I tipi antropologico-sociali. “L’auto-compiaciuto”
Dopo aver descritto i tipi antropologici legati alle professioni, passeremo ora a descrivere i tipi antropologici legati alle apparenze sociali. E naturalmente da questi ultimi possiamo e dobbiamo aspettarci decisamente qualcosa di più in termini di espressione dell’Essenza partenopea. Infatti, se in relazione alle professioni si pongono (come abbiamo visto) dei problemi etici molto rilevanti nel condurre una critica, la stessa cosa non si può certo dire in relazione alla stratificazione sociale. Ho già mostrato infatti che l’identità del Gran Lazzaro si manifesta a Napoli davvero tutti a i possibili livelli sociali, e quindi conosce di fatto una distribuzione trasversale.1 Quindi, muovendosi su questo piano, c’è davvero poco da meravigliarsi se del Gran Lazzaro si riscontra la presenza praticamente dappertutto. Tuttavia bisogna specificare che la dimensione trasversale viene qui intesa come quella che rappresenta la società nella sua interezza, ossia quella che raccoglie in un insieme simultaneo ciò che invece di solito (cioè più naturalmente) si ritrova disperso sulla falsariga di una serie di linee parallele decorrenti lungo la dimensione longitudinale. Nel nostro caso ciò avviene nel senso che la gerarchia sociale viene collocata proprio su ognuna di queste linee orizzontali continue, le quali poi vanno tutte un massimo ad un minimo. Naturalmente la linea trasversale che intercetti punti diversi di queste linee, deve essere obliqua secondo il seguente diagramma:
In tal modo, allora, la dimensione trasversale del piano orizzontale così rappresentato, ci restituirà una sorta di corpo. Che però sussiste per davvero solo quando vige la simultaneità, e non invece quando vige la successione. Si tratta insomma di un corpo concepito in maniera puramente retorica, in quanto è nei fatti assolutamente irreale. Nei fatti, invece, vige solo la successione, e quindi le differenze sociali restano vigenti in pieno. Tuttavia la complessiva identità imposta dall’Essenza, ossia quella di fatto incarnata dal Gran Lazzaro stesso (nella sua ubiquitarietà), rappresenta esattamente un’entità puramente retorica. Essa ambisce quindi a rendere reale ciò che invece nei fatti non lo è affatto. Pertanto appare evidente che la sua aspirazione non è lontanamente quella di lasciare insorgere un vero corpo sociale, ossia quello nel quale le differenze sociali (anche quando continuano ad esistere) vengano davvero trascese da qualcosa che le superi in valore. Se ciò realmente accadesse, noi ci troveremmo di fronte a quella dimensione solidale (ed in una certa misura anche solidaria) che è poi di un autentico corpo sociale. Quest’ultimo è per esempio quello che insorge quando un valore superiore è effettivamente l’elemento che costituisce il corpo. Ebbene, tale valore può ben essere rappresentato anche dall’identità biologica (se proprio si vuole, «di razza»), o anche culturale, oppure ancora dall’identità che insorge quando si persegue di concerto uno scopo comune. E quindi si potrebbe pensare che ciò valga anche per l’identità partenopea quale fattore di unificazione. Va da sé, però, che il valore è davvero tale solo quando è positivo. Lo è invece molto meno, o forse per nulla, quando è negativo. Ed ho fornito già elementi a sufficienza per la tesi secondo la quale l’identità partenopea, ancor più per il fatto che essa si manifesta proprio per mezzo del Gran Lazzaro, non può che essere negativa. Negativa sarà quindi anche la relativa retorica. E negativo sarà conseguentemente anche il corpo da essa generato. Esso è insomma solo la controfigura caricaturale di un vero corpo sociale. Tuttavia c’è qualcosa di più nella negatività di questa retorica. Essa è insomma particolarmente negativa in quanto è ben più sottile e insidiosa di quanto abbiamo appena visto esaminando la socialità inter-classista nella sua dimensione trasversale. In quest’ultimo caso, infatti, essa contraddice non a caso la sola dimensione longitudinale. Quest’ultima, però, se esprime apertamente le differenze sociali (decorrendo da un massimo ad un minimo), lo fa in maniera attenuata, e cioè non troppo drammatica. Ben diversamente stanno le cose quando invece la gerarchia sociale viene concepita verticalmente, ossia procedente dall’alto al basso. Ebbene, di certo anche in questo caso si potrà immaginare una linea trasversale obliqua che intercetta livelli sociali di varia altezza, e così trascende le differenze sociali. Ma il suo effettivo sussistere potrà davvero essere così credibile come nel caso precedente? Certamente no. Infatti la piena drammaticità della distribuzione verticale dei livelli sociali (ora per davvero «gerarchica») interverrà costantemente a smentirne la veridicità. Dunque, quando ci si pone al cospetto della dimensione verticale della gerarchia sociale, l’azione trascendente della dimensione diviene di fatto totalmente retorica. E quindi si pone come una vera e propria truffa. Ora, è esattamente questo ciò a cui ci si trova di fronte a Napoli, quando si prendono in considerazione i tipi antropologici specificamente sociali. Essi appaiono omogenei nella prospettiva trasversale, ma invece, quando ricollocati sulla prospettiva verticale della gerarchia sociale, essi si scompaginano totalmente. In modo che le differenze riemergono in tutta la loro drammatica realtà. Nella dimensione verticale, allora, noi potremo costatare in maniera ben più intensa e realistica cosa accade nel manifestarsi di un’unica identità, a sua volta determinata rigidamente dall’Essenza. Si tratta evidentemente solo di una truffa. E ciò di significa di fatto che lo status di “società” che il Leopardi2 (molto acutamente, e cioè in maniera lucidamente auto-critica) negava all’Italia intera, manca a Napoli in maniera ancora più lampante Proviamo dunque ad osservare da vicino questa fenomenologia nelle forme che più fedelmente la rappresentano. E ciò che immediatamente salterà agli occhi è proprio la truffa costituita da quella che è evidentemente solo una tragi-commedia. Ecco allora che immediatamente costateremo che a Napoli non vi è nessun tipo che incarni verticalmente il Gran Lazzaro come lo fa il dandy di cui abbiamo già parlato in diverse occasioni. Ultimamente lo abbiamo visto come il povero diavolo che, pronunciando il nome avvokäto con retorica distorsiva ed allusiva, si procura un buon posto – ma non certo nella gerarchia sociale bensì solo nella considerazione collettiva. La dimensione qui in causa è dunque proprio quella verticale, e ciò senz’altro nel senso della gerarchia sociale che in tal modo si pretende (ma solo truffaldinamente) di trascendere. E l’esigenza da realizzare sembra essere quindi quella dell’omogeneità del corpo sociale intorno ai gusti e valori che vengono imposti dall’Essenza. Ecco allora che la forma di fondo di tale assimilazione verticale resta il Gran Lazzaro, ma la sua sintesi più plastica risiede comunque nel dandy. Quest’ultima definizione del tipo è però fin troppo vaga e generica; e ciò in quanto essa non ha a che fare direttamente con la Napoletanità. Napoli infatti produce da sempre una sua versione molto specifica e molto locale del dandy. E quindi è ad essa che ora ci sforzeremo di dare un volto e conseguentemente un nome. Per farlo dobbiamo però prima costatare che la distribuzione verticale del dandy non è affatto solo allusiva, ma è invece effettiva, e cioè è realmente ontologica. Almeno sul piano della messinscena. Ciò significa che a Napoli ogni livello sociale ha il suo specifico dandy. Ora, nel tentare di rintracciare questi tipi (lungo la linea verticale sulla quale essi sono distribuiti), noi partiremo dall’alto – e cioè dal già più volte menzionato tipico «gran signore» napoletano –, per poi procedere verso il basso. Potremo così costatare come i diversi tipi raffigurati da un lato condividono tutti i tratti specifici del Gran Lazzaro, e dall’altro lato si lasciano poi tutti descrivere in maniera particolarmente pregnante per mezzo del dandy specifico che corrisponde rispettivamente ad ognuno dei livelli sociali esaminati. Naturalmente l’iconografia del napoletano ha trovato svariatissime forme nell’oleografia bozzettistica. E quindi anche in questo caso sarebbe vano tentare qui di ripercorrere tutte queste forme. Quindi, come ho fatto anche in altre simili situazioni, mi limiterò a proporre al lettore solo alcune tra le tante possibili immagini del tipo che si possono cogliere aggirandosi per Napoli. Ed ecco dunque come si può presentare oggi il classico «gran signore» napoletano. Devo dire però per precisione che il caso concreto dal quale traggo queste immagini è abbastanza emblematico in termini specificamente riduttivi; e cioè proprio in quanto il personaggio non è un nobile, ma è invece un borghese, anche se di davvero alto livello (per essere più concreti un «arricchito»). E questo è estremamente significativo. Dato che almeno gli aristocratici napoletani che ho conosciuto io – ma non posso dire se questa è la regola o meno – si preoccupavano molto di esibire un certo liberale understatement. E quindi si presentavano con caratteri ben diversi da quelli così marcati e sopra le righe che ora descriverò. È del resto ovvio che la raffigurazione più intensa dell’aristocratico può essere solo quella che volontariamente ne carica all’estremo i tratti. E questo può accadere solo nel caso che chi fa questo non è un vero aristocratico ma solo si sforza di passare per tale. Ebbene questo fenomeno assolve forse la nobiltà napoletana storica, ossia quella reale ed in carne ed ossa. Ma non assolve invece affatto il relativo cliché, ossia appunto quello del «gran signore». Chi infatti può aver introdotto quest’ultimo se non l’aristocratico stesso? E, se è stato lui stesso a farlo, allora quale motivazione migliore poteva spingerlo a compiere un atto di cui abbiamo appena costatato la sostanziale volgarità, se non il fatto che la sua nobiltà (per quanto comunque attestata dal sangue e/o dai titoli ufficiali) non era poi così autentica come voleva far credere? Non era insomma anche una «nobiltà d’animo». Laddove è evidente che l’assenza di quest’ultima invalida qualunque titolo, anche se basato effettivamente sul sangue. Ma qui ci troviamo di fronte ad un fenomeno storico-sociologico che è fin troppo noto per dovere essere discusso. Si sa infatti molto bene che una buona fetta dell’aristocrazia napoletana si è conquistata il proprio titolo di fatto acquistandolo letteralmente.3 E quindi su questo non credo di dover dire di più. Al proposito va però citata una suggestione molto significativa che traggo dal Campanella.4 Essa ci mostra infatti proprio quanto forte sia la reale assimilabilità anche dell’aristocratico partenopeo all’identità del Gran Lazzaro: – “Dicono ancora che la povertà grande fa gli uomini vili, astuti, ladri, insidiosi, fuorasciti, bugiardi, testimoni falsi; e le ricchezze insolenti, superbi, ignoranti, traditori, disamorati, presumitori di quel che non sanno. Però la communità tutti li fa ricchi e poveri…”. In ogni caso abbiamo ora davanti a noi un nobile che non è per davvero un nobile, ma che intanto impegna tutte le sue forze per cercare di sembrarlo. E di quali forze si può trattare se non di quelle proprie della tipica teatralità partenopea di cui abbiamo già parlato. Ma lasciamo ora parlare finalmente i fatti. Egli si presenta a noi sempre con foulard vistosi e vaporosi, ma dai colori teneri e discreti. E questo è di fatto il suo biglietto da visita. In particolare il messaggio è: – «Sono ricco, e dunque liberale per definizione. Quindi possiedo tutti i titoli per sapermi divertire e saper divertire. Sono un eccentrico quanto basta. Insomma posso essere straordinariamente vezzoso e simpatico, ma lo sono solo in maniera ricercata, e cioè ad alti livelli. Cioè come un vero gran signore napoletano». E naturalmente la prova di ciò che dice verrà da quella provenienza dei capi e degli eccentrici quanto divertenti foulard che egli indossa, che il pari in grado senz’altro riconoscerà a fiuto. Egli saprà infatti perfettamente da quale costoso negozio tutto ciò è uscito. E questo è il primo colpo che egli assesta agli astanti. In tal modo, allora, i pari in grado lo riconosceranno come uno dei loro (che sia davvero aristocratico o meno). Quanto invece a coloro che stanno al di sotto del suo livello, essi dovranno (interiormente o esteriormente) fare atto di sottomissione. Dunque, egli così ci informa di essere un «gran signore» nella maniera più accettabile e liberale possibile, ossia quella amabile, scherzosa, simpatica, e insomma affatto escludente. Il che è poi perfettamente in linea con il cliché della tradizionale «simpatia» napoletana. Egli ci informa dunque del fatto che nel suo caso i crismi della Napoletanità vengono tutti rispettati. Tuttavia la cosa non è affatto così facile e piana, come sembra entro questa dichiarazione preliminare. Che è pertanto evidentemente solo di facciata, e quindi appena provvisoria. Sarà dunque la messa in atto del copione che a dimostrarlo. E deve farlo, perché ne va degli aspetti davvero più importanti della recita del «gran signore», e cioè quelli che stanno immediatamente sotto la superficie, e quindi vengono subito dopo il manifestarsi di quest’ultima. E così ben presto noi ci accorgeremo che il nostro alterna con l’ilarità ridanciana momenti di una serietà glaciale che evita con cura qualsiasi indulgenza alla scontatezza dell’amabile relazione con gli altri. I rischi (perfettamente previsti dal copione) sono qui infatti due. Il primo rischio è quello dello scadere in una spontaneità dell’agire che a Napoli è considerata quanto di peggio possa esistere. Come ben visto da La Capria5 (e come del resto sappiamo bene tutti noi), infatti, il Napoletano recita sempre. E sa, inoltre, che sarà tanto più apprezzato e riconosciuto quanto meglio riuscirà a recitare. Il che vale naturalmente in maniera decuplicata per il «gran signore». Dato che egli ha il preciso dovere di incarnare la quintessenza in excelsis del Napoletano. Il secondo rischio sta poi in stretta correlazione con il primo. Infatti proprio colui che è eccessivamente spontaneo nell’agire (e quindi in questo caso specifico viene molto deplorevolmente meno alla dignità che spetta al suo status) è in verità null’altro che un «fesso». Colpa che, come sappiamo, a Napoli è assolutamente imperdonabile. Accade dunque che questi rischi devono essere accuratamente evitati da colui che vuole mostrarsi come un «gran signore» davvero all’altezza della sua dignità. E di conseguenza la bonarietà spontanea dev’essere assoggettata a limiti molto rigorosi e severi. Ecco che allora l’espressione assente che ad un tratto compare sul volto del nostro ‒ non si sa quanto studiata e quanto invece appena il prodotto di un’ottusità determinata dal troppo cibo, da un bicchierino di troppo, o solo molto semplicemente dalla stupidità che, al di sotto della posa, deve pur affliggerlo ‒ comincerà ad essere quella di un incipiente disprezzo. Per quanto ancora rattenuto. La sua moderazione si esprimerà pertanto come ostentazione di indifferenza per chi si trova nelle sue immediate prossimità. Specialmente se costui ha la sfortuna di non essere un suo pari in grado, e quindi come tale non solleciterà in lui quella curiosità assolutamente non spontanea, la quale va sempre avidamente alla ricerca dei possibili vantaggi che l’altro potrebbe procurargli (conoscenze utili o altolocate, divertimenti esclusivi, e quant’altro). E dunque il messaggio lanciato dalla sua indifferenza a chi a lui non interessa affatto sarà il seguente: – «Tu, nullità che non sei altro, non illuderti di poter godere tanto facilmente della mia simpatia di gran signore! E quindi stai al tuo posto e non ti allargare troppo». E così il «gran signore» ascolterà il proprio vicino solo quanto basta, e dunque non oltre certi limiti; ossia appena in quei casi che vengono previsti dal copione o dall’interesse. Nel resto del tempo invece lo ignorerà glacialmente con aristocratica superiorità. Per poi snobbarlo in vari modi quando avrà perfino l’ardire di parlare. Naturalmente comunque egli verrà scosso almeno un poco dalla sua posa apatica allorquando la conversazione inizierà a vertere su quei temi che offrono possibilità di applicazione alla tradizionale «intelligenza» napoletana, e cioè quel furbesco cinismo dietrologico che infallibilmente scova congiure ed imbrogli laddove gli altri invece non vedono nulla. Ma finalmente i suoi occhietti brilleranno per davvero, e la sua apatia si dileguerà del tutto, quando nella conversazione si affacceranno questioni di soldi o di potere, citazioni di nomi preclari, argomenti di moda, possibilità di ostentazione di piaceri e agi. E quant’altro. Tuttavia, al di là di tutto questo, l’ilarità soverchiante resta comunque in lui il tratto dominante. Per cui essa si manifesterà spesso e volentieri, almeno laddove gli obblighi della posa non lo proibiscano. Più precisamente si tratta di quell’ilarità indifferenziata che è tipica del dandy partenopeo. Del resto la natura aiuta molto il nostro nell’esprimersi al meglio in questo modo che è poi così apprezzato dallo spirito partenopeo. Infatti la sua mascella volitiva e la candida dentatura da cavallo che egli possiede, non a caso lo presentano, quando ride, esattamente come il più caratteristico «gran signore» della tradizionale oleografia bozzettistica. Dunque, cosa possiamo riconoscere in questo complesso di tratti in modo da risalire al volto più pregnante e sintetico del dandy à la napolitaine? Non è difficile rispondere. Ciò che domina infatti tutta questa teatralità mimico-gestuale, e tutte queste pose, è la certezza incrollabile di essere esattamente come si deve essere – almeno secondo il locale canone. Il che implica la certezza incrollabile si riuscire gradito. Ma soprattutto implica la ben più primaria certezza incrollabile di riuscire gradito a sé stesso. Ecco dunque il vero volto del dandy napoletano, e eccone insieme anche il nome specifico – egli è in primo luogo un auto-soddisfatto, ossia un uomo che si piace illimitamente ed incondizionatamente. Altra plausibile definizione è quella di auto-compiaciuto. E dato che essa è più pregnante dell’altra, sarà proprio questa che impiegheremo da ora in poi Inoltre costui è consapevole del fatto di potere davvero essere così proprio solo perché «è napoletano». È insomma il fedelissimo rispecchiamento dell’Essenza – qui colta nell’aspetto specifico delle bonarietà e simpatie proprie per definizione del Napoletano – ciò che gli offre su un piatto d’argento la possibilità preziosa di piacere a sé stesso in maniera incondizionata. Dunque è proprio vero che egli considera Napoli come quella generosissima e amorosissima Madre, la quale, quale suo figlio, lo «ha fatto bello». La sua è insomma la gratitudine infinita del Gran Lazzaro verso quella Terra che è per lui Padre e Madre, in quanto è vera e propria Persona divina. Nulla da meravigliarsi quindi che, se guardiamo le cose dal rovescio della medaglia rispetto a questa intera messa in scena retorica, noi ci accorgeremo immediatamente che l’ostentata superiorità di questo figuro scaturisce esattamente dalla sua sostanziale ed oggettiva inferiorità. Inferiorità che però si può misurare solo in relazione ad un metro totalmente esterno alla sostanza di Napoli. E direi che lo stesso può valere più in generale anche per il «gran signore» quale cliché. Esso insomma per definizione implica un’inferiorità che però, con la maggiore impudenza possibile, si spaccia per superiorità. Proprio questo ci rinvia però di nuovo fatalmente all’aristocrazia napoletana storica. E più precisamente ciò avviene per la via del personaggio prototipico più prossimo (ascendendo la nostra linea verticale) al nobile da burla che qui fa così bella mostra di sé. Ma questo prototipo è aristocratico in maniera essenziale, e non più invece solo accidentale. Il cliché insomma lo riguarda molto da vicino, eppure non lo rappresenta totalmente come nel caso del «gran signore» che abbiamo appena esaminato. Sto parlando insomma del prototipo stesso dell’aristocrazia; ed in senso assoluto, ma soprattutto effettivamente storico. Eccoci allora davanti al Re. Sarà dunque un caso che quei Re, che a Napoli sono stati più Re che mai (nell’immaginario popolare da loro stessi perfettamente condiviso), sono stati nei fatti per davvero dei Re da burla; e ciò esattamente come il nobile da burla che abbiamo appena visto sfilare davanti ai nostri occhi? Eccoci insomma davanti alla teatralità napoletana colta nel suo aspetto più insidioso e malefico – in quanto perfettamente in grado di inscenare spettacoli storici, e quindi dagli effetti drammatici assolutamente tangibili. Nessuno più del Re da burla, infatti, contraddice in maniera più lampante il valore che può e deve venire accordato al Re come figura politica in quanto anche figura etico-, politico- e metafisico-religiosa. Ciò che va constatato allora – una volta avvalorata la Monarchia come possibile valore – è che di fatto Napoli il vero eletto prende il posto del non eletto. E ciò nel mentre il falso eletto resta saldamente installato nel luogo dell’usurpazione già consumata. Ed ecco allora che, come ho già detto, chi è aristocratico è costretto a porsi paradossalmente contro il potere regale per smascherarne l’usurpazione della nobiltà ideale. E esattamente ciò che fa il Pečorin di Lermontov.6 È evidente allora che nulla rappresenta meglio il Re da burla come lo fa quell’Oscuro Signore che detta l’Essenza negativa dell’identità partenopea, ossia il Gran Lazzaro in carne ed ossa. Ecco allora che il «gran signore» ha, quale primario tipo antropologico-sociologico, il grandissimo merito di approssimarci di molto alla contemplazione dell’Oscuro Signore; e ciò in modo tale che noi possiamo convincerci della sua effettiva esistenza. Il che significa allora che, proprio per questo motivo, i tipi antropologico-sociali hanno un’utilità davvero ben maggiore (nella lettura profonda di Napoli) di quelli professionali. Dunque è proprio sulla scorta di tale costatazione che noi possiamo ora procedere (in direzione discendente) nella ricerca degli altri tipi di dandy napoletani. Ora però sappiamo anche che dobbiamo cercarli nella forma specifica di auto-compiaciuti. Cominciamo quindi ad osservare da vicino la forma più esplicita e diretta dell’auto-compiaciuto, e cioè quella non solo più paradigmatica ma anche più intimamente connessa con il paradigma. E ciò anche perché questo avviene per mezzo di un impersonamento attivo e consapevole del paradigma. Le altre forme che poi ne osserveremo sono invece in vari sensi molto più indirette. Bene. Il fatto principale da osservare è che a Napoli di fatto chiunque può fare il dandy. Ed infatti gli esempi di esso davvero non si contano. È dunque un dandy ilprestante agente di PS o dei Vigili Urbani motociclista (specie quando inforca occhiali scuri aereodinamici ed esibisce un corpo atletico). Così come lo sono allo stesso identico modo lo spacciatore agghindato a fighetto, l'impiegato comunale, il garzone di salumeria, il banconista di negozio di ferramenta, il professore universitario a contratto, il lustro e sussiegoso cassiere di cinema della «città cartolina», e perfino il portiere dei palazzi di questo stesso luogo. Ma questo accade per il semplice fatto che il napoletano fa teatro sempre, per definizione e per razza. E questo significa allora che il Napoletano può fare il dandy solo nello specifico modo della perizia teatrale che per natura gli compete. Abbiamo già visto, però, che quest’ultima a Napoli non è affatto generica, ma è invece estremamente specifica. Essa infatti mette in scena propriamente «napoli» (come valore), e quindi di fatto l’Essenza stessa della Napoletanità. Ora, dandy il nella forma specifica di auto-compiaciuto, è ciò che è proprio per il fatto principale di piacersi illimitatamente; ossia in forza di quell’elemento dandistico centrale che è costituito dall’auto-consapevolezza di sé quale essere umano di valore. Noia siamo però intanto a Napoli, e non invece in un posto qualunque. Ed abbiamo anche appena detto che a Napoli nulla si fa senza fare teatro. Infine abbiamo specificato che l’atto teatrale mette invariabilmente in scena Napoli stessa. Questo allora implica che l’auto-compiaciuto – in qualità di autentico campione della teatralità partenopea (quale auto-rappresentazione da parte di Napoli) ed insieme del dandismo (quale auto-consapevolezza del proprio valore) – non può fare altro che auto-rappresentarsi, nell’auto-compiacersi, in quanto è profondissimamente consapevole di essere napoletano. È evidente allora che questa costellazione psicologica deve assolutamente escludere qualunque motivo circostanziale che possa fare sentire un dandy colui che la impersona. Qualunque motivo circostanziale sarà infatti sempre appena accidentale, rispetto alla principale motivazione della costellazione psicologica e del comportamento che la esprime. Il primo tra tutti i motivi accidentali che viene qui escluso, è pertanto quello economico-sociale. Il che è poi esattamente quanto fa sì che – per quanto il «gran signore» sia oggettivamente il più eccelso tra i dandies auto-compiaciuti (ossia il loro paradigma stesso) –, di fatto però (come ho detto prima) a Napoli chiunque può di fatto impersonare questa tipologia. Anzi direi che, posto che essa esprime davvero appieno la Napoletanità, l’impersonare la tipologia del dandy auto-compiaciuto rappresenta un vero e proprio dovere del Napoletano. Chi non può o non sa esserlo, è pertanto un perdente in partenza, ossia un uomo destinato ope legis all’oscurità ed all’insuccesso. Ma comunque, se perfino la condizione socio-economica è meramente accidentale per sentirsi un auto-compiaciuto, ancor più lo saranno elementi ancora più secondari (una volta presi in sé) – possedere una caratteristica fisica o intellettuale, occupare nella società un determinato posto (per professione, meriti o anche nascita), vestire in un certo modo, abitare in un determinato quartiere, etc. A meno che però essi stessi non rientrino nel copione dell’auto-compiaciuto che l’Essenza ha fissato una volta per tutte e per sempre. Appare evidente, dunque, che i presupposti perché si verifichi in pieno la condizione di auto-compiaciuto sono puramente copionali (ossia canonici), e pertanto in alcun modo casuali o arbitrati. E questo del resto lo sanno benissimo tutti. Prova ne sia il fatto che il tipo, quando davvero sussiste, viene da tutti infallibilmente riconosciuto. Ecco allora che, se alcuni possibili motivi accidentali vengono manifestati dal tipo, ciò può avvenire solo perché essi sono totalmente consustanziali con il canone teatrale; e quindi stanno necessariamente in perfetta linea con l’Essenza. Mi sembra che sia esattamente questo il motivo per cui una motivazione come la professione (che in sé con tutto questo non ha nulla a che fare) può davvero essere sentita dall’Essenza come capace di esprimerla; e quindi può venir riassorbita totalmente in essa fino a diventarne addirittura parte integrante. In ogni caso il fenomeno del riconoscimento dell’auto-compiaciuto appare essere di importanza davvero cruciale. Ciò avviene perché il tipo può essere ciò che è, ossia può essere davvero convinto di essere il meglio del meglio, soltanto se riesce anche a convincere realmente gli altri che le cose stanno proprio così. Ed è esattamente per questo motivo che egli non potrebbe essere ciò che è, se intanto non mettesse avanti praticamente sempre un sorriso assolutamente inossidabile. Si tratta del biglietto a visita che non a caso abbiamo visto messo avanti proprio dal «gran signore». È proprio il sorriso, allora, il segnale inviato tutt’intorno alla ricerca di risposte. E quando l’auto-compiaciuto è davvero autentico, le risposte verranno di sicuro. Egli viene infatti immancabilmente riconosciuto. E chi lo riconosce è inevitabilmente anche complice della sua esibizione teatrale, con tutti i significati ad essi connessi sul piano dell’attuazione della Napoletanità. Fatto sta però che, una volta trovati finalmente i complici del comportamento – e dato che il lemma del tutto è il sorriso inossidabile quale prova di incondizionata felicità –, si costituisce così immediatamente il quadretto teatrale dell’«essere-felici-di-essere-napoletani». In tal modo quindi il motivo primario della fortunata e felice auto-consapevolezza – il sapere di essere napoletano –, da individuale diviene ora collettivo. E questo fenomeno è facilmente riconoscibile come qualcosa che si muove a cerchi concentrici, e precisamente secondo un paradigma di progressiva moltiplicazione iperbolica, che non può non fungere da costitutore di una dimensione sociale destinata ad essere quanto più ampia possibile. Ecco allora che quell’unitarietà fittizia e retorica, che abbiamo visto analizzando il fenomeno del «gran signore», può essere ritrovata qui in un’ulteriore sua forma. L’obiettivo di entrambe le forme sembra però lo stesso. Esso è cioè quello di generale una dimensione sociale unitaria tanto meramente retorica (ed infatti solo teatrale) quanto viene riconosciuta da tutti come il valore dei valori. È insomma l’«essere-napoletani» (o meglio ancora il «riconoscersi-scambievolmente-come-napoletani») nella sua pienezza. Sentimento più che vissuto, ossia costatazione priva di un vero oggetto – autentica «forma vuota» mentale che non ha ancora trovato riempimento, ma invece appare come se l’avesse trovato. Possiamo quindi da ciò desumere il senso (puramente di facciata) che in tutto questo quella «felicità», che pure ne costituisce l’elemento davvero cruciale. La dimensione dell’«essere» ci segnala comunque che in tal modo noi ci troviamo di fronte ad un’ontologia di fatto (per quanto solo fittizia e retorica), ossia la specifica ontologia napoletana. E dev’essere esattamente per questo che i Napoletani sono incrollabilmente convinti che «Napoli è la più bella città del mondo». Si tratta evidentemente di un comparativo che poggia esattamente sulla retoricità puramente fittizia di quell’operazione che intanto reca a tale risultato. Siamo insomma chiaramente davanti ad una truffa! E in fondo tutti noi ne siamo perfettamente consapevoli. In ogni caso possiamo riconoscere proprio tutto questo, in quanto accade sullo sfondo dei fatti, allorquando a Napoli l’atto del riconoscimento dell’auto-compiaciuto (alla cui radice va però riconosciuto sempre un auto-compiaciuto stesso) avviene o nelle cose (e così si parla di «bella gente» e «bei luoghi»), oppure ancor più nelle persone. In questo ultimo caso infatti il riconoscimento è ancora più pieno; e ciò in quanto esso lascia emergere quel «nome-cognome», preclaro per definizione, che poi vedremo rappresentare un fenomeno sociale a parte (ed estremamente caratteristico di Napoli). Naturalmente, per tutto quanto ho appena detto – ed in particolare a causa della sua mera retoricità teatrale, che nulla può avere a che fare con la spontaneità (e quindi con la vera fisiologia della felicità) –, la felicità che qui viene esibita per mezzo del sorriso non può essere assolutamente credibile. Meno ancora perché non a caso essa (appunto in quanto teatrale) si presenta nella sua forma più sopra le righe, e cioè come una sorta di fissità estatica. Quest’ultima tradisce però perfettamente il vero sottofondo del gesto. La fissità estatica del sorriso intende infatti rinviare all’inviolabilità della condizione di felicità, e quindi più in generale all’invulnerabilità di chi ne gode. Ora, è evidente che qui gioca senz’altro un ruolo molto intenso la tendenza così partenopea alle superstizioni scaramantiche. Ma il nucleo vero del fenomeno non è affatto questo. Esso risiede invece ancora una volta nella natura assolutamente menzognera di tutto ciò che a Napoli si tenta di far passare per amabile e bonario, e quindi sentimentalmente ed eticamente positivo. Dietro cova infatti inesorabile l’aggressività maligna del Gran Lazzaro. E quindi, nel caso specifico, ciò che di fatto si vuole dire è questo: – «A ma va benone! Quanto poi a voi, non me ne può fregare di meno. Anzi, peggio voi state, meglio sto io». Si tratta insomma della replica del già commentato scarpettiano “Qui rido io”. La pienezza del messaggio può essere poi colta perfettamente in un’altra forma di affermazione che poi si sposa perfettamente con lo spirito può profondo del sorriso. Quando infatti voi chiederete come sta al Napoletano più posaiolo (ossia quello più schiacciato dal paradigma dell’auto-compiaciuto), vedrete che egli vi risponderà invariabilmente: – «Benissimo!». E lo farà quasi di riflesso, ossia fulmineamente e senza né esitazioni né pensieri. Il che equivale poi al costante impiego di quella prudenza (senz’altro diabolica) che impone di non lasciarsi mai cogliere impreparati, e così di farsi mai sorprendere. Ed infatti la totale impermeabilità alla sorpresa (come poi vedremo più avanti) è un altro tratto distintivo del Napoletano auto-compiaciuto. Ma comunque in tal modo viene ad espressione pienamente quel costante dimostrare di trovarsi sempre e comunque a proprio agio – cosa però da riconoscere come possibile solo a chi a Napoli si sente come un pesce che nuota nella sua propria acqua –, che è poi proprio dell’auto-compiaciuto (almeno quanto lo è anche il suo così inossidabile sorriso). Dunque il tutto è perfettamente coerente con il negativo influsso che viene costantemente ed incoercibilmente esercitato dall’Essenza in qualunque comportamento dei Napoletani. Ecco allora che in tal modo tutti i conti tornano sempre e fatalmente! Certo è comunque, allora, che quel sorriso che noi vediamo così ostinatamente portato in giro – esso assomiglia così impressionantemente al Fallo di Dioniso portato in processione nella forma del “liknos”, ossia come un bambino nella culla7 –, in realtà non è in realtà altro che un ghigno. Ed allo stesso modo quindi la relativa felicità non è affatto spontanea e partecipativa, come invece dovrebbe essere (se fosse davvero normale). Ma è invece usurpatoria e violenta, cioè è rapinosa. Essa toglie a te, perché io abbia ciò che tu intanto non hai più. Dunque essa è satanica, o almeno titanistica. Quindi è sostanzialmente dionisiaca (ma nel senso peggiore, ossia quello più superstizioso). Tuttavia, in termini più moderni, possiamo ben dire che si tratta di un vero e proprio narcisismo. Ma non si tratta di un narcisismo che resti costantemente riconoscibile come patologico. Si tratta invece di un narcisismo che viene costantemente riconosciuto come fisiologico, ed anzi viene addirittura altamente desiderabile. Ed infatti il presentarsi atteggiato come un auto-compiaciuto è un segno inconfondibile di quella “napolitudine” o meglio “napoletaneria” (La Capria)8, che è stata intanto già timbrata e certificata. E proprio per questo è di per sé un biglietto da visita destinato a far colpo infallibilmente. Ecco allora che, proprio per il suo tramite, quel collettivo «esser-napoletani» che è frutto dell’onto-produzione da parte dell’Essenza (per mezzo dell’agire dei propri Figli), si rivela essere esattamente ciò che ricostituisce continuamente una corporalità sociale che è sostanzialmente insana (per quanto si voglia sempre mostrare in tutta la sua positività gioiosa). Quale tessuto sociale, insomma, essa è solo e soltanto cancerosa; e dunque è per definizione malata. Assolutamente nulla di brioso e vitale, come invece si vorrebbe far credere Di certo, però, si può e si deve leggere in tutto questo anche l’aspetto che sta al di là della specifica consapevolezza indotta dallo Spirito del Luogo. Osservati in maniera più obiettiva, infatti, tali fenomeni (specie nella loro forma narcisistica), si lasciano riconoscere in tutta la loro obiettività negativa più assoluta. Quella che sembra gioia, è cioè nei fatti dopotutto solo disperazione. E quello che sembra orgoglio, è invece dopotutto solo vergogna, ossia senso di inferiorità. E sono esattamente questi sentimenti negativi quelli che la retorica fattasi ormai ontologia (l’ormai costituitosi «essere-napoletani») cerca a tutti i costi di occultare. Di essi infatti è semmai perfino lecito avere il sentore, entro la cerchia dei «napoletani». Ma guai a far trapelare all’esterno il segreto esoterico intanto così gelosamente custodito! L’ostentazione dell’orgoglio è infatti l’unica arma che il Napoletano conosce per nascondere quel profondo senso di inferiorità, del quale egli è più che consapevole. E tutto ciò viene chiaramente tradito da quella così vuota quanto tipica retorica, secondo la quale Napoli sarebbe un luogo che letteralmente brulica di quelle cose naturali e creazioni umane “che tutto il mondo ci invidia...”. Ma naturalmente il mondo nemmeno sa che queste belle cose esistono proprio a Napoli. Ecco allora che il ripiegamento su stesso dell’auto-soddisfatto non è da considerare altro che un narcisismo auto-celebrativo, e dietro il quale in realtà si nasconde sempre una profonda disperazione da cronica frustrazione e da senso di inferiorità. Ebbene, così abbiamo definitivamente smascherato il tipo. E sì che era necessario farlo! Tuttavia non ne abbiamo ancora descritto in dettaglio i tratti. E questo è dunque quanto ora ci resta da fare. E allora osserviamolo infine davvero da vicino l’auto-compiaciuto. Qui dove noi lo troviamo, egli è un ragazzo qualsiasi, un garzone in una delle tante attività che a Napoli si svolgono in immediata prossimità della strada e della gente. Non avrebbe dunque un solo motivo per essere così intensamente e totalmente soddisfatto di sé. Eppure lo è. O almeno si sforza di darlo a vedere. Insomma egli si attiene al cliché. E si può giurare che in un certo senso lo fa in maniera perfino innocente. Non è particolarmente bello, ma intanto si presenta come un bel ragazzo. Ovviamente nelle forme copionali che a Napoli fissano questa apparenza. Così si muove avvitando lentamente il busto e la testa lungo immaginarie ed armoniose traiettorie curviformi. Nel frattempo poi muove impercettibilmente le mani e tiene le labbra atteggiate ad un impercettibile fischio di disinvoltura. Intanto il suo sguardo resta però indecifrabile ‒ perso, chiuso, freddo, torvo, annoiato? Chissà? Quel che è certo è che egli sa esattamente cosa sta facendo. E quindi anche l’indecifrabilità dello sguardo deve avere un suo preciso senso. Infatti essa vuole suggerire a chi osserva che è come se lui sapesse già tutto di tutto, e quindi nulla potesse in alcun modo sorprenderlo. Eccola, allora, l’ostentata impermeabilità del Napoletano all’imprevisto, all’Evento. Ma ciò configura anche quella non chalance che allo stesso modo il Napoletano si compiace molto di dimostrare. E che peraltro gli viene anche universalmente riconosciuta nella forma di una presunta simpatica «indolenza». In effetti si tratta molto più del già commentato «non fa niente» («nun fa niente»). Ed esso ha però un significato che va ben oltre quello della sola indolenza. Insomma qui si tratta molto più della già ben nota esibizione di superiorità. Superiorità che il Napoletano evidentemente vanta anche in relazione allo stesso Fato, se non all’Essere stesso nella sua possibile inviolabile maestà. Ma non vi è infatti nulla al mondo che sia più grande del Napoletano! Inevitabile che questo complessivo comportamento trovi la sua più piena ed appropriata espressione in quel genere di auto-compiaciuto che ha per davvero tutti i titoli per credere di esserlo (ed anche per esserlo in maniera piuttosto oggettiva). Parlo insomma del vero e proprio dandy. Che noi vedremo incedere in maniera molto simile al nostro povero garzone, ma solo per le strade della Napoli che è più Napoli. In ogni caso, però, nell’osservare il nostro povero ragazzo, noi di fatto osserveremo anche questo così ricercato e splendido dandy – superbo esemplare della più pura razza partenopea, e quindi rampollo privilegiato di atavici Privilegiati. E così, naturalmente, i suoi tratti somatici (occhi invariabilmente azzurri, capelli invariabilmente biondi, membra allungate etc.) ne tradiranno chiaramente l’origine razziale in quella schiatta di conquistatori nord-europei che molto tempo fa travolsero Roma e con essa anche quella Magna Grecia che a Napoli ancora viveva. Il poveretto che invece abbiamo davanti non ha una sola di queste caratteristiche. Eppure si comporta esattamente allo stesso modo del nostro così ricercato dandy della Napoli che è davvero Napoli. E così si muove con gesti lentissimi e misuratissimi – nulla è dunque fuori posto nel senso di una casuale quanto riprovevole spontaneità. Trascina intanto le gambe indolentemente, come se dovesse superare una qualche resistenza esercitata dall’aria. E nel mentre il suo sguardo, che si fissa sulla commessa della panetteria, restando ancora ostinatamente vuoto e privo di espressione, vuole passare per serio e concentrato. Dunque è interessato ma è anche totalmente disinvolto – come se davvero non gliene fregasse nulla. Egli insomma resta aperto ad ogni sviluppo. Non è dominato da alcuna autentica passione, da alcuna attesa, da alcun radicamento, da alcuna dipendenza da un bisogno. È assolutamente disinteressato, è assolutamente libero, è assolutamente indifferente, è assolutamente padrone degli eventi e delle cose. Ma sarà poi vero? Forse che l’impermeabilità alla sorpresa, propria del Napoletani, non è appena il fenomeno complementare di quell’altro fenomeno, già visto, che è la totale chiusura alle novità in un conformismo gretto quanto rigorosissimo e soffocante (che tutto controlla e perfino reprime)? Tuttavia il Napoletano non ammetterebbe mai una cosa del genere. E ciò per il semplice motivo che tale ammissione lo depriverebbe di quella sua grandezza che vuole presentare sé stessa esattamente come sovrano ed olimpico disinteresse, come superiore assenza di calcolo, come divinità sovrumana dell’animo. Egli infatti è per natura un «gran signore». E lo è esattamente perché la Fortuna lo ha baciato facendolo nascere proprio a Napoli. E così è proprio tutto questo che noi potremo scorgere, dietro quello che c’è ancora da osservare nel comportamento del nostro giovane garzone. Egli cammina infatti con il busto sbilanciato all’indietro, indolente e sovrano, con le gambe un po’ divaricate, tra il trasandato e il guascone. È in questo atteggiamento che egli prende ora a salutare gli amici con un sorriso disteso e rilassato. Nulla lo sorprende. Lui sa tutto, conosce tutti e controlla tutto. E questo accade perché e solo perché Napoli è il suo mondo. E lui non ha alcun bisogno di altri mondi. Qui infatti c’è il mare, il sole, la spiaggia, la barca, Procida, Ischia, Cäpri, le belle donne, gli amici simpatici, la sfogliatella, la pastiera, la zuppa di cozze, lo spaghetto all’astice, la mozzarella, e il greco di tufo. E ci sono anche il cuore immenso dei Napoletani, e la Magna Grecia dalla quale tutti proveniamo (ignoranti o meno che siamo), e Carlo V e la Battaglia di Lepanto, e tutti i filosofi e poeti e cantori, e ‘nu pianoforte e lluna, etc. Qui c’è insomma tutto quanto si può desiderare per essere felici! E cosa importa allora se sei povero e non conti nulla? E che quindi durante la tua intera esistenza sarai tenuto ai margini di quella che è la Napoli che davvero, fattivamente, se la gode. Che importa questo? Se tu, per nascita, sei stato ammesso a godere del privilegio di startene proprio su quell’immenso palcoscenico sul quale intanto si svolge questa così allegra ed appassionante piêce teatrale. Naturalmente chi nega la realtà effettiva di tutto questo può essere solo un idiota, un infelice per nascita, un patetico tristagnuolo, un malato di autolesionismo, uno che “non ha capito nulla della vita” (sic!). Insomma costui a Napoli è il reprobo per eccellenza. Ciò che invece conta, e afferma la verità, è solo il beotismo del sorriso estatico mai spento. È soltanto in esso che si riconosce il Napoletano e solo il Napoletano. Perché il Napoletano non è tale se non è invariabilmente felice. Ma attenzione! Non lo è davvero fino in fondo se intanto si limita ad essere solo felice, e non è invece nello stesso tempo anche straordinariamente furbo. Tanto furbo dal riuscire con il suo sorriso a far credere agli altri che ciò che egli prova è davvero il piacere di stare con loro. Ed in effetti dal successo di questo inganno dipende strettamente il successo di quella strategia che permette al Napoletano-tipo di riuscire sempre a mettersi al posto che l’altro avrebbe dovuto occupare. Ma ora, con la conoscenza che abbiamo ricavato in tutta questa osservazione, allarghiamo finalmente il raggio del nostro sguardo. Dunque non guardiamo più al singolo, ma invece al gruppo. Guardiamoli, allora, i napoletani, guardiamoli mentre passeggiano, mentre stanno a cena, mentre conversano. È forse per davvero l’allegria ciò che li contraddistingue? – almeno nel momento in cui il loro desiderio è proprio quello di mostrarsi in pieno per quello che sono, ossia Napoletani purosangue. No! Non lo è. È invece come sempre solo e soltanto l’inossidabile sorriso estatico-beotico. Esso segnala ora la volontà incoercibile di «stare bene» a qualunque costo. Volontà che poi comporta la decisione a «divertirsi» a qualunque costo e qualunque cosa accada. Decisione che porta sempre con sé la determinazione ad impedire che chiunque o chicchessia venga anche solo minimamente a turbare o alienare il godimento di questo supremo diritto. A coloro che ci interrogheranno domani (in ufficio o per telefono o per strada) sulla serata appena passata, noi dovremo infatti poter dire in piena coscienza: – «Ieri siamo stati proprio bene! Ci siamo divertiti!». Non c’è infatti degnità ed onore più grande a Napoli. Chi non può mostrare di godere di essi, è quindi solo un poveretto. E dunque questo perenne insoddisfatto – colui che di Napoli (ed anche del mondo) continua a denunciare la bruttura – costituirà esattamente quel insopportabile ed infinitamente irritante fattore di disturbo, che va con ogni cura evitato quando si «sta insieme». Egli è un inammissibile guastafeste. Categoria che a Napoli non ha alcun diritto di domicilio. Perfino in galera, il galeotto redarguisce severamente il compagno di cella che si mostri triste – «Nun ce ne fai vedè bene da galera!», gli dice scocciato. E sarebbe ben capace anche di picchiare o di uccidere per questo. Dunque a Napoli si ride solo. Si ride e basta. E non ci sono eccezioni a questa regola. Perché Napoli affiorò un giorno dal mare (come Afrodite a Cipro) proprio per questo – per far ridere e godere! Ecco credo con questo di aver assolto a gran parte del compito che mi ero prefissato. Ma sta di fatto che nel discendere la linea verticale della gerarchia sociale sono andato un po’ troppo veloce. E così sono arrivato fin troppo in basso. In tal modo sono passato dal «gran signore» (o almeno presunto tale) al proletario. In mezzo però c’è il vero borghese. E quindi a quest’ultimo almeno un po’ di attenzione bisogna pur dedicarla. Anche se è vero che a Napoli ci sono di fatto solo due classi sociali, e cioè il «gran signore» oppure il lazzaro vero e proprio, e cioè appunto il proletario, o meglio sotto-proletario. Il borghese quindi non si lascia vedere mai. Infatti, come abbiamo visto, non a caso egli fa ogni possibile sforzo per presentarsi nelle vesti del «gran signore». Se però gli lasceremo almeno un po’ di spazio, ecco che vedremo riapparire davanti a noi lo stimato provessore, cioè il luminare. Lo troviamo ora intento a scrivere una vasta monografia su un aspetto molto specifico della dottrina che gli compete, e per questo è stato invitato a parlarne. Non si siede, ma se ne resta enfaticamente in piedi. Così fiero egli è dell’abito dal delicato colore avion che ha scelto per l’occasione, e che fascia perfettamente la quasi impercettibile pinguedine che intanto rende il suo aspetto tanto bonariamente rotondo. Del resto il suo stesso viso è così fresco e delicato, nel mentre egli, da consumato attore della docenza quale è, accarezzando l’aria come le sue mani curatissime, quasi sussurra i profondi pensieri che intanto lo ispirano. Ogni cosa in lui sta rigorosamente al suo posto. Ogni ciuffo di capelli. Ogni venatura e timbro della voce. E mai, nemmeno un secondo, un incespicare alla ricerca di un concetto, mai un esitare circa la sofisticatezza delle conoscenze di cui gratifica l’uditorio, mai uno sgomento sostare di fronte alla profondità di ciò di cui è chiamato a parlare. Tutto scorre magnificamente come un maestoso fiume, sul cui scorrere regni la più perfetta compostezza classica. E che splendidi sentimenti, che invidiabile delicatezza d’anima, si nascondono dietro le scelte ideali che gli intanto declama! Requisiti ideali, questi, per essere scelto per essere ammesso e mantenuto tra coloro che il vento che tira vuole essere i privilegiati. Così egli non ha il baffetto stizzoso, e nemmeno il farfallino, di quel luminare della medicina (legale) al cui exploit retorico avevamo assistito (in un precedente articolo) – il sedicente medico dei poverelli. Eppure le allusioni che fa sono sapienti nella scaltrezza proprio come quelle dell’altro. E tale è anche l’ambizione. Il tutto poi – cioè sé stesso da parte di sé stesso – viene incessantemente accarezzato dalla sua voce così carezzevole. Anche qui in una perfezione classica dell’eloquio, che è come una fonte cristallina dalla quale sgorghi solo e soltanto la grazia. Ma eccone ora sopraggiungere un altro. Egli è un arrabbiato, è un ribelle, è un difensore dei deboli e degli oppressi. Ma lo è sul serio, e cioè senza allusioni ed ammiccamenti. È un politico di assalto, lui. Eppure, anche lui, che gusto nella scelta (casual?) degli abiti dimessi che indossa – così in linea come sono con il trend studentesco, trasgressivo, menefreghista e fresco-adolescenziale del momento! E che fascinosa e conturbante virilità emana il suo aspetto da Che Guevara europeo post-litteram! E che eleganza demodèe nel mozzicone di sigaro che fa rotolare tra i suoi bianchi e curatissimi denti da rivoluzionario in pantofole. Chi sarà il suo sarto e chi il suo dentista? Tuttavia vi è anche una versione del borghese auto-compiaciuto, che è ben meno plateale e ben più introversa di queste ultime. Essa infatti non è nemmeno sorridente. Anzi è preoccupata, seria, guardinga, in allarme. Eppure fermamente convinto del suo valore egli lo è lo stesso. Ed anche in questo caso gioca un ruolo fondamentale il fatto che è evidentemente napoletano. Ogni particolare del suo muoversi e dei suoi gesti lo mostra, infatti. Ed anche il modo in cui parla e si veste. Non sarà allegro, ma comunque è uno che non si lascia sorprendere. Ed abbiamo già visto che sotto l’olimpico riso del Napoletano, è proprio questo che si nasconde. Egli è il borghese quando va in banca. Osserviamolo dunque. Nonostante sia anziano, egli si muove a scatti e velocemente – come un animale in costante allarme –, mostrando così i segni inequivocabili di ciò che qui a Napoli si tende a definire come «intelligenza, cioè (notoriamente) invulnerabile scaltrezza, ovvero la fulminea prontezza a parare i colpi così come ad assestarli. A contraddizione di questa esibizione di forza, il ghigno che ha sulla faccia oscilla però in modo piuttosto incerto tra lo sprezzo (a cui accennano le ali del naso lievemente sollevate e sul punto di diventare frementi nel caso se ne desse ad esse l’occasione), la scaltrezza (a cui accennano le palpebre superiori in un incipiente posa grottesca), ed infine l’esplicita, tipica, affermazione tradita a un atteggiamento delle labbra: ‒ «Non vi illudete e nemmeno ci provate. Perché qui nessuno mi fa fesso!». Non so esattamente di cosa lui abbia paura, o cosa lo spinga a tutto quel dispiego di energia. Forse è l’atteggiamento di allarme di chi ha in tasca molti soldi liquidi, o è forse la necessità di differenziarsi dagli altri clienti – mostrando così loro che al suo confronto sono solo dei poveri diavoli –, o infine è forse la preparazione alla lotta che tra poco ingaggerà con il cassiere. Il quale, essendo anche lui napoletano, potrebbe ben essere un possibile imbroglione. In ogni caso, è trascinando il peso di tutto questa lotta e dissidio interiore, e della relativa obbligatoria teatralità, che egli si avvia verso lo sportello dov’è stato appena chiamato. Ditemi, infine, ma forse noi non vivremmo molto meglio se riuscissimo a fare a meno di questo strascico così pesante (sebbene così sfarzosamente barocco) di comportamenti solo accessori (rispetto all’essenziale) che intanto l’Essenza ci impone attraverso il canone? Io credo proprio di si!
Note 1 Cosa del resto attestata anche da La Capria nel parlare di una sostanziale unità delle classi a Napoli [Raffaele La Capria, L’armonia perduta, in: Silvio Perrella, Raffaele La Capria. Opere, Mondadori, Milano 2003, p. 676-679]. 2 Giacomo Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani, in: Rolando Damiani, Giacomo Leopardi. Poesie e prose, Mondadori, Milano 1996, p. 441-480. 3 Nino Leone, Vita quotidiana a Napoli ai tempi di Masaniello, Rizzoli, Milano 1994, II p. 30-49. 4 Tommaso Campanella, La Città del Sole, Newton Compton, Roma 2003, p. 41. 5 Raffaele La Capria, L’armonia perduta, in: Silvio Perrella, Raffaele La Capria... cit., p. 646-663, 667-670. 6 Michail Lermontov, Un eroe del nostro tempo, Rizzoli, Milano 1996. 7 Karl Kerenyi, Dioniso, Milano, Adelphi 2011,II, 3 p. 255-348. 8 Raffaele La Capria, L’armonia perduta, in: Silvio Perrella, Raffaele La Capria... cit, p. 667-670.
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