Il re complice
L’Italia dopo la guerra non ha vissuto, a differenza della Germania, un processo del tipo di quello di Norimberga. Questo vulnus giudiziario ha pesato anche sul giudizio storico sulle responsabilità delle istituzioni italiane e degli italiani circa le pagine nere del Novecento nel nostro Paese, a partire dalla dittatura fascista e dalle leggi razziste del 1938. Un processo di questo tipo non avrebbe potuto ignorare il ruolo assai negativo esercitato in queste vicende dall’ex re Vittorio Emanuele III e dalla Casa Savoia. Fu il monarca sabaudo nell’autunno del 1922 ad affidare a Benito Mussolini l’incarico di presidente del Consiglio, a seguito della farsa della marcia su Roma, assecondandolo dopo il delitto Matteotti nel varo delle leggi cosiddette “fascistissime” di soppressione delle libertà democratiche e delle libere elezioni e di persecuzione degli oppositori politici. Fu ancora re Vittorio Emanuele III a controfirmare di suo pugno le vergognose leggi razziste del 1938, discriminatorie nei confronti della minoranza ebraica, che con tanta passione civile aveva partecipato al Risorgimento e poi alla Grande Guerra, e a non opporsi alle successive misure persecutorie decise dal regime fascista, come ad esempio la reclusione degli ebrei stranieri e degli ebrei italiani “pericolosi” nei campi di concentramento in Italia (come quelli di Campagna e di Ferramonti di Tarsia) e i lavori forzati.
Un atto che fu vissuto come un vero e proprio tradimento dalla maggior parte degli ebrei, legati da un senso di affetto e riconoscenza ai Savoia, anche perché era stato lo Statuto albertino del 1848 ad “emanciparli” finalmente dalle discriminazioni e dall’epoca dei Ghetti. E sempre il monarca sabaudo diede l’assenso al patto tripartito con la Germania e il Giappone e nel giugno del 1940 all’ingresso in guerra al fianco di Hitler. Bastano a discolparlo, storicamente e dal punto di vista morale, il colpo di stato del 25 luglio e l’armistizio con gli Alleati? Sicuramente no. L’arresto di Mussolini arrivò troppo tardi, nel luglio del 1943, dopo venti anni di dittatura, e le trattative per l’armistizio e le conseguenze del suo annuncio furono gestite malissimo dal re e dal presidente del consiglio da lui incaricato, il maresciallo Pietro Badoglio. Non è tanto in discussione la fuga a Brindisi del re e dei vertici politici e militari (era necessario mettere al sicuro i rappresentanti legittimi delle istituzioni), ma l’assenza assoluta di un piano di uscita dall’alleanza con la Germania, abbandonando in balia dei tedeschi la capitale Roma (che poi sarà vittima della razzia degli ebrei del 16 ottobre) e centinaia di migliaia di soldati sui vari fronti di guerra, senza alcuna istruzione su come comportarsi. Fu l’ennesima vergogna di un re dimostratosi inetto, incapace e moralmente deprecabile, che aveva aperto le porte alla dittatura fascista e alla persecuzione degli ebrei, e non aveva neppure saputo uscire da questa situazione in modo degno.
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