (FA).

Non a caso proprio nel contesto di quest’ultima si è andata progressivamente sviluppando la FM. Si può quindi dire oggi che quest’ultima ha raccolto l’eredità della FA, nel mentre intanto ne superava i temi ed approcci, concentrandosi ormai sull’analisi dettagliata dei fenomeni mentali presi nella loro obiettività scientifico-naturale.

Ciò che è venuto meno sembra essere insomma quell’epistemologia critico-analitica (indipendente e collocata ben più in alto della conoscenza empirica), che era ancora propria della FA, e che poneva quindi quest’ultima ancora in maniera pienamente coerente entro la tradizione filosofica più genuina.

L’intento di tale forma di pensiero era infatti ancora quello di soffermarsi molto più sulle condizioni del filosofare quale paradigmatico «pensare» astratto, che non invece sui contenuti obiettivi del pensiero stesso. La FA, insomma, non era ancora una psicologia. Mentre invece la FM decisamente lo è diventata. E con ciò essa si è trasformata di fatto in una scienza empirica della natura.

La complessiva analisi svolta dal Fabbro si differenzia però in maniera piuttosto tangibile dallo scenario di studi che si è sviluppato nel contesto della FA e poi della FM.

Infatti, anche al di là dell’espressa aspirazione dello studioso a porre nuovamente la “spiritualità” al centro della conoscenza scientifico-filosofica, egli concentra la sua attenzione in particolare sulla relazione esistente tra neuroscienza e filosofia presa in generale. In altre parole egli non sembra parlare né in nome della FM stessa, né in nome della Scienza che intanto ha riassorbito quest’ultima completamente in sé.

Al contrario sembra che invece il Fabbro ambisca proprio a lasciare che i contorni della disciplina filosofica si delineino nuovamente in maniera netta ed originale, districandosi così dalla commistione con i contorni della scienza empirica. Esattamente in questo senso si può dire che egli parla molto più della «filosofia» (in generale e per eccellenza) che non invece della FM vera e propria.

Naturalmente gran parte delle posizioni filosofiche da lui prese in esame rientrano comunque nell’ambito della FM. Inoltre a quanto pare egli dà anche per scontato che neuroscienza e FM siano di fatto ormai una sola cosa.

Lo studioso fa però questo partendo da un ben determinato punto di vista, e cioè dall’esigenza da un lato di scongiurare qualunque forma di riduzionismo naturalistico-materialistico e rigorosamente immanentista (specie se empirico-scientifico), e dall’altro lato di affermare (tanto per la neuroscienza che per la filosofia) la stringente necessità di equiparare la «mente» al livello superiore dell’essere (al quale tendenzialmente tutto l’inferiore andrebbe ricondotto). In qualche modo, dunque, si potrebbe dire che presso il Fabbro è all’opera una tendenza molto simile a quella che è sempre stata tradizionalmente «filosofica».

Di certo tale intenzione vuole espressamente poggiare sul solido fondamento delle ricerche sperimentali neuro-scientifiche. Ma comunque sembra anche che in tal modo si voglia attribuire alla neuroscienza stessa una certa quale presa di posizione sostanzialmente filosofica. E questo ci sembra essere l’esatto contrario di quanto invece è riscontrabile esaminando l’attuale ricerca svolta nel contesto della FM.

Ecco allora che l’intima fusione di Filosofia e Scienza – che intanto il Fabbro non smentisce affatto – si presenta presso di lui in una maniera sensibilmente diversa da come essa invece si presenta nel contesto di quell’ultra-moderno realismo filosofico, nel quale poi la FM occupa un ruolo di primo piano.

Qui infatti è davvero esplicita l’aspirazione a far sì che la mente rientri ontologicamente nel pieno della Natura; non venendo così in alcun modo più concepita come un’onticità separata e superiore nel senso del trascendente. Il sussistere di tale aspirazione può venire molto direttamente constatato in un’amplissima riflessione sull’attuale realismo filosofico come sono quelle di Rorty di Pérez de Laborda.2

In questo articolo vorremmo quindi esaminare il testo del Fabbro alla ricerca di luoghi specifici, nel contesto dei quali sia possibile dare un volto più preciso all’intendimento alternativo di «filosofia scientifica» che abbiamo appena visto emergere.

 

Le neuroscienze e la teoria di Sellars

Per raggiungere lo scopo appena menzionato, un primo aspetto da prendere in considerazione ci sembra possa essere la frequente menzione nel libro della teoria di Wilfrid Sellars. Questo pensatore rappresenta una visione estremamente originale per due motivi.

In primo luogo perché, in quanto allievo di Husserl, egli si ricollega di fatto alle posizioni più tradizionali della recente filosofia moderna. In secondo luogo perché egli ha preso le distanze dal disinteresse totale della FA per storia della filosofia. Specialmente in tal senso, dunque, egli tende piuttosto esplicitamente verso una concezione ampia del filosofare, della quale si trovano ormai solo deboli tracce nel pensiero più ultra-moderno.

In questo senso egli rientra pertanto senz’altro (anche se non proprio storicamente) nella “post-analitica aperta ai grandi problemi” (Putnam, MacIntyre, Nozick, Hempel) della quale parla Laborda.

Ed evidentemente anche il Fabbro si rifà non poco a questa parte della più attuale filosofia. Tuttavia Sellars è stato anche uno dei primi e maggiori filosofi della mente, ed inoltre è stato (come Popper) un vero e proprio filosofo della scienza. E ci sembra che sia sostanzialmente in questa valenza che egli viene oggi costantemente tenuto presente da Rorty e da altri attuali interpreti del suo pensiero e delle sue implicazioni dottrinarie.3

Così accade di fatto anche nell’esposizione del Fabbro.4 Lo studioso presenta infatti Sellars come un filosofo della mente per eccellenza, ed anche come un sostenitore dell’intima fusione da istituire ormai tra filosofia e ricerca scientifica empirica. Ed in questo senso egli può senz’altro venir fatto rientrare nell’estremamente ampio contesto dell’attuale realismo filosofico-scientifico (realismo che in qualche modo fa rinascere l’empirismo del XVIII secolo).

Il Fabbro mette però in evidenza una presa di posizione di Sellars che in qualche modo (sebbene piuttosto forzosamente) potrebbe venire ricondotta anche ad un certo idealismo.

Il pensatore criticò infatti il dominio (ormai da tempo affermatosi) dell’”immagine scientifica del mondo” (la galileiana riduzione delle cose ad una realtà nascosta di tipo matematico) su quell’”immagine manifesta del mondo” che è tipicamente dell’uomo comune (provvista di un suo “linguaggio comune”, il quale equivale poi totalmente al “common sense”).

La fede in tale immagine si presenta insomma come una vera e propria ingenuità conoscitiva (ma non per questo è da considerare meno valida).

E ciò avviene sia nei confronti del mondo (considerato come da un lato prodotto della coscienza e dall’altro ovvio nella sua esistenza oggettiva esteriore alla coscienza stessa), sia anche nei confronti della mente stessa. Ed in quest’ultimo caso Sellars parla specificamente di “folk psychology”. L’uomo comune infatti ritiene del tutto scontato attribuire all’altro degli “stati mentali”, che non hanno alcuna onticità naturalistica (credenze, emozioni, desideri, intenzioni, aspirazioni) ma che comunque vengono considerati indubitabilmente reali.

Ebbene, ci troviamo qui chiaramente davanti al classico avvaloramento della conoscenza empirica qual common sense. Dunque dove può stare in questo l’idealismo? Visto anche che peraltro Sellars avvalora qui quell’ingenuità conoscitiva che è stata proprio il maggiore bersaglio critico dell’epistemologia idealista fenomenologico-husserliana.

Ebbene, a nostro avviso l’idealismo sussiste nell’opporsi del pensatore a quella riduzione scientifico-matematica dell’essere (che poi era stata criticata anche da Husserl) che si riallaccia a due termini ultimi.

Da un lato si riallaccia al ruolo fondamentale esercitato dal soggetto quale osservatore-conoscitore della realtà una volta ridotta a «dato» – e non a caso una delle riflessioni di Sellars è stata rivolta proprio alla critica a tale aspetto della conoscenza (The Myth of giving).

Dall’altro lato si riallaccia alla realtà numerica astratto-ideale come ciò che rende il dato effettivamente conoscibile.

Di certo anche questa presa di posizione può venire in qualche modo intesa come un idealismo. Fatto sta che però in essa viene esautorata totalmente qualunque dimensione soggettiva della conoscenza; tanto è vero che la riduzione del reale al soggetto conoscente ed al numero astratto ha il puro scopo di fare emergere l’assoluta oggettività della conoscenza sperimentale, ossia il suo muoversi unicamente sul piano immanente (naturale-materiale).

Ora, il soggettivismo avvalorato da Sellars non equivale certo all’idealismo epistemologista nella sua pienezza (da Cartesio ad Husserl), ma comunque tende a svincolare fortemente la conoscenza dal condizionamento dell’oggettività scientifica.

E proprio per questo esso attribuisce nuovo valore agli oggetti immateriali che l’ingenuo common sense soggettivo riconosce come del tutto reali.

Non vi è dubbio, però, che in tal modo ci troviamo nello stesso tempo anche di fronte da un realismo. E ciò perché il pensatore accorda agli stati mentali un’onticità che è poi da considerare propriamente naturalistica. Egli insomma non cessa, in tutto ciò, di pensare alla mente come qualcosa che rientra pienamente nella Natura quale unica e sola realtà. In alcun modo, insomma, egli intende la mente come un’onticità trascendente.

Il Fabbro chiarisce comunque che l’auspicio del pensatore a tale riguardo fu sostanzialmente quello di promuovere la fusione tra l’immagine scientifica e quella ingenua (del mondo e della mente).

In tale maniera sarebbe potuta per lui insorgere una filosofia scientifica che non risultasse appiattita sulle posizioni classiche della scienza sperimentalista galileiana. Il Fabbro stesso ci lascia non a caso intendere che l’ingenuità non-rigorosamente-scientifica dell’uomo comune è in qualche modo la stessa del filosofo.

Pertanto a noi sembra evidente che la dimensione genuinamente filosofica viene in tale contesto garantita proprio da quella certa quota di idealismo soggettivista che la visione di Sellars riavvalora.

Lo studioso sottolinea però anche che con Sellars la filosofia moderna ha inteso andare ben oltre la classica distinzione cartesiana tra res cogitans e res extensa. E con ciò ha inteso inoltre superare il pensiero come qualcosa che equivalga pienamente al dubbio sistematico; e proprio in questo modo intende poi porsi come genuinamente «filosofico» (cioè come un pensare che non da in alcun modo scontata l’immediata esperienza).

Tutto ciò può quindi senz’altro venire considerato come quanto modernamente è stato «filosofico» proprio nell’appaiarsi al metodo scientifico galileiano; andando così a contribuire al più generale idealismo epistemologistico che è sempre stato proprio del complessivo meccanicismo e dualismo della Scienza della Natura post-galileiana e post-cartesiana.

Del resto Husserl stesso era restato esattamente su questa posizione idealistico-cartesiana, nel contesto del suo costante richiamo all’epochè.

La presa di posizione di Sellars non appare quindi affatto isolata nel tentativo di superare tale visione. L’intera scienza della natura più attuale, infatti, appare avere ormai preso per sempre le distanze dall’antica concezione meccanicistico-dualistica.5

Ma rispetto alla ricerca propria della neuroscienza, il ri-avvaloramento dell’ingenuità del common sense, una volta applicata alla teoria della mente, ha come principale conseguenza l’esautoramento di qualunque dualismo mente-corpo. Il che significa che gli oggetti mentali da un lato non possono venir considerati privi di effettiva onticità, e dall’altro lato non possono venire considerati come disgiunti dagli oggetti reali.

Non sussiste quindi più alcuna discontinuità tra mente e mondo-corpo. Inoltre il Fabbro sottolinea anche (in polemica con Cartesio, e sulla base di oggettivi risultati sperimentali) che il pensiero non va identificato né con il dubbio né con la stessa coscienza.

La ricerca neurofisiologica ha potuto infatti identificare un pensiero che sussiste anche in assenza di coscienza desta.

Queste sono le problematiche nelle quali il Fabbro chiama in causa Sellars. Ma prendendo in esame la letteratura esistente sul suo pensiero (vedi nota 3) possiamo constatare che egli si fa interprete di una sorta di neo-empirismo tutto incentrato sull’esame della vera natura della percezione; e quindi sostanzialmente convergente anche con la riflessione di pensatori realisti come Merleau-Ponty.6 Possiamo pertanto constatare come tale visione costituisca una teoria della totale equivalenza tra l’esperienza percettiva ed il pensiero (“thinking”).

E ciò avviene perché nella percezione si compie per Sellars una conoscenza che prescinde totalmente dai concetti e dal giudizio. Non si tratta quindi affatto nemmeno di credenza (“belief”), e pertanto di un atto di appropriazione intellettuale dell’oggetto.

In altre parole, insomma, il preciso ed univoco riconoscimento del «cos’è?» della cosa avverrebbe già pienamente nel corso della percezione, entro un atto decisamente pre-concettuale e pre-giudicativo.

Questo è quanto il pensatore definisce come il “taking”, quale componente primaria della percezione; e si tratta per la precisione di un atto proposizionale (ossia un’affermazione di fatto dell’essenza di ciò che si ha davanti). Vi è però anche un’altra componente, ed essa è descrittiva, e quindi differenziante. Essa corrisponde cioè alla rilevazione constatativa (per mezzo della percezione) delle qualità specifiche dell’oggetto. E questo è quanto corrisponde poi all’impressione sensoriale vera e propria nella sua pienezza, ossia alla componente più sensoriale della percezione. È quanto Sellars definisce come “sensing”.

Si tratta quindi del «modo» specifico mediante il quale la cosa si presenta a noi, dopo essere però stata già percepita primariamente. Anche in questo caso non interviene alcuna concettualizzazione. Ecco allora che la sensazione corrisponde al contenuto (“content”) dell’atto (“act”) percettivo primario che è rappresentato dal “taking”.

Ora, poiché la visione filosofico-scientifica di Sellars ambisce a costituire un intenzionalismo (precisamente un “dual-component intentionalism”), dobbiamo rilevare che in qualche modo egli ha sviluppato il concetto husserliano di «intenzione» sottraendolo definitivamente alla dimensione mentale trascendente, e cioè alla componente astratta del pensiero-giudizio.

Già Husserl si era sforzato non poco in tal senso. Lo aveva fatto configurando la conoscenza dell’oggetto come un sostanziale «atto di coscienza», che nel suo verificarsi aveva già di mira un oggetto reale (senza che esso fosse stato affatto ancora concettualizzato).

Quest’ultimo costituisce per lui quindi appena il polo noematico (potenziale) di una noesi (attuale) che rappresenta però sempre un atto di fatto simultaneo alla consapevolezza dell’oggetto.

Tuttavia l’intuizione essenziale (ovvero ciò che reca alla pienezza della noesi) avviene per Husserl nello spazio dell’interiorità soggettuale e cosciente; e non invece alla sua periferia, ossia nella percezione. Questo sembra essere invece esattamente quanto viene presupposto da Sellars. Rifacendoci però alla definizione di “intenzionalismo”, dobbiamo constatare che quest’ultimo ambisce a costituire in qualche modo comunque una forma di idealismo.7

Per quanto esso ambisca a costituire comunque una teoria della percezione, esso si incentra infatti tutto sulla “rappresentazione”; e quindi postula che il soggetto conosce il mondo primariamente così come esso a lui “sembra”. Da un altro punto di vista poi tale presa di posizione può venire considerato un “committalismo” (opposto al “non committalismo”), nel senso di un coinvolgimento del soggetto con la rappresentazione dell’oggetto che egli possiede interiormente.8

Naturalmente esistono comunque oggi nella FM diverse altre svariatissime prese di posizione, diverse ed anche opposte rispetto all’intenzionalismo.

Ma non entreremo in tale materia, in quanto essa non rientra né nei nostri personali studi né nell’argomento specifico del quale qui intendiamo parlare. Argomento che è in primo luogo di natura storico-filosofica in termini critici.

In ogni caso ci sembra di aver intanto chiarito in che modo la visione di Sellars possa rientrare nell’attuale scenario della collaborazione tra Filosofia e Scienza così come essa viene intesa a partire dal punto di vista delle neuroscienze.

 

Nominalismo o realismo degli oggetti mentali? Il problema dell’onticità interiore

Il Fabbro si sforza comunque continuamente anche di dirimere la questione delicatissima del se gli oggetti mentali possano venire considerati o meno delle effettive realtà ontiche indipendentemente dalla loro incontestabile immaterialità. Ed abbiamo visto che (avvalorando l’ingenuità della folk psychology) Sellars contribuisce non poco ad affermare un certo «realismo» degli oggetti mentali (o Idee); opponendosi così ad un intendimento puramente non-ontico (in quanto gnoseologico-astratto) di tali oggetti («nominalismo»).

Ci sembra che il Fabbro tenda ad invertire la relazione oggettiva esistente tra nominalismo e realismo (entro la tradizione filosofica), ma comunque crediamo che da questo aspetto si possa anche prescindere. In ogni caso egli ci suggerisce fortemente la possibilità di considerare gli oggetti mentali in maniera realistica, ossia come dotati di un’effettiva onticità.

Egli parla infatti di essi come di un effettivo “qualcosa”; e ciò perfino quando si tratta di concetti relativi a realtà effettivamente inesistenti come quelle proprie dell’ambito religioso.9

Esattamente questo è poi uno degli argomenti in forza dei quali egli difende il campo congiunto di studi filosofico-scientifici della mente da qualunque forma di riduzionismo empiristico-scientifico e materialistico.

A tale proposito egli afferma infatti che, se la scienza empirica è (per sua costituzione) tenuta ad attenersi alla restrizione tipica dell’immediato dato sperimentale, la filosofia invece è tenuta (anch’essa per sua costituzione) ad elevare ed allargare lo sguardo per cogliere un ben più vasto ambito di fenomeni esperienziali.

Essi vengono infine da essa congiunti ed unificati per poter formulare una teoria (sempre “globale”) che possa per davvero fornire un’interpretazione dell’essere (configurando in tal modo un’effettiva ontologia).

Ciò risulta però impossibile se i fenomeni studiati in maniera filosofico-scientifica vengono strettamente vincolati al livello più basso della conoscenza (che è poi quello del molteplice); e cioè appunto il livello proprio di quella conoscenza sperimentale che si muove esclusivamente sul piano delle cose fisiche.

Pertanto un siffatto così rigoroso riduzionismo empirista rende di fatto impossibile uno studio filosofico-scientifico della mente. E ciò vale in particolar modo quando la neuroscienza si aspetta dalla filosofia un aiuto proprio nello sforzo di cogliere la dimensione “spirituale” della fenomenologia mentale.

Ebbene, l’inaccettabile riduzionismo qui possibilmente in causa, è esattamente quello secondo il quale (contrariamente a quanto chiede Sellars) l’immagine manifesta del mondo deve venire immancabilmente ricondotta a quella scientifica.

Il Fabbro constata comunque che di fatto è proprio questo l’atteggiamento dominante nella neuroscienza. E su questa base egli passa poi in rassegna alcuni tra i moltissimi «-ismi» per mezzo dei quali (muovendosi tra FM e neuroscienza) si è cercato attualmente di dirimere faticosissimamente circa l’effettiva onticità degli oggetti mentali; e quindi si è anche cercato di dirimere circa l’effettiva relazione esistente tra mente e mondo-corpo ed infine circa l’effettiva collocazione della mente nel contesto dell’essere.

In ogni caso lo studioso stesso pone in luce a tale proposito l’evidenza del tormentoso percorso, entro il quale ogni specifica teoria («-ismo») viene affermata solo per poi venire smembrata e demolita ad opera delle aporie in essa rilevate e delle obiezioni che ad essa vengono opposte. E questo è senz’altro uno scenario di conoscenza che non sembra affatto muoversi nel senso dell’unità.

Negli specifici termini della neuroscienza questa serie di ricerche e riflessioni si muove ancora nel contesto dell’antica questione del possibile «localismo» della mente, ossia la questione del se la mente possa e debba (o meno) venire identificata con il cervello, e più specificamente con alcuni settori della sostanza neuronale.

In tale contesto quindi – sebbene nell’ambito della vera e propria foresta (spesso impenetrabile) di «-ismi», in costante lotta tra di loro – si delineano sostanzialmente due prese di posizione, e cioè il “funzionalismo-epifenomenismo” (sostenuto da Putnam) e l’“emergentismo”.

Quest’ultima presa di posizione sembra poi essere quella che più si spinge in direzione di un realismo degli oggetti mentali.

Essa infatti – trovandosi peraltro in stretta relazione con le moderne dottrine biologiche sistemiche (Humberto Maturana, Francisco Varela, Ross Harrison, Lawrence Henderson, Joseph Woodger)– sostiene che alcune capacità emergono solo nel momento in cui la materia ha raggiunto (per via anti-entropica) un superiore livello strutturale, e cioè quello corrispondente all’ordine di un organismo (a sua volta capace sostanzialmente di continua auto-organizzazione). 10

Ciò che in tal modo emerge è pertanto un Tutto che non è affatto appena somma di «parti». Tali capacità, quindi (come sono effettivamente quelle mentali), rappresentano delle entità che si trovano su un piano ontologico decisamente superiore rispetto a quello delle semplici materie grezze o anche «parti» (che compaiono nelle strutture appena nella forma della «composizione», e non invece dell’«organizzazione»).

Si tratta quindi di entità effettivamente del tutto immateriali (o forse meglio ancora «super-materiali»). Eppure esse esistono incontestabilmente, e quindi sono senz’altro connotate da un’effettiva onticità.

Insistendo invece sul concetto di “funzione”, l’epifenomenismo sostiene invece che il mentale non sarebbe altro che un qualcosa che insorge unicamente sulla base del fisico; e quindi non possiederebbe alcuna realtà (onticità) in assenza di quest’ultimo. Proprio per questo l’unica sua natura ontica è quella funzionale.

Il mentale sarebbe insomma null’altro che un epifenomeno del fisico, ossia un’illusione dal punto di vista ontico.

È di certo un’onticità illusoria che noi constatiamo effettivamente nel suo esistere, ma questo avverrebbe solo in forza della ben più primaria esistenza della realtà fisica. Nel caso specifico si tratta delle strutture neurali. Personalmente, comunque – extrapolando sul piano bio-medico e fisiologico la dottrina spirito-animico-corporea di Edith Stein –, noi abbiamo sostenuto che proprio questo strato funzionale dell’essere organismico va considerato ontico nel senso della superiorità gerarchica, e cioè nella sua equivalenza alla sostanza «onto-intellettuale».11

Il Fabbro sottolinea inoltre che il “funzionalismo” è per sua natura in conflitto con il “fisicalismo” (secondo il quale nemmeno la funzione ha alcuna rilevanza nell’economia della mente). In questo senso quindi quello funzionalista va considerato un riduzionismo ben meno radicale di quest’ultimo.

Lo studioso non manca però di porre in luce che lo stesso funzionalismo afferma un concetto filosoficamente in fondo abbastanza debole e contraddittorio di onticità degli oggetti mentali. Esso è infatti da un lato tangibile e dall’altro lato anche del tutto inconsistente.

Non per nulla tale presa di posizione (pur non essendo in principio affatto riduzionista) fallisce totalmente nello spiegare cosa sia la coscienza; e lo stesso avviene poi anche per la neuroscienza nella sua interezza.12

Ma questo avviene, diremmo, per il semplice fatto che quest’intera area di studi omette di attribuire all’immaterialità spirituale quell’onticità («onto-spiritualità») che solo la metafisica religiosa è stata tradizionalmente capace di cogliere. Proprio questo è infatti quanto tale area di sapere ha sempre inteso come «intelletto».

 

Un possibile modello di collaborazione tra Filosofia e Scienza. Unicismo o pluralismo epistemologico?

Al di là dei punti già posti in evidenza, il progetto del Fabbro si basa anche su considerazioni ben più ampie, e più precisamente di natura epistemologica.13

Egli va insomma ad indagare qual’è la differenza esistente tra Filosofia e Scienza; ed inoltre quale ruolo epistemologico spetta per davvero sia all’una ed all’altra separatamente sia anche alla loro forma congiunta (della conoscenza filosofico-scientifica).

In tale ambito lo studioso si confronta quindi con una serie di moderne riflessioni che sono estremamente critiche nei confronti dell’unicità dogmatica dell’epistemologia (scientifica o filosofica che sia). Egli innanzitutto pone in evidenza la tendenziale portata religiosa dello stesso approccio galileiano.

Galilei pensava infatti che il linguaggio matematico dell’Universo è in fondo quello divino stesso; e quindi non aspirava affatto ad una laicizzazione né della filosofia della natura né della scienza naturale.

Le personali ricerche del Fabbro sulle Scritture biblico-cristiane avvalorano poi una loro lettura spirituale invece che letterale; e quindi ciò esautora qualunque criticismo riduzionista che escluda la lettura religiosa dall’interpretazione rigorosamente scientifica della realtà.

Il che implica pertanto la necessità che la scienza si renda disponibile (almeno in via di principio) ad un linguaggio interpretativo dell’essere che sia contemplativo ed iper-razionale; invece che solo rigorosamente razionalistico in senso immanentista e materialista.

Partendo da questo lo studioso pone poi in luce la fortissima relativizzazione popperiana dell’oggettività sperimentale come impositiva epistemologia dogmatica.

La prassi conoscitiva scientifica, infatti, in forza di tale approccio, appare essere caratterizzata molto più dalla dimensione della possibile “falsificabilità”, che non invece dall’affermazione di verità oggettive inconfutabili (ottenute per mezzo delle indagini empirico-sperimentali).

L’accento posto dalla scienza sul “metodo” (e precisamente sull’epistemologia dominata dal metodo sperimentale) appare essere quindi (dopo Popper) molto meno giustificata di quanto non si possa pensare a prima vista. È proprio su questa base, quindi, che il Fabbro introduce tutta una serie di riflessioni critiche rivolte contro il dogmatismo unicista epistemologico della scienza empirica (Dyson, Kuhn, Lakatos, Hempel, Feyerabend, Ziman).

Tali critiche non solo evidenziano l’assoluta relatività storica delle teorie scientifiche vigenti (in quanto sempre appena parziali e transitorie, se non false) ma anche la tendenza che esse hanno a gestire un effettivo potere oppressivo.

Una delle conseguenze di tutto ciò è pertanto l’affermarsi di un dogmatico unicismo epistemologico (radicalmente avverso all’invece auspicabile “pluralismo”), che proibisce quell’esame simultaneo di più livelli dell’essere.

Laddove quest’ultimo è invece per il Fabbro assolutamente necessario se si vuole affrontare il problema della mente in una corretta prospettiva filosofico-scientifica.

E diremmo che proprio in questo va vista l’originalità dell’approccio dello studioso rispetto a quella che oggi viene intesa come filosofia scientifica della mente.

Egli auspica quindi espressamente un’indagine filosofico-scientifica che si muova a “diversi livelli di analisi”. Ed è esattamente in tale contesto che egli avvalora fortemente il riduzionismo al livello “superiore” (Polanyi) – incentrato sul rifiuto di una prospettiva nella quale la composizione bio-molecolare (fisico-chimica) possa dare davvero ragione delle complesse strutture biologiche –, in assenza del quale la neuroscienza ricade totalmente in una dimensione scientifico-empirica che poi nulla può avere a che fare con la filosofia.

Si tratta in tal modo dell’esposizione delle principali ragioni per le quali il riduzionismo deve assolutamente essere evitato. I due aspetti principali di tale prospettiva sono due:

1) bisogna assolutamente presupporre un Tutto che supera la parte;

2) bisogna assolutamente presupporre non solo sempre un livello superiore (affermando così un dualismo, ma affatto unilaterale), ma anche la sua possibile direttività, ossia la sua inclinazione a trascendere sé stesso nello stabilire un’ininterrotta continuità con il livello inferiore.

Su questa base il Fabbro avvalora anche quell’anti-riduzionismo che richiama continuamente alla direzione “top-down” (Deutsch). E questo trova peraltro un preciso corrispettivo in quegli attuali studi platonici entro i quali viene sostenuto che il pensatore ateniese non fu affatto un dualista, ma invece semmai proprio un sostenitore della prospettiva conoscitiva “top-down”.14

Insomma non vi è altra possibilità, per ritrovare l’unità delle scienze (includendo in ciò naturalmente anche la filosofia), se non superando il riduzionismo qui condannato.

È pertanto su questa base che il Fabbro individua il ruolo che le neuroscienze devono affidare alla filosofia.

Di certo, entro questa sua visione, la disciplina non esce affatto dai confini della definizione che ad essa è stata assegnata recentemente entro l’attuale realismo.

Da essa ci si aspetta infatti appena un’ampiezza di sguardo riflessivo che permetta di pervenire alla migliore possibile delle spiegazioni rigorosamente logiche del reale.

Ed in tal modo non si esce assolutamente dal dominio oggi accordato unanimemente (da scienza e filosofia) a quel «principio di realtà», che poi trova il suo fulcro nel principio logico di “contraddizione”.

Più in particolare ci aspetta che la filosofia si muova sul piano di una ricerca aperta (priva di qualunque premessa sapienziale condizionante, e quindi del tutto sovrapponibile a quello della stessa scienza empirico-sperimentale) sulla via del reperimento di “principi” del tipo delle verità “evidenti” nel senso auto-esplicativo (ciò che “si spiega da sé”). Inoltre allo stupore tutto contemplativo platonico (“thaumázein”)viene qui assegnato un ruolo molto riduttivo; e cioè semplicemente quello di andare oltre la sorpresa che lo scienziato prova davanti all’esperienza che contraddice le sue aspettative (teoria).15

Infine ci si aspetta che l’ampiezza dello sguardo filosofico serva di fatto a raccogliere appena “tutto il possibile” fenomenico che intanto è stato messo in luce dalla ricerca scientifica empirico-sperimentale.

In tal modo insomma non si concedono affatto alla Filosofia il ruolo, l’altezza e la dignità di una disciplina che fonda ed insieme trascende la Scienza in quanto sapere e riflessione puramente contemplativa in senso specificamente metafisico-religioso.

Ed in tal modo non si esce affatto dall’ultra-moderna aspirazione della Filosofia stessa a confluire totalmente (fino a naufragarvi del tutto) nell’alveo della Scienza.

A tale proposito dobbiamo precisare che recentemente noi abbiamo fortemente criticato tale definizione di Filosofia, alla ricerca di una sua definizione radicalmente alternativa.16

Tuttavia, visto il tenore dello scenario attuale degli studi filosofici e scientifici, ci sembra che nel complesso le riflessioni del Fabbro offrano spunti davvero preziosi per relativizzare il dominio che ormai da molto tempo la scienza empirica pretende di esercitare sulla conoscenza nella sua interezza. E questo riguarda poi quello che è uno degli aspetti più centrali della riflessione filosofica di tutti i tempi, ossia la realtà della mente.

 

Conclusioni

In base agli elementi raccolti ci sembra che risulti piuttosto giustificata la supposizione dalla quale siamo partiti, e cioè che la visione esposta dal Prof. Fabbro offra utilissimi spunti per poter intendere in maniera non necessariamente riduttiva e riduzionista l’intima compenetrazione di Filosofia e Scienza che caratterizza oggi in modo davvero indelebile lo scenario del realismo filosofico. L’aspirazione di quest’ultimo può e deve senz’altro venire fortemente criticata come espressione di una vera e propria volontà della Filosofia ultra-moderna di celebrare il suo definitivo naufragio nel confluire nell’alveo della Scienza.17

E tuttavia sembra proprio che la più illuminata, onesta, umile e ben intenzionata scienza empirica, che oggi può venire vista in azione – segnatamente la neuroscienza così come vissuta da un ricercatore come il Fabbro –, offra anche al filosofo più tradizionale motivi di speranza che invece lo scenario più generale nega.

E ciò riguarda molto da vicino quella FM nella quale ormai la tradizionale riflessione filosofica sembra essersi frazionata disperantemente in una miriade di «-ismi», i quali non solo frantumano l’unità di quella che per millenni era stata un’epistemologia filosofica davvero esemplare (nella sua superiore sovranità) ma anche ripropongono in maniera pleonastica e fatua (se non distorcente) quella che per millenni è stata nient’altro che l’eterna questione idealismo / realismo.

Molto più in particolare ci sembra che la riflessione del Fabbro ci offra la preziosa opportunità per rivedere completamente il senso ed il ruolo che oggi sono da attribuire a quel «cognitivismo» che proprio entro la FM si è sviluppato.

Infatti esso appare oggi essere più che mai quella disciplina nella quale la filosofia non viene più chiamata affatto ad offrire il suo autentico contributo, ma invece viene semmai chiamata a partecipare –  del tutto alla pari con discipline scientifiche da essa molto diverse (cibernetica, biologia sistemica, sociologia, economia, ingegneria etc) – ad una ricerca, il cui unico scopo sembra essere quello di dare corpo in maniera sempre più tangibile alla tecnologia della cosiddetta «intelligenza artificiale».

E questa deriva utilitaristica umilia e perverte davvero in maniera penosa e disastrosa una disciplina, la Filosofia, la cui essenza è sempre stata (fin dal volto e ruolo ad essa attribuiti da Platone) radicalmente divergente da questo impiego.

Ed a tale proposito vanno peraltro tenuti presenti i severissimi moniti etici espressi da Hans Jonas nei confronti della deriva tecnologico-industriale che la scienza ha fatto propria negli ultimi tempi.18

Ecco allora che proprio la neuroscienza – ossia quella scienza empirica della mente che più disporrebbe dei titoli e della potenza di spazzare via per sempre la Filosofia dal novero delle discipline della mente – apre le sue porte ad un’indagine, che non solo invoca l’aiuto della Filosofia ma anche offre ad essa la possibilità di tornare ad esprimersi all’altezza di quella che è la sua autentica dignità ed in obbedienza a quello che è il suo vero motivo di esistere. E ciò dischiude per davvero un orizzonte di future speranze che invece lo scenario attuale degli studi filosofico-scientifici severamente proibisce.

Precisato questo, va qui anche fatto il punto su alcune questioni più specifiche.

In esse possiamo infatti vedere in atto in maniera ben più chiara le promesse prospettare dalla visione del Fabbro, anche prescindendo dal suo avvaloramento incondizionato della filosofia nella sua veste ormai apertamente scientifica.

La prima di tali questioni specifiche corrisponde all’approccio stesso che ci ha guidato in questa ricerca, e cioè quello imposto da una preoccupazione (come abbiamo detto) primariamente storico-filosofica in senso segnatamente critico.

Infatti il punto sta per noi soprattutto nel ruolo che può oggi ancora avere una Filosofia che non sia affatto da intendere come scientifica. È evidente che tale presenza soltanto traspare sullo sfondo dello scenario che abbiamo esaminato per mezzo del Fabbro.

In ogni caso, comunque, proprio l’originalità della visione di quest’ultimo (entro lo scenario ultra-moderno) – e ciò in ragione del suo appello alla filosofia – sottolinea l’importanza rivestita dal riconoscere l’urgenza di un riapparire della disciplina nella sua effettiva pienezza.

Ciò significa allora che l’evidenza del sussistere oggi appena di una filosofia scientifica costituisce al di là di tutto una sfida ed una provocazione molto più che non invece una dovuta constatazione. Tale sfida e provocazione ci spinge quindi verso la necessità di affinare il nostro sguardo per riconoscere cos’è che davvero manca per ricostituire una prospettica conoscitiva, la cui pienezza era stata evidentemente compromessa prima dalla Filosofia moderna, e solo dopo dalla Scienza empirica trionfante almeno dal dopoguerra in poi.

La seconda delle questioni specifiche, che la nostra riflessione sulla visione del Fabbro lascia emergere, è quella che vede congiunti l’idealismo ed il valore dello strato superiore dell’essere come Tutto superante le parti. A noi sembra davvero singolare che tali elementi emergano in uno scenario che è ormai totalmente impregnato e dominato dal più oltranzista realismo.

Ed abbiamo visto che in fondo nemmeno la visione esposta dal Fabbro riesce (nonostante i suoi grandi sforzi) a sfuggire alla forza attrattiva di tale costellazione gnoseologica.

È un fatto però che quest’ultima non sembra in fondo avere tutto il potere che ad essa è ascrivibile a prima vista. Anche nel suo contesto, infatti, continua evidentemente a vivere un’aspirazione anche solo vagamente «idealistica», che si identifica con il soggettivismo ingenuo dell’uomo comune e perfino del filosofo stesso.

Come abbiamo visto, non si tratta nemmeno lontanamente del tradizionale idealismo che ha caratterizzato la filosofia moderna da Cartesio in poi. Anzi si tratta del suo esatto opposto (in quanto sforzo di superare definitivamente il dualismo mente-mondo).

Inoltre meno che mai si tratta dell’idealismo rigorosamente epistemologistico che non molto tempo fa, con la Fenomenologia husserliana, aveva dominato tanto la filosofia quanto la scienza stessa.

Tuttavia non è un caso che tale posizione finisce per coincidere con la stessa prepotente aspirazione di tipo idealistico che è ormai emersa nel pieno della moderna fisica sub-particellare.19

Ciò è avvenuto con una doppia constatazione.

La prima constatazione è che il soggetto (per mezzo dell’atto intellettivo-visionario, più che non razionale) è perfettamente in grado di conoscere l’oggetto ed il mondo (proprio come avviene nell’ingenuità dell’uomo comune); con l’archiviazione in tal modo di qualunque dualismo ed inoltre anche di qualunque «problematicità» della conoscenza soggettuale del mondo.

La seconda constatazione è che il soggetto stesso, quale osservatore (secondo il principio di indeterminazione di Heisenberg) è sempre profondamente coinvolto nei fenomeni oggettuali-oggettivi più profondi nel loro esplicarsi.

Infine il secondo versante della duplice questione in tal modo emergente (quello del livello superiore dell’essere quale Tutto) si presenta oggi, in maniera non meno sorprendente della prima, come segno tangibile del riapparire oggi di un criterio fortemente trascendentista e verticalista nella conoscenza del mondo.

E ciò rende senz’altro di nuovo intensamente attuale quel platonismo (specie metafisico-religioso) che, dopo aver trovato il suo ultimo momento di gloria nel Rinascimento ed infine nel platonismo della Scuola di Cambridge, si era poi sempre più eclissato nella cultura occidentale.

Sulla base di queste ultime considerazioni possiamo quindi dire che uno dei più grandi meriti dell’esposizione svolta dal Fabbro consiste forse proprio nel contributo da esso offerto alla dischiusura dello spazio occupato da questi spiragli di così profonda e lunga portata.

 

 

 

 

Note

1 Franco Fabbro, Neuroscienze e Spiritualità, Astrolabio, Roma 2014.

2 Richard Rorty, La filosofia e lo specchio della natura, Bompiani, Milano 2014, I, 2-6 p. 53-147, I, II, 2 p.164-185, II, III, 1 p. 266-283, II, III, 2-3 p. 283-309, II, III, 4 p. 315-333; Diego Marconi e Gianni Vattimo, Nota introduttiva, ibd. p. V-XXXIV; Miguel Pérez de Laborda, “La filosofia analitica oggi”, Acta Phil, 12 (1), 2003, p. 137-152.

3 Anil Gupta, A critical examination of Sellars’s theory of perception, in: M. Frappier, D. Brown, R. DiSalle (Eds.), Analysis and interpretation in the exact sciences, Springer, Dordrecht 2012, p. 31-56; Jake-Quilty Dunn, “Believing iin perceiving: known illusion and the classic dual-component theory”, Pacific Philosophical Quarterly, 95 (4) 2015, 550-575.

4 Franco Fabbro, Neuroscienze... cit. II, 2-3 p. 37-42.

5 Fritjof Capra, Luigi Luisi Pier, Vita e Natura. Una visione sistemica, Aboca, Salsepolcro 2014, Introd. p. 17-34, II p. 87-111.

6 Maurice Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, Bompiani, Milano 1993.

7 Alex Byrne, “Intentionalism defended”, The Philosophical Review, 110 (2) 2001, 199-240.

8 Augustín Rayo, “On specifying truth-conditions”, Philosophical Review, XXX (10), 2008, 10-55.

9 Franco Fabbro, Neuroscienze... cit., II, 4-5 p. 43-54.

10 Fritjof Capra, Luigi Luisi Pier, Vita e Natura... cit.

11 Vincenzo Nuzzo, Lo spirito della funzione fisiologica. L’anima in Edith Stein e Platone, Loghìa, Napoli 2016; Vincenzo Nuzzo, L’orizzonte platonico del pensiero steiniano – anima, ragione e spirito, in: Andrea Muni (a cura di), Platone nel pensiero moderno e contemporaneo, Limina Mentis, Villasanta 2016, IX p. 129-170.

12 Franco Fabbro, Neuroscienze... cit., III p. 55-73.

13Franco Fabbro, Neuroscienze... cit., I, 2-4 p. 16-31, II, 1 p. 34-37.

14 Lloyd P. Gerson, “What is Platonism?”, J. of History of Philosophy, 43 (3), 2005, 253-276.

15 Platone, Teeteto, Feltrinelli, Milano 2009, 155d p. 69.

16 Vincenzo Nuzzo, Cos’è e cosa non è filosofia. L’esperienza di un percorso di alti studi filosofici, Victrix, Forlì 2018 (in via di pubblicazione).

17 Vincenzo Nuzzo, Cos’è e cosa non è filosofia... cit.

18 Jonas Hans, Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio di responsabilità, Einaudi, Torino 1997.

19 Wolfgang Smith, The Quantum enigma: finding the hidden key, Angelico Press Sophia Perennis, San Raphael 2001; Wolfgang Smith, Christian Gnosis. From Saint Paul to Meister Eckhart. Angelico Press, Kettering OH 2008.

 

 

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